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Autore: schwarzlight    27/01/2011    7 recensioni
*Questa storia si è classificata quarta al contest "Colori e... ore!" indetto da Emily Alexandre*
C’era una volta un giovane imperatore, forte e amato da tutti, ma egoista.
Ogni notte, alle quattro, attraversava un portale magico,
per andare dalla fanciulla della fonte,
colei per il quale amore, avrebbe abbandonato il proprio regno.
C’era una volta un vecchio imperatore, saggio e stimato, ma triste.
Ogni notte, alle quattro, si recava sulle rive del lago, inseguendo un sogno.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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green eerie





GREEN EERIE












C’era una volta un giovane re,
abile nell’arte della guerra, amato dalla sua gente e dai suoi soldati.
 Molte fanciulle di nobile stirpe gli vennero presentate,
ma mai nessuna fu in grado di rapire il suo cuore.







Era una giornata migliore di tante altre. I falchi si lasciavano trasportare dal vento che percorreva il cielo terso, in cerca di prede su cui calare gli affilati artigli, mentre a terra i segugi fiutavano le tracce lasciate dalla selvaggina. I raggi solari filtravano attraverso i rami, illuminando il gruppo di cacciatori a cavallo. Il giovane in testa alla comitiva portò due dita alla bocca e lanciò un acuto fischio; un elegante e maestoso falco scese planando, per poi appollaiarsi sul braccio dell’uomo.


- E’ proprio una magnifica bestia, maestà!


Il sovrano sorrise compiaciuto al complimento del comandante delle sue truppe. Sì, era un animale splendido, e ne andava particolarmente fiero, avendolo addestrato lui stesso.


- Vi ringrazio, generale, ma i vostri segugi non sono affatto da meno: è grazie a loro se oggi abbiamo catturato così tante prede. E a proposito… è il caso di tornare. Le nostre dame staranno aspettando impazienti il loro pranzo.


E così, richiamati i cani e i rapaci, i nobili si avviarono verso la tenuta da caccia della famiglia reale, che era, di fatto, un vero e proprio castello, che rivaleggiava con il palazzo della capitale in quanto a splendore e maestosità. L’enorme parco che lo circondava arrivava a estendersi fino alle montagne, coprendo un’area tanto vasta che era difficile conoscerla nella sua interezza. Specie per i sentieri montani, non ci si muoveva mai senza una guida. Bastava prendere la direzione sbagliata, e un bivio poteva trasformarsi nella tua condanna a morte. Senza contare il pericolo di frane: il terreno diveniva molto cedevole in seguito alla pioggia.


E il giorno prima aveva piovuto. Molto e a lungo.


L’errore del guardiacaccia fu quello di non aver previsto una simile eventualità.
L’errore del giovane re fu quello di camminare troppo vicino al bordo del sentiero.
L’errore delle guardie fu quello di non esser riusciti ad afferrarlo in tempo.


Il terreno cedette sotto il peso del cavallo, e il sovrano si trovò a precipitare dal ripido fianco della montagna, in una discesa costellata di rami di pino e arbusti, che colpirono lui e l’animale, ferendo e graffiando.
Nella caduta, sbatté violentemente la testa.


E fu il buio.





Quando si risvegliò, la luce soffusa indicava che il tramonto si stava avvicinando.
Si guardò attorno, dapprima alla ricerca del cavallo, ormai già sparito, e poi tentando di riconoscere il luogo in cui si trovava, o al limite di orientarsi. L’unico riferimento che possedeva era il sentiero di montagna, diversi metri sopra la sua testa e irraggiungibile dal punto in cui era finito. Guardando avanti era un’unica, immensa distesa di alberi, senza che si riuscisse a intravederne la fine, o una qualche via che portasse al castello.
Si rialzò a fatica. Fortunatamente non si era procurato ferite gravi, ma le contusioni limitavano comunque la velocità dei suoi movimenti.
Trovò la sua spada poco più in là. Almeno avrebbe potuto difendersi, in caso di attacco da parte di animali selvatici.
Cercò di richiamare il suo falco, sperando che fosse ancora in zona; al primo fischio, però, non arrivò alcun responso, e allora il re si mise in marcia in direzione del castello, continuando a fischiare a intervalli regolari, finché il fedele animale non ritrovò il proprio padrone. La presenza del rapace era confortante in un ambiente sconosciuto e a tratti cupo come la foresta, che non celava solo bestie feroci, ma anche creature ben più evanescenti e pericolose.


