La soluzione del
pirata
*
La
stanza era nella penombra, la luce fioca delle lanterne s´infrangeva contro il
vetro della finestrella oblunga, distillante acqua che non era piovana, ma solo
umidità intessuta nel tramaglio d´argento che vi si rifletteva impotente,
tramontando nel giallo canarino delle pareti che nell´oscurità e ai suoi occhi
poco allenati risultavano di un marrone opaco e sporco, della stessa tonalità di colore posseduta dalla birra che
avevano bevuto qualche ora prima.
E
la sentiva agitarsi sul fondo dello stomaco quella pinta di birra schiumante, irrequieto
sciabordio.
Onde di mare. Le era mancato
quel suono, rifletté aguzzando le orecchie ai rumori esterni.
Il
ritmo soffice e lento della risacca contro gli scogli in mille spruzzi e
gorgogli risuonanti, che fracassava con forza le propaggini lunghe e liquide
che si trovava al posto di braccia e mani sui fianchi della Sunny.
E
il tepore dei venti caldi a gonfiare le vele e far vibrare i cavalloni
arricchendoli di acciaccature gibbose e sporgenze rialzate. Grosse masse di
flussi mugghianti e colonne tempestate di blu oltremare nella tempesta che
infuriava per cielo e per terra e tutt´intorno. Ma più di tutto, ciò che di cui
aveva provato nostalgia in un soffio al cuore era stato... Toc toc.
Uhm?- Un attimo di
silenzio respirato, il mare smise di agitarsi nella sua immaginazione ed eccolo.
Il riaffacciarsi prepotente di quel toc molesto alla porta.
Chi poteva mai
essere a quell´ora?
Si
alzò con lentezza dal materasso tiepido, attenta a placare la curiosità e il
filo d´ansia che la smuoveva dabbasso in un intreccio inestricabile. Aveva
lasciato Franky su in coperta ad occuparsi del resto, dopo aver controllato che
la rotta fosse quella giusta da proseguire e dopo che il carpentiere quasi
l´aveva costretta perché si convincesse ad andare a riposare. Non dubitava
fosse anche il desiderio sottotrama di voler stare solo con Robin a smuovere
tutto quel prodigarsi per lei comunque, o almeno il tono d´urgenza con cui
l´avesse spedita nella propria cabina. Due anni erano due anni dopotutto e pur
se costituito per tre quarti di ferro, Franky rimaneva pur sempre un uomo, con
dei precisi bisogni fisiologici da soddisfare.
Ridacchiò
con malizia spassionata pensando potesse quindi ritenere con assoluta sicurezza
non provenissero da lì le seccature di quella scomoda interruzione. Ingoiò uno
sbadiglio Nami, affrettandosi a vedere chi fosse l’inopportuno scocciatore e
ciabattò trascinando i piedi sino alla porta. Attraverso lo spiraglio tutto ciò
che riuscì a distinguere fu il capello di paglia ben familiare e mani più
grandi e callose di quanto ricordasse, concentrate nell´atto di stringerlo in
una presa spasmodica tra polpastrelli ruvidi.
Rufy
le rivolse un sorriso che non era grande e non gli riempiva metà faccia, ma
rimaneva ugualmente bello, il sorriso del suo capitano.
"Ohi
Nami" la salutò e stiracchiò la bocca in un altro sorriso abbozzato delle
scuse cui non dava mai voce, anche dopo suon di ceffoni e manrovesci sulla
collottola, dopo che la sua testa era diventata una massa bitorzoluta resa
irriconoscibile dai bernoccoli giganteschi.
"Rufy?"
corrucciò la fronte lei, troppo sorpresa per essere anche infastidita.
"Sai che ora è?" aggiunse però in tono di rimprovero subito dopo, le
sopracciglia scure aggrottate. Il sorriso di lui parve appannarsi in modo quasi
impercettibile, una preoccupazione che nulla aveva da spartire con disagio o imbarazzo.
La scrutò con attenzione scrupolosa, ancora quell’ombra dannatamente densa ad
affondare nell’iride e fin sotto le palpebre in cerchi scuri di insonnia e
riposo arretrato.
“Disturbo?”
domandò in tono così serio da farla ammutolire per lo stupore. Un’espressione
compunta che poco gli si addiceva e le strozzò in gola la risposta pungente che
le era salita a fior di labbra.
