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Autore: Ruta    28/01/2011    5 recensioni
“Ti manca mai?”.
La voce di Rufy era impastata come se le parole faticassero a rotolare fuori, intralciate nel cammino da qualcosa. Come se parlasse a bocca piena. Nella realtà però era vuota; la trappola stava solo nelle emozioni che servivano a bloccare traditrici l’afflusso di pensieri che le animavano.
“Tua sorella” rispose e parve annaspare, pesciolino fuor d’acqua, il collo teso. Le sembrò quasi di scorgere le branchie aprirsi e richiudersi richiamando a sé acqua che non c’era. Non era acqua però quello che cercava Rufy disperatamente, la tenacia dell’ostinato. Il suono di una certa voce modulata, di un certo calore che Ace aveva sempre posseduto, del respiro caldo che gli aveva soffiato sui palmi vicino al fuoco, nelle notti fredde alla fine di ogni cena cacciata, profumo di zolfo e carbone.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nami
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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La soluzione del pirata

 

 

 

*

 

 

 

 
La stanza era nella penombra, la luce fioca delle lanterne s´infrangeva contro il vetro della finestrella oblunga, distillante acqua che non era piovana, ma solo umidità intessuta nel tramaglio d´argento che vi si rifletteva impotente, tramontando nel giallo canarino delle pareti che nell´oscurità e ai suoi occhi poco allenati risultavano di un marrone opaco e sporco, della stessa  tonalità di colore posseduta dalla birra che avevano bevuto qualche ora prima.
E la sentiva agitarsi sul fondo dello stomaco quella pinta di birra schiumante, irrequieto sciabordio.

Onde di mare. Le era mancato quel suono, rifletté aguzzando le orecchie ai rumori esterni.
Il ritmo soffice e lento della risacca contro gli scogli in mille spruzzi e gorgogli risuonanti, che fracassava con forza le propaggini lunghe e liquide che si trovava al posto di braccia e mani sui fianchi della Sunny.
E il tepore dei venti caldi a gonfiare le vele e far vibrare i cavalloni arricchendoli di acciaccature gibbose e sporgenze rialzate. Grosse masse di flussi mugghianti e colonne tempestate di blu oltremare nella tempesta che infuriava per cielo e per terra e tutt´intorno. Ma più di tutto, ciò che di cui aveva provato nostalgia in un soffio al cuore era stato... Toc toc.

Uhm?- Un attimo di silenzio respirato, il mare smise di agitarsi nella sua immaginazione ed eccolo. Il riaffacciarsi prepotente di quel toc molesto alla porta.
Chi poteva mai essere a quell´ora?
Si alzò con lentezza dal materasso tiepido, attenta a placare la curiosità e il filo d´ansia che la smuoveva dabbasso in un intreccio inestricabile. Aveva lasciato Franky su in coperta ad occuparsi del resto, dopo aver controllato che la rotta fosse quella giusta da proseguire e dopo che il carpentiere quasi l´aveva costretta perché si convincesse ad andare a riposare. Non dubitava fosse anche il desiderio sottotrama di voler stare solo con Robin a smuovere tutto quel prodigarsi per lei comunque, o almeno il tono d´urgenza con cui l´avesse spedita nella propria cabina. Due anni erano due anni dopotutto e pur se costituito per tre quarti di ferro, Franky rimaneva pur sempre un uomo, con dei precisi bisogni fisiologici da soddisfare.
Ridacchiò con malizia spassionata pensando potesse quindi ritenere con assoluta sicurezza non provenissero da lì le seccature di quella scomoda interruzione. Ingoiò uno sbadiglio Nami, affrettandosi a vedere chi fosse l’inopportuno scocciatore e ciabattò trascinando i piedi sino alla porta. Attraverso lo spiraglio tutto ciò che riuscì a distinguere fu il capello di paglia ben familiare e mani più grandi e callose di quanto ricordasse, concentrate nell´atto di stringerlo in una presa spasmodica tra polpastrelli ruvidi.
Rufy le rivolse un sorriso che non era grande e non gli riempiva metà faccia, ma rimaneva ugualmente bello, il sorriso del suo capitano.
"Ohi Nami" la salutò e stiracchiò la bocca in un altro sorriso abbozzato delle scuse cui non dava mai voce, anche dopo suon di ceffoni e manrovesci sulla collottola, dopo che la sua testa era diventata una massa bitorzoluta resa irriconoscibile dai bernoccoli giganteschi.
"Rufy?" corrucciò la fronte lei, troppo sorpresa per essere anche infastidita. "Sai che ora è?" aggiunse però in tono di rimprovero subito dopo, le sopracciglia scure aggrottate. Il sorriso di lui parve appannarsi in modo quasi impercettibile, una preoccupazione che nulla aveva da spartire con disagio o imbarazzo. La scrutò con attenzione scrupolosa, ancora quell’ombra dannatamente densa ad affondare nell’iride e fin sotto le palpebre in cerchi scuri di insonnia e riposo arretrato.
“Disturbo?” domandò in tono così serio da farla ammutolire per lo stupore. Un’espressione compunta che poco gli si addiceva e le strozzò in gola la risposta pungente che le era salita a fior di labbra.
“No” si ritrovò a rispondere ancora intontita. “Vuoi entrare?” proseguì spostandosi di lato in modo da farlo passare. Rufy accennò un sì silenzioso, fece un passo incerto al suo interno e la porta si richiuse alle sue spalle. Nami incrociò le braccia al seno, sentendosi improvvisamente troppo scoperta nella scollacciata camicia da notte e stupida per quella sua sciocca proposta.
“Tutto bene?”. La voce di Rufy la precedette in quella che sarebbe dovuta essere la sua prossima domanda, mossa di prassi. Sbatté le ciglia scacciando in un sol colpo magistrale assuefatto all’abitudine la sonnolenza e il torpore in un angolo rincantucciato della mente, concentrandosi piuttosto sulla maschera composta che strideva con gli occhi non più ridenti del ragazzo che le era di fronte.