Gli unseelie.


La maggior parte di loro erano solamente fastidiosi, e tutt’al più si limitavano a danneggiare i raccolti e a far dispetti di poco conto. Ma poi c’erano loro, i principi degli spiriti, i più terribili e crudeli, che nessun uomo, o creatura vivente, avrebbe mai voluto incontrare.
Fortunatamente, nella zona non era attestata la presenza di nessuno fra questi mostri… rimaneva però il problema delle specie meno dannose, che avevano lo stesso il potere di farlo perdere più di quanto già non lo fosse, costringendolo a girare in cerchio fino allo stremo.
Controllò gli oggetti che aveva con sé: il pugnale di ferro che si era portato dietro per precauzione era l’unico che potesse utilizzare per respingere presenze indesiderate. Non aveva argento addosso, né campanelli, né vedeva in giro un cespuglio di sambuco di cui prelevarne le bacche.
Preparandosi già all’arrivo della sera, si tolse la tunica damascata e la rivoltò, indossandola al contrario: uno dei vecchi trucchi per tenere alla larga gli unseelie minori.


Camminò per un bel pezzo, quando intravide un movimento nella semioscurità creata da un pino. Sfoderò la spada, temendo un lupo, o un leopardo. Non notando altre ombre, decise di controllare lui stesso. Si avvicinò con cautela, evitando di fare rumore, ma ciò che aveva intravisto sembrava non esistere. Nel luogo in cui pensava si nascondesse una fiera, in realtà non c’era nulla.
Proprio quando stava per tornare indietro, però, un altro spostamento di rami alla sua sinistra lo allertò. Si girò di scatto, puntando la propria arma nella direzione del rumore.


E a qualche metro da lui, la vide.


Una ragazza vestita di verde, i capelli castani e gli occhi smeraldo che lo osservava in silenzio.
Il giovane re rimase incantato dalla delicata bellezza di lei, e per un attimo non fu capace nemmeno di pensare. Fu la ragazza a muoversi per prima, alzando un braccio, su cui il falco del re si posò, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lo lasciò andare, e si dileguò dietro a un gruppo di alberi. Lui non poté fare a meno di seguirla, ma sembrava non raggiungerla mai.
Lei continuava a richiamare il falco, rivelando la propria posizione, e poi a fuggire. Il re non intravedeva altro che lembi del suo vestito, o i capelli color mogano che sparivano dietro i rami. Voleva arrivare a lei, guardare di nuovo in quegli occhi verdi che rispecchiavano la foresta, stringerla a sé, baciarla, farla sua. Ma la ragazza sembrava non stancarsi mai, e questo gioco andò avanti per ore, fino a che, invece della sua delicata figura, non apparve una luce.


Una, due, tre torce che si avvicinavano.
E voci. Voci che chiamavano il suo nome, che lo cercavano da chissà quanto tempo.
Si avvicinò al gruppo di guardie, che esultarono alla vista del loro sovrano sano e salvo. Gli porsero un mantello e gli diedero un cavallo, dopo essersi assicurati che non fosse ferito. Il re, però, non ascoltava le loro parole, perso com’era a cercare con lo sguardo colei che l’aveva portato in salvo.
E solo prima di andarsene, girandosi un’ultima volta verso il folto della foresta, intravide la dolce figura della ragazza.
Giurò di tornare a cercarla, di conoscere il suo nome, e di portarla con sé, chiunque lei fosse.


Qualunque cosa lei fosse.







Scoppiò la guerra, e il giovane re partì per il fronte.
Passò molti mesi a proteggere il suo regno,
sconfiggendo i nemici e conquistando nuove terre.
Cominciarono a chiamarlo imperatore, lo incoronarono imperatore.