“No”
si ritrovò a rispondere ancora intontita. “Vuoi entrare?” proseguì spostandosi
di lato in modo da farlo passare. Rufy accennò un sì silenzioso, fece un passo
incerto al suo interno e la porta si richiuse alle sue spalle. Nami incrociò le
braccia al seno, sentendosi improvvisamente troppo scoperta nella scollacciata camicia
da notte e stupida per quella sua sciocca proposta.
“Tutto
bene?”. La voce di Rufy la precedette in quella che sarebbe dovuta essere la
sua prossima domanda, mossa di prassi. Sbatté le ciglia scacciando in un sol colpo
magistrale assuefatto all’abitudine la sonnolenza e il torpore in un angolo
rincantucciato della mente, concentrandosi piuttosto sulla maschera composta
che strideva con gli occhi non più ridenti del ragazzo che le era di fronte.
Rufy quand’era
cresciuto tanto, dannazione?
E
non si riferiva a mere apparenze fisiche quanto allo sguardo maturo con cui le
studiava il volto, cercando tracce di qualcosa che lei era ben lontana dal
comprendere.
“Certo
che sì” sorrise con serenità, ostentando una tranquillità che i suoi pensieri
pessimistici avevano ridotto in brandelli sottili già da un po’.
Usop
avrebbe applaudito della costanza con cui s’aggrappava tenace alla menzogna
bugiarda.
“Sembri
stanca” osservò lui quasi con severità. Nami si costrinse ad essere gentile
quando sarebbe stata sua sola premura soddisfare il desiderio di dargli dello
zuccone e tempestarlo di pugni.
“Lo
sono” ammise annuendo col capo. Erano due giorni che non chiudeva occhio, cosa
si aspettava dunque? Un aspetto fresco di rosa come quello che lui riusciva a
mantenere in qualunque situazione, per quanto dannatamente pericolosa potesse
essere? In ultimo Rufy sembrò notare il letto sfatto e la sua mise con la
perspicacia tardiva che gli era propria.
Sgranò
la bocca in una smorfia che lei non avrebbe stentato a ritenere mortificata, se
non lo avesse conosciuto. Sospirò dinnanzi alla semplice constatazione lui non
avrebbe spiegato un bel nulla se non gli avesse cavato lei stessa le parole con
le tenaglie in modo pratico, veloce e (in)dolore.
“Volevi
qualcosa?” s’accinse a domandargli sbrigativa.
“Eh?”si
grattò un orecchio prestandole poca attenzione. Nami trattenne a stento
l’impulso di affondare le dita tra i capelli, ma mostrò minacciosa il pugno
chiuso. Rufy sorrise con sfacciataggine spensierata opposta alla discrezione in
direzione del vaso di fiori sulla scrivania.
“Cosa
diavolo vuoi da me?” Nami richiese già meno disponibile, sfiancata da quel modo
di fare. Lui distolse lo sguardo dalle rose con cui Sanji aveva provveduto a
riempire le camere da letto delle sue adorate Robin-swan e Nami-chan e uniche
scampate al massacro conseguitone.
Lo
puntò nuovamente sulla navigatrice, un sospiro scaturito più dagli occhi che
dal cuore.
“Posso
dormire qui?”.
“Dormire”
ripeté Nami impostando un’aria poco sveglia. “Dormire…” boccheggiò a corto di
reazioni, “con me? Perché?”.
“I
ragazzi russano troppo e io non riesco a chiudere occhio” si lamentò prontamente
e se lei non avesse saputo fosse impossibile, avrebbe quasi creduto l’aria
bastonata fosse studiatamente supplichevole.
Ma
lo sguardo era serio e di una tristezza così profonda che lei avrebbe potuto
affondare gli occhi nei suoi senza mai riemergervi nello stesso punto, sul pelo
delle ciglia. Erano di un nero così vasto e radicato, sensibile al minimo
cambiamento o manifestazione dei sentimenti altrui, che ritenne avrebbe potuto soffermarvi
il proprio tante volte da perderne il conto senza riuscire tuttavia a trovare
la via del ritorno da quell’abisso priva di un log pose adatto.
Era
un colore vischioso e intenso, fatto d’ombre come poteva esserlo il sangue sgorgato
da una ferita al petto e del sangue aveva la sfumatura peccaminosa e il
peccato, quello di essere debitore di morte a chi invero era solo dispensatore
della sua nemesi, la vita e le speranze che ne supportavano l’essenza. Era lo
sguardo di un uomo innamorato come Rufy era sempre stato del suo sogno, ma
diverso nella consapevolezza che esplicava quanto dolore e sofferenze avesse
compreso fossero necessarie per raggiungere la fine ultima e la meta agognata.