Rufy quand’era cresciuto tanto, dannazione?
E non si riferiva a mere apparenze fisiche quanto allo sguardo maturo con cui le studiava il volto, cercando tracce di qualcosa che lei era ben lontana dal comprendere.
“Certo che sì” sorrise con serenità, ostentando una tranquillità che i suoi pensieri pessimistici avevano ridotto in brandelli sottili già da un po’.
Usop avrebbe applaudito della costanza con cui s’aggrappava tenace alla menzogna bugiarda.  
“Sembri stanca” osservò lui quasi con severità. Nami si costrinse ad essere gentile quando sarebbe stata sua sola premura soddisfare il desiderio di dargli dello zuccone e tempestarlo di pugni.
“Lo sono” ammise annuendo col capo. Erano due giorni che non chiudeva occhio, cosa si aspettava dunque? Un aspetto fresco di rosa come quello che lui riusciva a mantenere in qualunque situazione, per quanto dannatamente pericolosa potesse essere? In ultimo Rufy sembrò notare il letto sfatto e la sua mise con la perspicacia tardiva che gli era propria.
Sgranò la bocca in una smorfia che lei non avrebbe stentato a ritenere mortificata, se non lo avesse conosciuto. Sospirò dinnanzi alla semplice constatazione lui non avrebbe spiegato un bel nulla se non gli avesse cavato lei stessa le parole con le tenaglie in modo pratico, veloce e (in)dolore.
“Volevi qualcosa?” s’accinse a domandargli sbrigativa.
“Eh?”si grattò un orecchio prestandole poca attenzione. Nami trattenne a stento l’impulso di affondare le dita tra i capelli, ma mostrò minacciosa il pugno chiuso. Rufy sorrise con sfacciataggine spensierata opposta alla discrezione in direzione del vaso di fiori sulla scrivania.
“Cosa diavolo vuoi da me?” Nami richiese già meno disponibile, sfiancata da quel modo di fare. Lui distolse lo sguardo dalle rose con cui Sanji aveva provveduto a riempire le camere da letto delle sue adorate Robin-swan e Nami-chan e uniche scampate al massacro conseguitone.
Lo puntò nuovamente sulla navigatrice, un sospiro scaturito più dagli occhi che dal cuore.
“Posso dormire qui?”.
“Dormire” ripeté Nami impostando un’aria poco sveglia. “Dormire…” boccheggiò a corto di reazioni, “con me? Perché?”.
“I ragazzi russano troppo e io non riesco a chiudere occhio” si lamentò prontamente e se lei non avesse saputo fosse impossibile, avrebbe quasi creduto l’aria bastonata fosse studiatamente supplichevole.
Ma lo sguardo era serio e di una tristezza così profonda che lei avrebbe potuto affondare gli occhi nei suoi senza mai riemergervi nello stesso punto, sul pelo delle ciglia. Erano di un nero così vasto e radicato, sensibile al minimo cambiamento o manifestazione dei sentimenti altrui, che ritenne avrebbe potuto soffermarvi il proprio tante volte da perderne il conto senza riuscire tuttavia a trovare la via del ritorno da quell’abisso priva di un log pose adatto.
Era un colore vischioso e intenso, fatto d’ombre come poteva esserlo il sangue sgorgato da una ferita al petto e del sangue aveva la sfumatura peccaminosa e il peccato, quello di essere debitore di morte a chi invero era solo dispensatore della sua nemesi, la vita e le speranze che ne supportavano l’essenza. Era lo sguardo di un uomo innamorato come Rufy era sempre stato del suo sogno, ma diverso nella consapevolezza che esplicava quanto dolore e sofferenze avesse compreso fossero necessarie per raggiungere la fine ultima e la meta agognata.
Dacché l’aveva conosciuto Rufy si era spesso comportato come un bambino, irriflessivo e sempre pronto a seguire le pulsioni dell’attimo che ne precedeva la presa di coscienza e l’azione successiva e lei si era divertita a sgridarlo; ma non lo era mai stato o perlomeno non lo era più.
Era come se avesse smesso un abito indossato per tutta la vita, si fosse separato da qualcosa di prezioso e importante che andandosene s’era portato via un pezzo di sé. Avrebbe potuto rispondere con sarcasmo o fargli presente col solito tono seccato che c’erano tante altre camere libere sparpagliate nella Sunny con solo l’imbarazzo della scelta.