L’imperatore abbandonò i documenti sulla scrivania dello studio e uscì sul balcone, alla brezza notturna. Il suo sguardo spaziava sull’infinita distesa di alberi che si estendeva fino alle montagne, quelle stesse montagne che due anni prima erano state protagoniste del loro incontro.


Suo e di lei.


Lei, quella creatura misteriosa e affascinante che l’aveva tratto in salvo guidandolo fuori dalla foresta. Lei, che era rimasta nei suoi pensieri ogni singolo istante. Lei, che aveva gli occhi del colore della natura.
Lei, che quando finalmente era finita la guerra, aveva continuato a cercare senza sosta, trasferendo persino la corte alla tenuta di caccia, sperando di ritrovarla.
Ma mai una volta gli era di nuovo apparsa.


Decise di uscire, di andare nel parco. Ora che il regno si era tramutato in impero, non aveva avuto un attimo di pace, lavorando costantemente ai problemi del territorio.
Era ora di riposare.


E così fece.


Si diresse verso il piccolo lago ai margini del bosco, evitando di farsi vedere dalla sua scorta personale. Voleva stare solo. Voleva pensare.
E guardare le stelle, cosa che non faceva da troppo tempo.
Una volta arrivato, si distese sulle rive, e lì rimase.





Fu nel cuore della notte che una musica lo svegliò.
Avvertiva appena una melodia soffusa e il rumore di percussioni, ma per quanto si guardasse attorno, non capiva da dove potesse provenire.
Ignorando i pericoli in cui poteva incorrere, decise di cercare l’origine di quei suoni. Seguì la direzione di provenienza della musica aggirando il lago, e arrivando ai confini del bosco. Ne percorse il perimetro, fino a che un passaggio posto fra una betulla e un acero non attirò la sua attenzione. Fece un passo oltre la soglia, e il bosco era divenuto come la navata di una chiesa, le chiome degli alberi a formare sesti acuti.
La sua parte razionale lo avvisava dell’origine soprannaturale della cosa, e gli consigliava di fuggire, ma il suo cuore lo spingeva a continuare, mentre le gambe marciavano imperterrite lungo il viale creatosi.
La musica si faceva più forte man mano che avanzava, e cominciava a distinguere chiaramente il suono di tanti piccoli flauti, sonagli e tamburelli, e una voce femminile.


Il viale finì, divenne di nuovo sentiero, e lasciò posto a una fonte.
Una polla d’acqua cristallina il cui fondo sembrava esser dotato di luce propria, attorno alla quale stavano diverse piccole creature, simili a uomini in miniatura, ma dalle proporzioni tozze e le orecchie a punta. Erano loro i misteriosi suonatori, che con la loro danza divertivano altri loro simili, facendoli ballare per la piccola radura.


E poi, nel cerchio formato dai piccoli ballerini, c’era lei.


L’abito verde chiaro, semplice, che ad ogni giravolta lasciava intravedere le gambe dagli spacchi laterali. I capelli fluenti che le ricadevano sulle spalle e le braccia nude, i passi eleganti, i movimenti leggiadri ma appassionati. Era come se ballasse con un accompagnatore invisibile, come se ballasse con il vento. Il suo canto, la sua voce come la più dolce e bella delle melodie.
E quegli occhi verdi, inconfondibili e indimenticabili.
Lei era lì, a un passo da lui.


L’aveva tanto cercata, e lei era lì.


Si nascose. Non voleva interrompere quella danza, e aveva timore della reazione dei piccoli suonatori… e temeva che lei scappasse.
Così rimase celato nel suo nascondiglio, a contemplare la scena del ballo della fanciulla della fonte e dei folletti.
Ma un suo tentativo di avvicinarsi lo tradì. Il suono di un rametto spezzato bastò ad allertare le creature, che scomparvero in un batter d’occhio. Solo lei non se n’era andata. Nel girarsi verso il rumore, fece l’errore di incontrare gli occhi di colui che l’aveva provocato, rimanendo impossibilitata a muoversi.
Perché le creature magiche, siano esse seelie o unseelie, non potevano dileguarsi se esisteva un contatto visivo.


E l’imperatore questo lo sapeva.


Si avvicinò alla timorosa ragazza, stando bene attento a guardarla sempre negli occhi senza sbattere le palpebre.