Dacché
l’aveva conosciuto Rufy si era spesso comportato come un bambino, irriflessivo
e sempre pronto a seguire le pulsioni dell’attimo che ne precedeva la presa di
coscienza e l’azione successiva e lei si era divertita a sgridarlo; ma non lo
era mai stato o perlomeno non lo era più.
Era
come se avesse smesso un abito indossato per tutta la vita, si fosse separato
da qualcosa di prezioso e importante che andandosene s’era portato via un pezzo
di sé. Avrebbe potuto rispondere con sarcasmo o fargli presente col solito tono
seccato che c’erano tante altre camere libere sparpagliate nella Sunny con solo
l’imbarazzo della scelta.
Non
fece né l’una né l’altra cosa. Andò a un lato del letto e allungandosi e
facendo leva sulle gambe prese l’estremità di un cuscino. Senza neppure
voltarsi glielo lanciò contro e seppe di aver fatto centro colpendolo in piena
faccia da un basso mugolio di protesta che le raggiunse le orecchie, facendola
sorridere impercettibilmente.
“Al
minimo rumore ti sbatto fuori, ci siamo intesi?” chiarì burbera in tono pregno d’avvertimento.
“Sì,
sì” acconsentì lui spolverando il capello e poggiandolo con amorevolezza sul
comodino di fianco all’altro lato, il cuscino sotto il braccio. Entrambi si
infilarono sotto le lenzuola, ma Rufy si scoprì immediatamente mentre lei gli
dava le spalle risoluta e chiudeva gli occhi. Passò solo qualche relativo
attimo di quiete prima che accadesse quello che Nami si era prognosticata con
lungimiranza autolesionista. “Nami…”
Lei
sospirò stringendo la federa tra le falangi, come se da quanto fortemente
riuscisse a mantenere quella presa dipendesse la sua salvezza o più
probabilmente quella del suo raziocinio.
“Cosa
c’è Rufy?” mormorò stentatamente, senza badare a nascondere il fatto
incontrovertibile fosse sfinita. Lui sbuffò, crucciato in un broncio
assolutamente infantile.
“Non
riesco ad addormentarmi” si lagnò in modo patetico.
“Chiudi
gli occhi e sta’ zitto. Vedrai che il sonno arriverà”.
“Ti
dico di no” ribatté lui con ostinazione capricciosa.
“Fammi
capire bene” s’imbufalì Nami “prima era per il rumore, ora quale sarebbe il
problema che te lo impedisce?” concluse inferocita e sbattendogli le lenzuola
contro il fianco nel movimento brusco che aveva accompagnato il suo rigirarsi.
Lui sgranò gli occhi ridicolmente buffo, il ritratto dell’innocenza: “Mi è
passato il sonno”.
Quello
era decisamente troppo anche per lei. Schiacciò il volto nel cuscino, emettendo
un verso pietoso ad udirsi o forse solo un ringhio esasperato soffocato sotto
quel comodo strato di piume.
“Raccontami
cosa hai fatto in questi due anni” propose Rufy, insistendo imperterrito nel
provocarle i nervi.
“Perché
mai dovrei farlo proprio adesso?” mugugnò da sotto l’ammasso di
piume che le copriva il viso.
“Quand’ero
piccolo Makino ci leggeva sempre qualcosa ogni sera anche se il più delle volte
inventava le storia di sana pianta, così per il gusto di accontentarci. Non
c’erano mai pirati nelle favole dei libri, chissà perché” notò distratto con lo
sguardo assente e perso nel vuoto, concentrato a rievocare le immagini care di
quei ricordi lontani. Quel ci detto
con disinvoltura troppo sciolta per poter essere autentica.
“Mi
prometti di stare zitto una volta che avrò concluso?” si arrischiò a borbottare
lei spostando il guanciale e scostandosi i capelli dagli occhi.
In
risposta ricevette soltanto un sorriso radioso che spazzò lontano le nubi che
svettavano poco più sopra, sotto le sopracciglia distese.
“E
va bene”. Chissà perché quella serenità aveva circondato anche lei ora, un
alone che non era dorato e neppure ingrigito, ma realizzato in un calore che
poco aveva a che vedere colla caldaia che Franky aveva acceso. Riscaldava la
nave per il gelo delle acque che la circondavano oltre la compatta patina della
bolla che li proteggeva, un velo di schiuma come quella di sapone, iridescente
anche nell’oscurità degli abissi tenebrosi che stavano traversando.