Non fece né l’una né l’altra cosa. Andò a un lato del letto e allungandosi e facendo leva sulle gambe prese l’estremità di un cuscino. Senza neppure voltarsi glielo lanciò contro e seppe di aver fatto centro colpendolo in piena faccia da un basso mugolio di protesta che le raggiunse le orecchie, facendola sorridere impercettibilmente.
“Al minimo rumore ti sbatto fuori, ci siamo intesi?” chiarì burbera in tono pregno d’avvertimento.
“Sì, sì” acconsentì lui spolverando il capello e poggiandolo con amorevolezza sul comodino di fianco all’altro lato, il cuscino sotto il braccio. Entrambi si infilarono sotto le lenzuola, ma Rufy si scoprì immediatamente mentre lei gli dava le spalle risoluta e chiudeva gli occhi. Passò solo qualche relativo attimo di quiete prima che accadesse quello che Nami si era prognosticata con lungimiranza autolesionista. “Nami…”
Lei sospirò stringendo la federa tra le falangi, come se da quanto fortemente riuscisse a mantenere quella presa dipendesse la sua salvezza o più probabilmente quella del suo raziocinio.
“Cosa c’è Rufy?” mormorò stentatamente, senza badare a nascondere il fatto incontrovertibile fosse sfinita. Lui sbuffò, crucciato in un broncio assolutamente infantile.
“Non riesco ad addormentarmi” si lagnò in modo patetico.
“Chiudi gli occhi e sta’ zitto. Vedrai che il sonno arriverà”.
“Ti dico di no” ribatté lui con ostinazione capricciosa.
“Fammi capire bene” s’imbufalì Nami “prima era per il rumore, ora quale sarebbe il problema che te lo impedisce?” concluse inferocita e sbattendogli le lenzuola contro il fianco nel movimento brusco che aveva accompagnato il suo rigirarsi. Lui sgranò gli occhi ridicolmente buffo, il ritratto dell’innocenza: “Mi è passato il sonno”.
Quello era decisamente troppo anche per lei. Schiacciò il volto nel cuscino, emettendo un verso pietoso ad udirsi o forse solo un ringhio esasperato soffocato sotto quel comodo strato di piume.
“Raccontami cosa hai fatto in questi due anni” propose Rufy, insistendo imperterrito nel provocarle i nervi. 
“Perché mai dovrei farlo proprio adesso?” mugugnò da sotto l’ammasso di piume che le copriva il viso.
“Quand’ero piccolo Makino ci leggeva sempre qualcosa ogni sera anche se il più delle volte inventava le storia di sana pianta, così per il gusto di accontentarci. Non c’erano mai pirati nelle favole dei libri, chissà perché” notò distratto con lo sguardo assente e perso nel vuoto, concentrato a rievocare le immagini care di quei ricordi lontani. Quel ci detto con disinvoltura troppo sciolta per poter essere autentica.     
“Mi prometti di stare zitto una volta che avrò concluso?” si arrischiò a borbottare lei spostando il guanciale e scostandosi i capelli dagli occhi.
In risposta ricevette soltanto un sorriso radioso che spazzò lontano le nubi che svettavano poco più sopra, sotto le sopracciglia distese.
“E va bene”. Chissà perché quella serenità aveva circondato anche lei ora, un alone che non era dorato e neppure ingrigito, ma realizzato in un calore che poco aveva a che vedere colla caldaia che Franky aveva acceso. Riscaldava la nave per il gelo delle acque che la circondavano oltre la compatta patina della bolla che li proteggeva, un velo di schiuma come quella di sapone, iridescente anche nell’oscurità degli abissi tenebrosi che stavano traversando.
Scrutò con una fitta feroce, la puntura di un riccio di mare, una sbucciatura ancor fresca di caduta sugli scogli, quel viso illuminato di curiosità viva e sincera, l’interesse pulsante che rendeva tremuli i contorni dell’iride e rilassò le spalle. Sorridendo tra sé si accinse a narrare al suo capitano le prodi avventure di quegli anni, senza tralasciare nulla.
In fin dei conti Rufy rimaneva un bambino e a lei andava bene così.     