- Non aver paura – la rassicurò – non è mia intenzione farti del male. Voglio solo ringraziarti. Quel giorno… sei stata tu ad aiutarmi, giusto?


Le sue difese cominciarono ad allentarsi, sembrava aver compreso le parole del regnante, ma ancora si dimostrava diffidente.
Ma lui non ebbe l’occasione di parlarle oltre. I suoi riflessi gli permisero di afferrare in tempo il rametto che gli era stato lanciato da un cespuglio vicino, e quando si girò, lei era scomparsa.





Il giorno dopo il passaggio era sparito.
Decise di aspettare di nuovo il calare della notte, e l’attesa lo premiò. Di nuovo, il viale tra la betulla e l’acero era apparso, e lo condusse alla fonte, dove gli si presentava la stessa scena della notte precedente.
Anche questa volta i folletti smisero subito di suonare appena lo videro, ma lei rimase.
Tenendosi sempre distante, gli lanciò uno sguardo titubante, ma continuò a ballare, accompagnandosi con il suo canto.


E questo diede speranza al giovane cuore dell’imperatore.


Ogni notte, alle quattro precise, il portale si apriva, e lui si recava in quel luogo incantato.
A poco a poco, le creature cominciarono ad abituarsi alla sua presenza, e venne il giorno in cui non scomparvero più al suo arrivo. La fanciulla della fonte cominciò pian piano a dargli confidenza, avvicinandosi e trascinandolo nelle danze. Quando le prime luci dell’alba facevano capolino dalle fronde degli alberi che circondavano la piccola radura e la fonte, i musicanti raccoglievano gli strumenti e tornavano ai loro nascondigli, mentre la ragazza e l’imperatore restavano ai margini dell’acqua, parlando, o anche solo godendo della compagnia l’uno dell’altra.


Era una di quelle mattine, quando lui l’attirò a sé, baciandola.
Aveva paura della sua reazione, ma non si sottrasse. Il rosso le colorò le guance, ma non si sottrasse alle sue braccia. Non si sottrasse quando approfondì il bacio, né quando le fece scivolare via le sottili spalline dell’abito. Non si sottrasse al tocco delle sue mani, né quando la distese dolcemente sul prato.
Non si sottrasse, e si amarono.







E così, ogni notte, alle quattro in punto, il portale si apriva,
e l’imperatore raggiungeva la fanciulla amata, tornando solo il mattino dopo.
Ogni notte lui si recava in quel mondo magico,
e un giorno portò lei nel suo, per farne la sua regina.







L’imperatore percorreva a grandi falcate i corridoi, seguito dal suo consigliere, nonché confidente e amico fidato.


- Ma si può sapere da dove viene fuori questa ragazza che ti sei messo in testa di sposare?


- E’… una ninfa, uno spirito dei boschi, chiamala come vuoi. Ma se non è lei, non sarà nessun’altra!


Il consigliere era incredulo. Non bastava il fatto che ultimamente il suo sovrano sparisse ogni notte e ricomparisse la mattina dopo, senza che nessuno sapesse dove si recava e cosa faceva tutte quelle ore.
Adesso veniva fuori che aveva un’amante, quella che lui definiva “una fata”. Doveva vederla con i propri occhi, anche se era sicuro che si trattasse di una qualche donna di bassa levatura che lo aveva circuito, riuscendo, tra l’altro, nell’impresa.
Era pronto a ricacciarla da dove era venuta, ma quando l’imperatore lo fece entrare nei suoi appartamenti, dove lei lo aspettava, rimase senza fiato.
Mai aveva posato gli occhi su creatura più bella. Ora tutti i discorsi fatti dall’altro sulla natura non umana della ragazza gli sembravano più che plausibili: la sua bellezza non era terrena.


E seppur mantenne dei dubbi, non si oppose all’unione dei due.





Passarono dei giorni, e la cerimonia si avvicinava sempre più.
Un giorno l’imperatore chiamò la fanciulla della fonte nelle sue stanze, e le mostrò la corona che una volta apparteneva a sua madre, la defunta regina.