Scrutò
con una fitta feroce, la puntura di un riccio di mare, una sbucciatura ancor
fresca di caduta sugli scogli, quel viso illuminato di curiosità viva e sincera,
l’interesse pulsante che rendeva tremuli i contorni dell’iride e rilassò le
spalle. Sorridendo tra sé si accinse a narrare al suo capitano le prodi
avventure di quegli anni, senza tralasciare nulla.
In
fin dei conti Rufy rimaneva un bambino e a lei andava bene così.
Due
giorni dopo doveva ancora finire di raccontargli tutto quel che le fosse
capitato. Ogni tanto accadeva lui l’interrompesse per porle qualche domanda precisa,
chiederle più dettagli sull’isola che galleggiava nel cielo. Quasi non ne
avesse mai viste prima, avesse dimenticato di esserci anche stato. Nami lo
lasciava fare e anche se non era raro la mattina lui si ritrovasse con bernoccoli
di origine inspiegabile per gli altri, Rufy pareva non si stancasse mai di
farle ripetere con insaziabilità la stessa frase, più e più volte, porgerle identica
la medesima domanda. “E non hai mai pensato di fuggire? Insomma di venire via
da lì?” gesticolava nel chiederglielo, quasi nervoso. La prima volta lei aveva
aggrottato la fronte, non comprendendo la ragione di quella richiesta.
“Certo
che sì” aveva detto istintivamente, “ma è stato prima tu mandassi quel
messaggio. Allora ho solo ritenuto fosse più saggio rimanere lì e apprendere
quante più nozioni possibili. Weatheria era il luogo ideale per imparare a
gestire al meglio i cambiamenti atmosferici, non credi anche tu?”.
Alla
seconda e poi alla terza aveva farcito il tutto aggiungendo di come avesse
preso in ostaggio Haredatsu, cosa che sembrava divertire Rufy oltremodo.
Quella
sera era stesi l’uno di fianco all’altro, come ogni altra occasione. Con le
braccia incrociate dietro la testa, Rufy scrutava fissamente il ventilatore
appeso al soffitto. Le pale giravano e giravano, il meccanismo acceso e
azionato in modo tale da farle turbinare. Erano giunti in un punto
particolarmente caldo, vicino a qualche vulcano sottomarino probabilmente.
Di
quando in quando voltava il viso alla sua destra verso la navigatrice e
ghignava apertamente, in modo così rumoroso che Nami era costretta a zittirlo
col cuscino premendoglielo in faccia, quand’anche un pugno pareva non sortire
gli effetti sperati. Era forse questa per l’appunto la cagione che la spingeva
a stringersi al petto quell’arma soffice da utilizzare al momento opportuno,
secondo collaudate tecniche di approccio obbligato al mutismo.
“Credi
che anche per gli altri sia stato così?” chiese d’un tratto Rufy, senza
guardarla.
Stava
per domandargli quali rapporti e legami avesse con le Kuja e la Schichibukai che
l’avevano salutato poco prima di partire da Sabaody, fino a quel momento
trattenuta da un riserbo inspiegabile. Rufy aveva lasciato fosse sempre lei a
parlare, ma di quei suoi due anni d’allenamento e di quanto l’avesse preceduto,
non aveva fatto parola né menzione.
Il
tono tranquillo, d’effimera pacatezza che lei aveva imparato in così breve
tempo a gestire come gli scatti impulsivi e repentini a cui da sempre era
abituata con lui, non nascondeva però una sorta di ansia, una sottile nota
d’inquietudine che captò facilmente, quasi fosse stato il sollevarsi mutevole
del vento tra le nuvole e poi giù lungo il corso infinito dell’acqua salmastra,
imbizzarrito come il nitrire di cavalli irrequieti, un suono e una vista che
tanto le mancavano ora che non poteva più osservarle o percepirne sul viso la
brezza precorritrice.
“Non
siamo cambiati”. Lo disse in tono fermo e sicuro. “Sono tutti rimasti
indistintamente, salvo Robin che mai lo è stata, gli stessi idioti d’allora,
Rufy”. Pazzi pronti a seguirti e darti la
stessa vita in cambio delle promesse che rivolgi col tuo sorriso saturo di
speranze.
Annuì
tra sé, come sovrappensiero prima di iniziare ad elencare: “Certo, quello
zuccone di Zoro ha perso un occhio, ma era cieco e ottuso anche prima perciò
non penso cambi molto. Usop ha più muscoli, Franky è gigantesco, Brook è famoso
e Chopper ha lo stesso aspetto di peluche tranne che nella forma di renna e nel
limite del possibile sembra essere diventato ancora più morbido. Sanji…” si concesse
un attimo di pausa concentrata, la fronte corrucciata.