 
Due giorni dopo doveva ancora finire di raccontargli tutto quel che le fosse capitato. Ogni tanto accadeva lui l’interrompesse per porle qualche domanda precisa, chiederle più dettagli sull’isola che galleggiava nel cielo. Quasi non ne avesse mai viste prima, avesse dimenticato di esserci anche stato. Nami lo lasciava fare e anche se non era raro la mattina lui si ritrovasse con bernoccoli di origine inspiegabile per gli altri, Rufy pareva non si stancasse mai di farle ripetere con insaziabilità la stessa frase, più e più volte, porgerle identica la medesima domanda. “E non hai mai pensato di fuggire? Insomma di venire via da lì?” gesticolava nel chiederglielo, quasi nervoso. La prima volta lei aveva aggrottato la fronte, non comprendendo la ragione di quella richiesta.
“Certo che sì” aveva detto istintivamente, “ma è stato prima tu mandassi quel messaggio. Allora ho solo ritenuto fosse più saggio rimanere lì e apprendere quante più nozioni possibili. Weatheria era il luogo ideale per imparare a gestire al meglio i cambiamenti atmosferici, non credi anche tu?”.
Alla seconda e poi alla terza aveva farcito il tutto aggiungendo di come avesse preso in ostaggio Haredatsu, cosa che sembrava divertire Rufy oltremodo.
Quella sera era stesi l’uno di fianco all’altro, come ogni altra occasione. Con le braccia incrociate dietro la testa, Rufy scrutava fissamente il ventilatore appeso al soffitto. Le pale giravano e giravano, il meccanismo acceso e azionato in modo tale da farle turbinare. Erano giunti in un punto particolarmente caldo, vicino a qualche vulcano sottomarino probabilmente.
Di quando in quando voltava il viso alla sua destra verso la navigatrice e ghignava apertamente, in modo così rumoroso che Nami era costretta a zittirlo col cuscino premendoglielo in faccia, quand’anche un pugno pareva non sortire gli effetti sperati. Era forse questa per l’appunto la cagione che la spingeva a stringersi al petto quell’arma soffice da utilizzare al momento opportuno, secondo collaudate tecniche di approccio obbligato al mutismo.
“Credi che anche per gli altri sia stato così?” chiese d’un tratto Rufy, senza guardarla.
Stava per domandargli quali rapporti e legami avesse con le Kuja e la Schichibukai che l’avevano salutato poco prima di partire da Sabaody, fino a quel momento trattenuta da un riserbo inspiegabile. Rufy aveva lasciato fosse sempre lei a parlare, ma di quei suoi due anni d’allenamento e di quanto l’avesse preceduto, non aveva fatto parola né menzione.
Il tono tranquillo, d’effimera pacatezza che lei aveva imparato in così breve tempo a gestire come gli scatti impulsivi e repentini a cui da sempre era abituata con lui, non nascondeva però una sorta di ansia, una sottile nota d’inquietudine che captò facilmente, quasi fosse stato il sollevarsi mutevole del vento tra le nuvole e poi giù lungo il corso infinito dell’acqua salmastra, imbizzarrito come il nitrire di cavalli irrequieti, un suono e una vista che tanto le mancavano ora che non poteva più osservarle o percepirne sul viso la brezza precorritrice.
“Non siamo cambiati”. Lo disse in tono fermo e sicuro. “Sono tutti rimasti indistintamente, salvo Robin che mai lo è stata, gli stessi idioti d’allora, Rufy”. Pazzi pronti a seguirti e darti la stessa vita in cambio delle promesse che rivolgi col tuo sorriso saturo di speranze.
Annuì tra sé, come sovrappensiero prima di iniziare ad elencare: “Certo, quello zuccone di Zoro ha perso un occhio, ma era cieco e ottuso anche prima perciò non penso cambi molto. Usop ha più muscoli, Franky è gigantesco, Brook è famoso e Chopper ha lo stesso aspetto di peluche tranne che nella forma di renna e nel limite del possibile sembra essere diventato ancora più morbido. Sanji…” si concesse un attimo di pausa concentrata, la fronte corrucciata.