- Questa presto sarà tua. Governerai con me, fianco a fianco, e potremo rimanere insieme in ogni istante, per sempre. Non ci sarà nessun portale a separarci.


Poi prese il gioiello, e lo posò sul capo dell’amata.
Ma appena lasciò la corona, ecco che la pelle di lei cominciò a seccarsi e a perdere lucentezza, i capelli a sbiadire e divenire opachi, il verde degli occhi si tramutò gradualmente in un grigio spento, senza vita. La corona sembrava pesarle terribilmente, e quando il giovane, sconvolto, vide lo sguardo sofferente della ragazza… allora capì.
Capì che le catene che le stava imponendo l’avrebbero uccisa. Lei, uno spirito della natura, non era fatta per il mondo degli uomini. Doveva essere libera, forte, bella. Doveva continuare a danzare per i boschi, a bagnarsi nei fiumi e a cantare nel vento.
Era là fuori la sua vita, non tra le mura aride di un palazzo, adornata di gioielli pesanti e stoffe soffocanti.
Diceva di amarla, ma solo in quel momento si rese conto di esser stato un egoista.


Le tolse la corona, gettandola contro una parete, e la prese per mano, trascinandola fuori dal castello, mentre lei già riacquistava il suo aspetto originario.
La condusse al lago, sul margine del bosco, dove il passaggio per la fonte era rimasto aperto fin dal giorno in cui l’aveva portata con sé, come ad aspettare il ritorno della signora della fonte.
Si fermò.


- Perdonami… - mormorò stringendola a sé come mai aveva fatto, assaporando il suo profumo di fiori, beandosi della freschezza della sua pelle e della morbidezza dei suoi capelli. Lei ricambiò il gesto, abbandonandosi al calore del suo abbraccio, alla passione con cui la stringeva, al suo essere umano.
Poi quella frase.


- Verrò con te, non voglio lasciarti, non posso!


Spalancò gli occhi, si liberò dalla sua stretta e oltrepassò l’arco creato dalla betulla e dall’acero.
Pronunciò una parola, e i rami delle due piante iniziarono a ostruire il passaggio.
Lui tentò di bloccare la formazione della barriera, ma era inutile. Si sentì impotente di fronte alla magia, e poi disperato di fronte agli occhi di lei. Quegli occhi che aveva così tanto amato, ora lo fissavano pieni di lacrime e dolore. Perché stava facendo questo, perché?
Continuava a chiamare il suo nome, a cercare di raggiungerla, a chiederle perdono, a confessarle il suo amore. La stava perdendo, perché?


Tu a loro sei necessario. Non è questo il tuo posto… non ora.


La sua voce lo raggiunse mentre l’ultimo spiraglio si chiudeva, mentre l’ultimo guizzo di verde misto a lacrime scompariva.







Il giovane imperatore per giorni tornò al lago,
ma mai una volta il passaggio che tante volte aveva percorso si aprì.
E così, con il ghiaccio nel cuore e la foresta nei pensieri,
si rassegnò a un matrimonio con una principessa che non amava.

La principessa era saggia e di animo buono,
e mai una volta gli chiese dove si recasse ogni notte.
L’imperatore ebbe un erede, forte di braccia e giusto nelle decisioni,
e governò a lungo, serbando sempre in sé il ricordo di un sogno.







La vecchiaia gli faceva patire il freddo più di quanto volesse ammettere.
Ma questo non lo frenava dal recarsi pure quella notte al lago, sperando in un miracolo. Da quel fatidico giorno, ogni notte aspettava le quattro, immaginando di poter ripercorrere ancora una volta il corridoio verde, rivedere ancora una volta la danza della fanciulla della fonte, poterla stringere ancora una volta tra le sue braccia.


Era un sogno, era un’ossessione.


Quante lacrime amare aveva versato in quel luogo? Quante preghiere silenziose? E quanti rami aveva spezzato nel tentativo di raggiungerla?


Così tante… così tanti.


Una lacrima, una preghiera, un ramo per ogni notte passata al freddo.
Una lacrima, una preghiera, un ramo per ogni crepa nel suo cuore.