In cosa
esattamente sarebbe dovuto essere diverso Sanji?
“Il
ciuffo” suggerì Rufy e stava già ridacchiando per conto suo mentre lei cercava
di arraffarne il senso. “Cosa?” domandò confusa.
Rufy
si girò con espressione smagliante. “Ha cambiato il verso del ciuffo”.
“Davvero?”
Non ci aveva fatto caso, pensò distratta. Eppure non capiva cosa esattamente in
quell’informazione gli scatenasse tanta ilarità. Perché un particolare del
genere avrebbe dovuto farlo ridere a quel modo?
“Cosa
ci trovi di tanto buffo?” sbuffò a sua volta.
“Nulla”
rise ancora. “Solo che io e gli altri avevamo scommesso lo portasse da quel
lato per nascondere una cicatrice o che fosse nato con un occhio storto.”
Strabico, lo corresse Nami mentalmente.
“Per
senso estetico quindi” concluse lei, prima di aggiungere volutamente noncurante,
osservandosi le nocche: “E come mai io non sono stata messa a parte di questo
piccolo gioco d’azzardo sottobanco?”.
“Oh
beh…” Rufy le lanciò un’occhiata di sottecchi, scrutandola sinceramente
perplesso e scompigliandosi i capelli ripetutamente, come sforzandosi di ricordare.
S’illuminò fiocamente e sorrise di nuovo. “Zoro ha detto che tu ne avresti
approfittato per spillarci dei soldi e che se non volevamo ulteriori debiti
sarebbe stato meglio non dirti niente”.
E
così era colpa di Zoro eh, valutò stizzita. Gliel’avrebbe pagata cara quel
pelandrone scansafatiche, nel vero senso della parola. Sorrise pregustando la
scena in cui in un futuro non così remoto l’avrebbe messo a corrente
dell’ammontare odierno dei suoi debiti, triplicando gli interessi e aumentando ogni
cambiale e profitto del 15%.
“Nami”.
“Sì,
Rufy?” ostentò quel sorriso melenso che prometteva solo guai per il fortunato
che l’aveva acceso, gli occhi resi lucidi e riverberati dal prognosticare
futuri guadagni.
“Avevi
una faccia”, strana e spaventosa, “pensierosa”
concluse reprimendo a fatica i brividi.
“Non
è nulla” ribatté lei agitando la mano a mezz’aria, ancora soddisfatta e con la
mente rivolta altrove.
Si
risvegliò definitivamente quando il capello di Rufy le coprì il viso, la paglia
ruvida come le dita che lo avevano poggiato, granulosa ma non ispida, sabbia
ammucchiata in fili di grano, spighe di sole intrecciate tra loro strettamente,
raspose. E quella morbida striscia sottile di rosso che ricordava il tramonto o
fiori carminio, gli ultimi raggi di brace del sole, illanguidito al suo calare.
Erano
poche le situazioni in cui Rufy si staccasse dal suo cappello e tutte che lo
richiedessero. Quel gesto le sembrò più spontaneo del solito e più caro che in
tanti altri. Alzò lo sguardo perciò, stupita e anche intimidita. Incrociò
quello scuro del capitano, disteso. Come aveva fatto a non accorgersene prima?
Non era insolito, tutt’altro e per questo ne era stata fuorviata. Dacché
avevano ripreso il viaggio insieme non c’era stato un istante in cui Rufy
avesse smesso di sorridere.
“Dovresti
pensare di meno”. Possibile che…? “O
ti verranno le rughe”.
Dopo
una settimana Rufy sarebbe stato capace di affermare con certezza assoluta
quante fossero le pietre del selciato di fronte alla casa di Haredatsu enumerandole
o, benché non l’avesse mai visto se non ricostruendolo nella propria
immaginazione, quanto verde fosse il prato e morbida l’erba piegata con
dolcezza dal vento sulle colline, limpido e smaltato il cielo terso delle
giornate di sole, così vicino da dare l’impressione di poterlo sfiorare
allungando la punta delle dita, e nerastre le nubi in quelle di tempesta.
Aveva
perfino ricreato con cura minuziosa la figura del metereologo, con tanto di
lunga barba e cappello a punta, i dorsi delle mani rattrappiti e rugosi.