In cosa esattamente sarebbe dovuto essere diverso Sanji?
“Il ciuffo” suggerì Rufy e stava già ridacchiando per conto suo mentre lei cercava di arraffarne il senso. “Cosa?” domandò confusa.
Rufy si girò con espressione smagliante. “Ha cambiato il verso del ciuffo”.
“Davvero?” Non ci aveva fatto caso, pensò distratta. Eppure non capiva cosa esattamente in quell’informazione gli scatenasse tanta ilarità. Perché un particolare del genere avrebbe dovuto farlo ridere a quel modo?
“Cosa ci trovi di tanto buffo?” sbuffò a sua volta.
“Nulla” rise ancora. “Solo che io e gli altri avevamo scommesso lo portasse da quel lato per nascondere una cicatrice o che fosse nato con un occhio storto.” Strabico, lo corresse Nami mentalmente.
“Per senso estetico quindi” concluse lei, prima di aggiungere volutamente noncurante, osservandosi le nocche: “E come mai io non sono stata messa a parte di questo piccolo gioco d’azzardo sottobanco?”.
“Oh beh…” Rufy le lanciò un’occhiata di sottecchi, scrutandola sinceramente perplesso e scompigliandosi i capelli ripetutamente, come sforzandosi di ricordare. S’illuminò fiocamente e sorrise di nuovo. “Zoro ha detto che tu ne avresti approfittato per spillarci dei soldi e che se non volevamo ulteriori debiti sarebbe stato meglio non dirti niente”.
E così era colpa di Zoro eh, valutò stizzita. Gliel’avrebbe pagata cara quel pelandrone scansafatiche, nel vero senso della parola. Sorrise pregustando la scena in cui in un futuro non così remoto l’avrebbe messo a corrente dell’ammontare odierno dei suoi debiti, triplicando gli interessi e aumentando ogni cambiale e profitto del 15%.
“Nami”.
“Sì, Rufy?” ostentò quel sorriso melenso che prometteva solo guai per il fortunato che l’aveva acceso, gli occhi resi lucidi e riverberati dal prognosticare futuri guadagni.
“Avevi una faccia”, strana e spaventosa, “pensierosa” concluse reprimendo a fatica i brividi.
“Non è nulla” ribatté lei agitando la mano a mezz’aria, ancora soddisfatta e con la mente rivolta altrove.
Si risvegliò definitivamente quando il capello di Rufy le coprì il viso, la paglia ruvida come le dita che lo avevano poggiato, granulosa ma non ispida, sabbia ammucchiata in fili di grano, spighe di sole intrecciate tra loro strettamente, raspose. E quella morbida striscia sottile di rosso che ricordava il tramonto o fiori carminio, gli ultimi raggi di brace del sole, illanguidito al suo calare.
Erano poche le situazioni in cui Rufy si staccasse dal suo cappello e tutte che lo richiedessero. Quel gesto le sembrò più spontaneo del solito e più caro che in tanti altri. Alzò lo sguardo perciò, stupita e anche intimidita. Incrociò quello scuro del capitano, disteso. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Non era insolito, tutt’altro e per questo ne era stata fuorviata. Dacché avevano ripreso il viaggio insieme non c’era stato un istante in cui Rufy avesse smesso di sorridere.
“Dovresti pensare di meno”. Possibile che…? “O ti verranno le rughe”.
 