Ma quella notte nessuna lacrima solcò il viso del vecchio imperatore.
Quella notte c’era la luna piena a illuminare le placide acque del lago, e il sovrano si sedette sulle rive, volgendo le spalle al bosco, rimembrando il tempo in cui si specchiava in una fonte, con al suo fianco quella che ormai era un ricordo, ancora vivido e pulsante.


Si distese a osservare le stelle, come quella prima notte, tanti anni addietro.
E come quella prima notte, una musica flebile attirò la sua attenzione.
Non osò girarsi, timoroso che fosse solo un’illusione, uno scherzo della sua mente stanca.
Si alzò, trepidante nell’attesa di un altro segno.
Un fruscio, come dei passi. Si girò.


Lei era lì.


Bella come nei suoi sogni, più dei suoi sogni.
Lei era lì, e gli sorrideva dolcemente, porgendogli la mano.
Con gli occhi lucidi dall’emozione e il cuore carico di sentimenti, l’imperatore si avvicinò alla ragazza della fonte, prendendole la mano, sfiorandole il viso, quasi assicurandosi che non fosse un altro miraggio. Il sorriso della ragazza si accentuò al tocco di lui, e una lacrima le solcò la guancia.
Poi si sollevò in punta di piedi, per posare le proprie labbra sulle sue.


Un bacio leggero, un bacio intenso.


E il bianco dei capelli tornò a essere biondo, le rughe si distesero, la schiena si raddrizzò e i muscoli riacquistarono il proprio tono.
Ora davanti a lei stava non più il vecchio e saggio imperatore di allora, ma quello giovane ed egoista di una volta.
Ora il suo tempo era finito, il suo dovere l’aveva compiuto.


E il sogno era venuto a prenderlo.


Insieme attraversarono il portale, che si richiuse dietro di loro.
E mai più si sarebbe riaperto.







C’era una volta un giovane imperatore, forte e amato da tutti, ma egoista.
Ogni notte, alle quattro, attraversava un portale magico,
per andare dalla fanciulla della fonte,
colei per il quale amore avrebbe abbandonato il proprio regno.

C’era una volta un vecchio imperatore, saggio e stimato, ma triste.
Ogni notte, alle quattro, si recava sulle rive del lago, inseguendo un sogno.
Una mattina non tornò, e i servi furono mandati a cercarlo in ogni dove.
Solo la corona fu trovata, adagiata fra una betulla e un acero.













Questa storia ha partecipato al concorso indetto da Emily Alexandre "Colori e... ore!", in cui bisognava scegliere un colore, un orario e un personaggio e scrivere una storia basandosi su questi tre elementi. Come è intuibile le mie scelte sono state verde, 4.00 e imperatore.
In realtà questa trama l'avevo in mente (a grandi linee. Mooooolto grandi) da un bel po' di tempo, ma è solo grazie a questo conocrso che sono riuscita a metterla in atto e a darle anche un senso :3
E poi sono molto felice del mio piazzamento, anche perchè (a giudicare dai punteggi) ho gareggiato con storie tutte di alto livello (che tra l'altro non vedo l'ora di leggere *w*)
detto ciò... un paio di appunti sulla storia:
i termini “seelie” e “unseelie” significano rispettivamente amichevole/favorevole o no agli umani. I coltelli di ferro, le bacche di sambuco, i campanellini e gli abiti a rovescio sono dei rimedi contro le creature magiche dispettose che ho trovato tempo fa leggendo uno degli innumerevoli libri che ho in camera, e mi sono limitata a rispolverarli per l’occasione XD
Il verde, poi, da alcune persone era considerato il colore delle creature soprannaturali, e per questo non lo indossavano mai. Quindi mi è sembrato decisamente adatto 8D (essendo anche il colore della natura)
Infine i personaggi non hanno nome. Essendo impostata come una sorta di favola li ho mantenuti un po'...."fumosi", inconsistenti, che non sembrassero troppo reali. Per lo stesso motivo ho limitato al massimo i dialoghi (in particolare la fanciulla della fonte non parla mai, se non in un momento fondamentale)

ok, basta altrimenti saranno più lunghe le note finali che non la storia in sè >_>

Grazie per aver letto!<3
   
 
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