Nami
aveva smesso di meravigliarsi al trovarselo di fronte a quegli orari
improponibili. La sera precedente avevano fatto una specie di spuntino di
mezzanotte dal momento che Rufy aveva portato con sé una quantità tale di cibo
da sfamare un’intera caserma di marines.
Nami
non era una sciocca, tutt’altro. Aveva una mente brillante e un’acuta capacità
di giudizio, un metro di valutazione per niente guastato dall’impossibilità di
discernere sentimenti da riflessioni e viceversa. Per comprendere che Rufy
fosse in qualche cosa diverso dal ragazzino infatuato di un’utopia che era
stata costretta a lasciare due anni prima, era bastata qualche occhiata poco
più attenta. Perché sì, lui era cambiato, come tutti loro del resto, e se Nami
aveva pregato quei mesi di separazione portassero a tutti consiglio e li
arricchissero di un acume o un ingegno per cui precedentemente non avevano
spiccato, era stata costretta, per forza di cose e analisi riguardo ciascuno, a
ricredersi miserevolmente.
Stendendo
e obliando questa considerazione di un velo pietoso, ciò che più di ogni altro
sembrava procurarle qualche ansito di preoccupazione che non piombasse subito
nel compito gravoso - noioso -
di ricondurli alla serietà, era proprio il capitano. Il nocciolo della
questione, la causa di quel cambiamento, la trepidazione che scoprì divorarle
il petto e rimbombare contro le costole accingendosi ad affrontare l’argomento.
Respirò
profondamente e voltò il capo. Sospirò in modo buffo, il ringhio che le
sfregava l’esofago strusciandosi come un gatto che faccia le fusa in cerca di
coccole, e mettendosi stesa su un fianco prese a fissare il volto del capitano
che le dormiva accanto, grugnendo sottovoce parole smozzicate e incomprensibili.
Aveva
una grossa molletta sul naso e le labbra annodate e nonostante questi
accorgimenti russava fin troppo rumorosamente. Ad ogni suo ronfare gli angoli
della bocca tremavano ballerini arricciandosi come baffi, un brontolio
sommesso. Scuotendo la testa buttò uno sguardo alla meridiana che segnava
l’ora. Mancava poco all’alba. Le dispiaceva svegliarlo, ma il primo turno di
guardia era proprio il suo e lui doveva per quel momento tornare a dormire
nella sua camera.
Lo
scrollò con energia, ben sapendo che tentativi più lievi sarebbero risultati
inutili, ma non cambiò nulla. Gli tirò le orecchie e i capelli, lo tempestò di
pugni sulla schiena, pizzicò le guance. Stava per buttarlo giù dal materasso,
ma il braccio di Rufy la immobilizzò finendole sopra, sulla gola.
Fece
per scostarlo, ma un mugugno basso la trattenne da quel proposito.
Una
sola parola, le palpebre contratte come tutto il viso in una posa divenuta da
tranquilla a sofferta. Ace.
Nami
strinse gli occhi con ferocia scoprendoli appannati indesideratamente. Un
barbaglio di verità, un pugno nello stomaco, quasi le avessero lanciato contro
una pietra grande come un mattone.
Per quella volta
poteva anche lasciarlo riposare lì.
Nel
buio quasi totale, Nami tastò il lato del materasso. In altri casi avrebbe
sospirato di sollievo scoprendolo vuoto, ma percependolo tiepido al tatto si
ritrovò invece ad alzarsi di scatto.
Scandagliò
la stanza con lo sguardo stretto in fessure per abituarlo alla poca visibilità,
ma la trovò ordinata e priva del soggetto delle sue ricerche. Stava per alzarsi
o rimettersi stesa, una fitta di delusione appena accennata e irrazionale nel
suo essere fin troppo impulsiva, ma un dimenarsi dall’altro lato del letto,
precisamente sul pavimento, la frenò. Giusto in tempo per scrutare Rufy
riemergere dal fondo rotolando nel sonno, un grosso livido violaceo tra occhio
e fronte.
Premette
il dorso della mano sulla bocca soffocando la risata inappropriata sul nascere –
era giusto ridere delle disgrazie altrui? No, certo che no. Ma ridere della
goffa imbranataggine del suo capitano, era ormai doveroso obbligo da assolvere -
e prendendo la coperta.
Gliela
gettò sopra e al mugugno del quasi soffocamento che aveva seguito
l’approssimativo lancio, sogghignò senza ritegno e a cuor leggero.
“Ti
manca mai?”.
La
voce di Rufy era impastata come se le parole faticassero a rotolare fuori,
intralciate nel cammino da qualcosa. Come se parlasse a bocca piena. Nella
realtà però era vuota; la trappola stava solo nelle emozioni che servivano a
bloccare traditrici l’afflusso di pensieri che le animavano.