Dopo una settimana Rufy sarebbe stato capace di affermare con certezza assoluta quante fossero le pietre del selciato di fronte alla casa di Haredatsu enumerandole o, benché non l’avesse mai visto se non ricostruendolo nella propria immaginazione, quanto verde fosse il prato e morbida l’erba piegata con dolcezza dal vento sulle colline, limpido e smaltato il cielo terso delle giornate di sole, così vicino da dare l’impressione di poterlo sfiorare allungando la punta delle dita, e nerastre le nubi in quelle di tempesta.
Aveva perfino ricreato con cura minuziosa la figura del metereologo, con tanto di lunga barba e cappello a punta, i dorsi delle mani rattrappiti e rugosi.
Nami aveva smesso di meravigliarsi al trovarselo di fronte a quegli orari improponibili. La sera precedente avevano fatto una specie di spuntino di mezzanotte dal momento che Rufy aveva portato con sé una quantità tale di cibo da sfamare un’intera caserma di marines.
Nami non era una sciocca, tutt’altro. Aveva una mente brillante e un’acuta capacità di giudizio, un metro di valutazione per niente guastato dall’impossibilità di discernere sentimenti da riflessioni e viceversa. Per comprendere che Rufy fosse in qualche cosa diverso dal ragazzino infatuato di un’utopia che era stata costretta a lasciare due anni prima, era bastata qualche occhiata poco più attenta. Perché sì, lui era cambiato, come tutti loro del resto, e se Nami aveva pregato quei mesi di separazione portassero a tutti consiglio e li arricchissero di un acume o un ingegno per cui precedentemente non avevano spiccato, era stata costretta, per forza di cose e analisi riguardo ciascuno, a ricredersi miserevolmente.
Stendendo e obliando questa considerazione di un velo pietoso, ciò che più di ogni altro sembrava procurarle qualche ansito di preoccupazione che non piombasse subito nel compito gravoso             - noioso - di ricondurli alla serietà, era proprio il capitano. Il nocciolo della questione, la causa di quel cambiamento, la trepidazione che scoprì divorarle il petto e rimbombare contro le costole accingendosi ad affrontare l’argomento.
Respirò profondamente e voltò il capo. Sospirò in modo buffo, il ringhio che le sfregava l’esofago strusciandosi come un gatto che faccia le fusa in cerca di coccole, e mettendosi stesa su un fianco prese a fissare il volto del capitano che le dormiva accanto, grugnendo sottovoce parole smozzicate e incomprensibili.
Aveva una grossa molletta sul naso e le labbra annodate e nonostante questi accorgimenti russava fin troppo rumorosamente. Ad ogni suo ronfare gli angoli della bocca tremavano ballerini arricciandosi come baffi, un brontolio sommesso. Scuotendo la testa buttò uno sguardo alla meridiana che segnava l’ora. Mancava poco all’alba. Le dispiaceva svegliarlo, ma il primo turno di guardia era proprio il suo e lui doveva per quel momento tornare a dormire nella sua camera.
Lo scrollò con energia, ben sapendo che tentativi più lievi sarebbero risultati inutili, ma non cambiò nulla. Gli tirò le orecchie e i capelli, lo tempestò di pugni sulla schiena, pizzicò le guance. Stava per buttarlo giù dal materasso, ma il braccio di Rufy la immobilizzò finendole sopra, sulla gola.
Fece per scostarlo, ma un mugugno basso la trattenne da quel proposito.
Una sola parola, le palpebre contratte come tutto il viso in una posa divenuta da tranquilla a sofferta. Ace.
Nami strinse gli occhi con ferocia scoprendoli appannati indesideratamente. Un barbaglio di verità, un pugno nello stomaco, quasi le avessero lanciato contro una pietra grande come un mattone.