“A
chi ti riferisci di preciso?” chiese Nami, poco propensa a far altro non fosse borbottare
data l’ora tarda.
Rufy
aveva il capello tra le mani e se lo rigirava con gesti calibrati e precisi, un
giro orario, due antiorari, un rimescolare l’aria bollente pregna dei sussurri
tenui della notte e delle correnti marine esterne. I polsi spigolosi e le
nocche irrigidite, sassolini sulla battigia grandi come pollici di bambini, e
uno sguardo infossato nelle palpebre segnate da occhiaie che il sonno non
avrebbe cancellato, pennello ricoperto di gesso sull’ardesia pece di una
lavagnetta come quella tenuta in cucina da Sanji.
Nero,
bianco, oro-rosso: un gioco di colori che non poteva vedere, ma cui assisteva
con l’abitudine consumata di una fantasia messa a dura prova dall’allenamento
forzato e drastico al quale era stata portata ad assuefarsi.
Scivolava
a volte in uno stato di passività indolente, dolore assuefatto alla pigrizia.
Era
un uomo in quei momenti Rufy e pur di vederlo più grande ed odiandosi
ferocemente per la crudeltà di quel pensiero, Nami quasi desiderava a volte lui
avesse quel tipo di sguardo.
Annacquato
nel torbido del fango denso di ricordi sofferti, squarci insanabili, rimpianti
dal sapore del rancore insopportabile.
“Tua
sorella” rispose e parve annaspare, pesciolino fuor d’acqua, il collo teso. Le
sembrò quasi di scorgere le branchie aprirsi e richiudersi richiamando a sé
acqua che non c’era. Non era acqua però quello che cercava Rufy disperatamente,
la tenacia dell’ostinato.
Il
suono di una certa voce modulata, di un certo calore che Ace aveva sempre
posseduto, anche prima che diventasse percepibile a chi non era mai stato
sfiorato da quelle mani troppo grandi per un ragazzino della sua età se non coi
pugni, del respiro caldo che gli aveva soffiato sui palmi vicino al fuoco,
nelle notti fredde alla fine di ogni cena cacciata, profumo di zolfo e carbone.
Della forza con cui soleva calargli il cappello per richiamarlo all’ordine o
coprirgli la visuale e le orecchie, quando non voleva sentisse o vedesse
qualcosa che sapeva l’avrebbe ferito, dell’abbraccio in cui l’aveva stritolato
agguantandolo per la collottola, una presa alle spalle forte e intensa pur se
breve appena libero di poterlo fare, senza manette ad imprigionarlo.
Lo
vide portarsi il braccio agli occhi e socchiuderli, come quando davanti a un
raggio di sole ci si copre la fronte per paura di bruciarsi, scottarsi al
troppo calore, cocente.
Gli
sfiorò il gomito e in quel movimento qualcosa tintinnò contro la carne, senza
produrre rumori percepibili.
“A
volte” ammise Nami, gli occhi ancorati al bracciale e si morse
inconsapevolmente il labbro inferiore, i denti ad affondarvi impietosi e
arrossarlo.
Sotto
la presa che nulla aveva di delicato o carezzevole, poteva sentire l’acquattarsi
di tremori che non raggiungevano lo strato superiore della pelle, brividi del
sangue accavallato in fremiti sotto l’epidermide, implosi in bolle di dolore
localizzato.
“Come
fai?”.
Come fai a
sopravvivere? A far finta di nulla?
Cercò
di sorridere, ma non ebbe la presunzione di ritenere che la smorfia al vetriolo
che aveva impostato fosse poco più che passabile. Avrebbe potuto poggiare la
testa sulla spalla di Rufy, così vicina, ma ancora una volta qualcosa
d’indefinito la trattenne.
“Come
nel nostro caso, so che la separazione non è per sempre. Un giorno torneremo
indietro e allora so che lei sarà orgogliosa di me, di quel che ho fatto. Fino
a quel momento mi conforto pensando che la nostalgia sia passeggera. Tutti
quanti ci aspetteranno nel frattempo”.
Rufy
storse la bocca e Nami seppe con certezza cosa stesse pensando. Come poteva
credere lui di rivederlo? Sarebbe occorso trascorresse così tanto prima potesse
anche solo osare sperare di fare qualcosa del genere… La nostalgia di Rufy era
una sofferenza così atroce che risultava impensabile anche il solo compararla
alla sua. Lei poteva almeno crogiolarsi nella sicurezza che nonostante le
distanze sua sorella stesse bene, fosse felice, viva. Gli arruffò i capelli pigiandoseli tra le dita e
rigirandoseli come monete e monili.
“Un
giorno” lo udì mormorare a denti schiusi e pugni stretti.
“Un
giorno” acconsentì lei voltandogli le spalle e sentendolo fare lo stesso. La
disperazione di quell’assicurazione sussurrata a mo’ di promessa era quasi più
straziante di tutto il resto. Così come la consapevolezza probabilmente non
fosse la sola su quel letto in quel momento con le guance rigate.
“E’
mattino” sbadigliò dondolando le braccia e stiracchiando la schiena arcuata.
Scrollò la testa, la massa pesante che i suoi capelli erano diventati, a
gravarle su collo e spalle come una specie di coperta.
“E’
mattino” annunciò nuovamente, una cadenza più bassa e lievemente perentoria.
La
bolla di non voleva neppur sapere cosa
che gli usciva da una narice, sarebbe bastata forse a far intendere lui non
avesse colto una sola parola da lei pronunciata, perso com’era nel mondo dei
sogni. Qualche pugno più tardi, mentre Rufy barcollava in direzione della
porta, Nami allungava con soddisfazione piacente e voluttuosa i piedi nella
zona calda del letto che lui aveva fino a pochi istanti prima riempito della
sua presenza. Il passo per nulla felpato con cui si stava trascinando la
costrinse però ad abbandonare incautamente la tiepidezza del dormiveglia nel
suo angolino.
“Fa’
meno baccano e cammina sulle punte” minacciò arrochita, gli occhi chiusi.
Lo
strano susseguirsi di tonfi la portò a spalancarli, allibita, prima di
lanciargli contro la lampada del comodino.
“Quelli
dietro sono i talloni idiota!”.
Si
massaggiò le tempie dominando l’incipiente voglia di vedere sparpagliati per la
Sunny i resti del corpo martoriato del capitano, talloni compresi e punte
escluse.
“Razza
di zuccone” biascicò rituffando assonnata la testa nel cuscino, le coperte a
coprirle il viso fino alle sopracciglia. Profumo ad inondare le narici e
raggiungere i polmoni, familiare e proprio del letto ormai quanto il suo.
Sorriso sfumato sparso a ventaglio sul guanciale e intorno alla vita. Sembrava
risuonare, goffo nell’abbraccio attorcigliato e inestricabile in cui Rufy si
era stretto a lei la sera precedente, quel grazie
appena detto contro l’orecchio, ad un soffio di bacio dal lobo, gentile come
lui e la sua presa. La soluzione del pirata era sorridere, sempre e ovunque in
risposta al dolore, ma almeno con lei Rufy poteva smettere di esserlo anche se
per poco.
Attenuare
le fitte al costato e il cupo e forsennato lavorio dei battiti. Anche il sangue
smetteva di piangere e Rufy poteva dormire sereno. Navigare in porti sicuri con
lei al timone.
N/A:
Assolutamente
basita da quanto scritto qui sopra. E’ una Runami e sono troppo felice di
averne scritta finalmente una per comprendere fino in fondo se sia totalmente e
irreparabilmente qualcosa di leggibile, oltre che intellegibile.
Non
ho avuto ancora il piacere di leggere molte altre storie su questo pairing e ad
esser sincera molte sul fandom, la passione per questo anime meraviglioso è
nata dall’epoca delle prime trasmissioni in tv, ma per il manga vero e proprio
è qualcosa di piuttosto recente; spero perciò di rifarmi al più presto e mi
scuso anticipatamente per la poca originalità nel tema che immagino sarà stato
trattato già da altri autori e forse per la banalità con cui l’ho resa.
L’idea
però era così bella e la scena che ha preso forma nella mia mente così
minuziosa che non sono riuscita a trattenermi dal metterla su carta. Questa è
una coppia che sinceramente ho adorato sin dall’inizio pur se
inconsapevolmente. Ho capito perché solo vedendo il decimo film: è stato come
lo squillo di trombe e spalancarsi di porte al mondo.
Davvero,
quel film mi ha aperto gli occhi XD. Mi auguro di avervi regalato un sorriso e
soprattutto di non aver stravolto più del necessario il loro carattere, mi
affido ai vostri giudizi al riguardo. Saluti calorosi e grazie di cuore per
avermi dedicato un po’ del vostro tempo leggendo, a presto spero ;)!