Per quella volta poteva anche lasciarlo riposare lì.

 
Nel buio quasi totale, Nami tastò il lato del materasso. In altri casi avrebbe sospirato di sollievo scoprendolo vuoto, ma percependolo tiepido al tatto si ritrovò invece ad alzarsi di scatto.
Scandagliò la stanza con lo sguardo stretto in fessure per abituarlo alla poca visibilità, ma la trovò ordinata e priva del soggetto delle sue ricerche. Stava per alzarsi o rimettersi stesa, una fitta di delusione appena accennata e irrazionale nel suo essere fin troppo impulsiva, ma un dimenarsi dall’altro lato del letto, precisamente sul pavimento, la frenò. Giusto in tempo per scrutare Rufy riemergere dal fondo rotolando nel sonno, un grosso livido violaceo tra occhio e fronte.
Premette il dorso della mano sulla bocca soffocando la risata inappropriata sul nascere – era giusto ridere delle disgrazie altrui? No, certo che no. Ma ridere della goffa imbranataggine del suo capitano, era ormai doveroso obbligo da assolvere - e prendendo la coperta.
Gliela gettò sopra e al mugugno del quasi soffocamento che aveva seguito l’approssimativo lancio, sogghignò senza ritegno e a cuor leggero.


“Ti manca mai?”.
La voce di Rufy era impastata come se le parole faticassero a rotolare fuori, intralciate nel cammino da qualcosa. Come se parlasse a bocca piena. Nella realtà però era vuota; la trappola stava solo nelle emozioni che servivano a bloccare traditrici l’afflusso di pensieri che le animavano. 
“A chi ti riferisci di preciso?” chiese Nami, poco propensa a far altro non fosse borbottare data l’ora tarda.
Rufy aveva il capello tra le mani e se lo rigirava con gesti calibrati e precisi, un giro orario, due antiorari, un rimescolare l’aria bollente pregna dei sussurri tenui della notte e delle correnti marine esterne. I polsi spigolosi e le nocche irrigidite, sassolini sulla battigia grandi come pollici di bambini, e uno sguardo infossato nelle palpebre segnate da occhiaie che il sonno non avrebbe cancellato, pennello ricoperto di gesso sull’ardesia pece di una lavagnetta come quella tenuta in cucina da Sanji.
Nero, bianco, oro-rosso: un gioco di colori che non poteva vedere, ma cui assisteva con l’abitudine consumata di una fantasia messa a dura prova dall’allenamento forzato e drastico al quale era stata portata ad assuefarsi.
Scivolava a volte in uno stato di passività indolente, dolore assuefatto alla pigrizia.
Era un uomo in quei momenti Rufy e pur di vederlo più grande ed odiandosi ferocemente per la crudeltà di quel pensiero, Nami quasi desiderava a volte lui avesse quel tipo di sguardo.
Annacquato nel torbido del fango denso di ricordi sofferti, squarci insanabili, rimpianti dal sapore del rancore insopportabile.
“Tua sorella” rispose e parve annaspare, pesciolino fuor d’acqua, il collo teso. Le sembrò quasi di scorgere le branchie aprirsi e richiudersi richiamando a sé acqua che non c’era. Non era acqua però quello che cercava Rufy disperatamente, la tenacia dell’ostinato.
Il suono di una certa voce modulata, di un certo calore che Ace aveva sempre posseduto, anche prima che diventasse percepibile a chi non era mai stato sfiorato da quelle mani troppo grandi per un ragazzino della sua età se non coi pugni, del respiro caldo che gli aveva soffiato sui palmi vicino al fuoco, nelle notti fredde alla fine di ogni cena cacciata, profumo di zolfo e carbone. Della forza con cui soleva calargli il cappello per richiamarlo all’ordine o coprirgli la visuale e le orecchie, quando non voleva sentisse o vedesse qualcosa che sapeva l’avrebbe ferito, dell’abbraccio in cui l’aveva stritolato agguantandolo per la collottola, una presa alle spalle forte e intensa pur se breve appena libero di poterlo fare, senza manette ad imprigionarlo.
Lo vide portarsi il braccio agli occhi e socchiuderli, come quando davanti a un raggio di sole ci si copre la fronte per paura di bruciarsi, scottarsi al troppo calore, cocente.
Gli sfiorò il gomito e in quel movimento qualcosa tintinnò contro la carne, senza produrre rumori percepibili.
“A volte” ammise Nami, gli occhi ancorati al bracciale e si morse inconsapevolmente il labbro inferiore, i denti ad affondarvi impietosi e arrossarlo.
Sotto la presa che nulla aveva di delicato o carezzevole, poteva sentire l’acquattarsi di tremori che non raggiungevano lo strato superiore della pelle, brividi del sangue accavallato in fremiti sotto l’epidermide, implosi in bolle di dolore localizzato.
“Come fai?”.

Come fai a sopravvivere? A far finta di nulla?
Cercò di sorridere, ma non ebbe la presunzione di ritenere che la smorfia al vetriolo che aveva impostato fosse poco più che passabile. Avrebbe potuto poggiare la testa sulla spalla di Rufy, così vicina, ma ancora una volta qualcosa d’indefinito la trattenne.
“Come nel nostro caso, so che la separazione non è per sempre. Un giorno torneremo indietro e allora so che lei sarà orgogliosa di me, di quel che ho fatto. Fino a quel momento mi conforto pensando che la nostalgia sia passeggera. Tutti quanti ci aspetteranno nel frattempo”.
Rufy storse la bocca e Nami seppe con certezza cosa stesse pensando. Come poteva credere lui di rivederlo? Sarebbe occorso trascorresse così tanto prima potesse anche solo osare sperare di fare qualcosa del genere… La nostalgia di Rufy era una sofferenza così atroce che risultava impensabile anche il solo compararla alla sua. Lei poteva almeno crogiolarsi nella sicurezza che nonostante le distanze sua sorella stesse bene, fosse felice, viva. Gli arruffò i capelli pigiandoseli tra le dita e rigirandoseli come monete e monili.  
“Un giorno” lo udì mormorare a denti schiusi e pugni stretti.
“Un giorno” acconsentì lei voltandogli le spalle e sentendolo fare lo stesso. La disperazione di quell’assicurazione sussurrata a mo’ di promessa era quasi più straziante di tutto il resto. Così come la consapevolezza probabilmente non fosse la sola su quel letto in quel momento con le guance rigate.

 
“E’ mattino” sbadigliò dondolando le braccia e stiracchiando la schiena arcuata. Scrollò la testa, la massa pesante che i suoi capelli erano diventati, a gravarle su collo e spalle come una specie di coperta.
“E’ mattino” annunciò nuovamente, una cadenza più bassa e lievemente perentoria.
La bolla di non voleva neppur sapere cosa che gli usciva da una narice, sarebbe bastata forse a far intendere lui non avesse colto una sola parola da lei pronunciata, perso com’era nel mondo dei sogni. Qualche pugno più tardi, mentre Rufy barcollava in direzione della porta, Nami allungava con soddisfazione piacente e voluttuosa i piedi nella zona calda del letto che lui aveva fino a pochi istanti prima riempito della sua presenza. Il passo per nulla felpato con cui si stava trascinando la costrinse però ad abbandonare incautamente la tiepidezza del dormiveglia nel suo angolino.
“Fa’ meno baccano e cammina sulle punte” minacciò arrochita, gli occhi chiusi.
Lo strano susseguirsi di tonfi la portò a spalancarli, allibita, prima di lanciargli contro la lampada del comodino.
“Quelli dietro sono i talloni idiota!”.
Si massaggiò le tempie dominando l’incipiente voglia di vedere sparpagliati per la Sunny i resti del corpo martoriato del capitano, talloni compresi e punte escluse.
“Razza di zuccone” biascicò rituffando assonnata la testa nel cuscino, le coperte a coprirle il viso fino alle sopracciglia. Profumo ad inondare le narici e raggiungere i polmoni, familiare e proprio del letto ormai quanto il suo. Sorriso sfumato sparso a ventaglio sul guanciale e intorno alla vita. Sembrava risuonare, goffo nell’abbraccio attorcigliato e inestricabile in cui Rufy si era stretto a lei la sera precedente, quel grazie appena detto contro l’orecchio, ad un soffio di bacio dal lobo, gentile come lui e la sua presa. La soluzione del pirata era sorridere, sempre e ovunque in risposta al dolore, ma almeno con lei Rufy poteva smettere di esserlo anche se per poco.
Attenuare le fitte al costato e il cupo e forsennato lavorio dei battiti. Anche il sangue smetteva di piangere e Rufy poteva dormire sereno. Navigare in porti sicuri con lei al timone.       

      

 

 


N/A:
Assolutamente basita da quanto scritto qui sopra. E’ una Runami e sono troppo felice di averne scritta finalmente una per comprendere fino in fondo se sia totalmente e irreparabilmente qualcosa di leggibile, oltre che intellegibile.
Non ho avuto ancora il piacere di leggere molte altre storie su questo pairing e ad esser sincera molte sul fandom, la passione per questo anime meraviglioso è nata dall’epoca delle prime trasmissioni in tv, ma per il manga vero e proprio è qualcosa di piuttosto recente; spero perciò di rifarmi al più presto e mi scuso anticipatamente per la poca originalità nel tema che immagino sarà stato trattato già da altri autori e forse per la banalità con cui l’ho resa.
L’idea però era così bella e la scena che ha preso forma nella mia mente così minuziosa che non sono riuscita a trattenermi dal metterla su carta. Questa è una coppia che sinceramente ho adorato sin dall’inizio pur se inconsapevolmente. Ho capito perché solo vedendo il decimo film: è stato come lo squillo di trombe e spalancarsi di porte al mondo.
Davvero, quel film mi ha aperto gli occhi XD. Mi auguro di avervi regalato un sorriso e soprattutto di non aver stravolto più del necessario il loro carattere, mi affido ai vostri giudizi al riguardo. Saluti calorosi e grazie di cuore per avermi dedicato un po’ del vostro tempo leggendo, a presto spero ;)!

  
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