Cumpton Road. La strada asfaltata di fresco, le pozzanghere, i pannelli solari spioventi e ormai erosi dal gelo e dagli inarrestabili tarli del tempo. E’ un normale mattino di dicembre, la cui cupa bruma autunnale si sta preparando a cedere il posto alla coltre di neve dell’ormai prossimo inverno e la gelida brezza propaga con violenza una pioggia nostalgica, che s’abbatte contro qualunque cosa incontri, come lacrime che sgorgano per scacciare l’amarezza di un gesto scortese o di una parola colpevole di sgarbatezza, da un volto contrariato. Eppure qualcosa disturba la ripetitività, il grigiore di questo giorno.
Già, perché non di rado c’è chi di dispera in silenzio e lascia che la pioggia lo stringa in un gelido abbraccio, lo divori, lo confonda, nasconda ogni lacrima di dolore fra le sue braccia taglienti e sfuggevoli, gelosa di quel sentimento che non potrà mai provare: ma oggi, qualcosa di straordinario è accaduto, in questa cittadina di provincia chiamata Selgfried.
La pioggia ha pianto. Per la prima volta ha conosciuto il rammarico, l’impotenza, lo smarrimento.
E quelle gocce colpevoli e ripetitive, sono sgorgate per la prima volta di loro spontanea volontà, non più prepotenti ed invidiose ma partecipi e addolorate. Hanno guardato in faccia la sofferenza, imparato ad esserne soggette.
Hanno visto la verità e conosciuto il prezzo dell’amore.
Cumpton Road, Selgfried. Una piccola folla si è radunata in religioso silenzio sull’asfalto, teatro di un dramma di vita quotidiana: alcuni gatti ed un vecchio cane stanno infatti chini su di un compagno e amico, per porgergli l’estremo saluto. Le loro lamentele inteneriscono il vento, che sferza ora con maggior dolcezza, e commuovono i bagliori del cielo, che s’acquietano tutt’a d’un tratto. Ogni elemento naturale tace e resta in ascolto, partecipe alla solennità della rudimentale celebrazione.
Il gatto stravaccato sull’asfalto, giace in una composta pozza di sangue scarlatto, che a intaccato la perfezione del suo manto di velluto scuro: le orecchie nere, un tempo attente e rigide, sono ormai abbandonate, pietosamente ripiegate su sé stesse e le zampe agili e scattanti hanno perso ogni vigore.
Per lui è venuto il tempo di andarsene per sempre. Ma né la pioggia, né i comprimari vogliono lasciare che accada e seguitano a stringerlo in un tenero, appassionato e nostalgico abbraccio.
Un amico –del resto- rimane tale per sempre.
E oggi, a Selgfried, perfino la pioggia ha compreso questa verità.
Blackie Arrow salì
timidamente la scalinata, chiedendosi nuovamente se fosse il caso di
proseguire. Del resto, la sua presenza al ballo di fine anno non era
strettamente necessaria e avrebbe potuto provocarle nient’altro che inutili
imbarazzi. Tuttavia Megan, la sua migliore amica, le aveva chiesto
espressamente di accompagnarla, per aiutarla a distrarsi dalla rottura con
Harrison, avvenuta la settimana precedente.
Sarebbe stato perciò leale, da parte di Blackie, presentarsi alla festa
nonostante la riluttanza che la dominava.
Animata dall’emotività
del benevolo pensiero, superò un alto gradino e contemplò le proprie scarpe
lise con malcelato disappunto. La sua famiglia non brillava certo per
disponibilità di beni materiali e così, quelle calzature raffinate seppur
incredibilmente antiche erano stati il meglio che si erano potuti permettere:
simili a decollette mezzo tacco, erano in realtà costituiti da un materiale
duro e irritante al pari di un pezzo di compensato grezzo.
- Blackie Arrow – Si
disse, procedendo lenta lungo l’immenso corridoio della scuola –Sforzati di
precludere il tuo solito sarcasmo almeno per stasera.
Sospirando pesantemente,
la ragazza passò nervosa in rassegna la propria figura prima di entrare nella
palestra, presso la quale si sarebbe svolta la festa danzante: indossava dei
pantaloni eccessivamente aderenti, sulle sfumature del porpora, e una t-shirt
estremamente semplice.
-Blackie Arrow è una
ragazza povera- Avrebbe proferito soddisfatta Bethany Wins, la più in voga
della scuola, fastidiosamente perfetta quanto superficiale – Non si concede
facilmente ed è incostante ed antipatica.
- Bethany..– Pensò fra sé
Blackie, prima di addentrarsi furtiva nella palestra ancora semi-deserta – Un
aneroide sprovvisto di personalità.
L’incostante ed
antipatica Blackie gettò un paio di occhiate guardinghe alle pareti comicamente
bardate, adornate in modo massiccio da striscioni artigianali realizzati dai
ragazzi del laboratorio d’arte.
Origami di qualsiasi
colore sembravano essere stati sparpagliati sui tavoli, senza troppa metodica
nelle loro posizioni: il gruppo completo delle ragazze pon pon si era riunito
in una rientranza della parete principale e discuteva animatamente di come
ciascuna delle sue esponenti avrebbe abbordato i ragazzi più popolari.
Blackie incontrò lo
sguardo di Bethany mentre questa affermava di possedere la certezza più
inequivocabile, che avrebbe conquistato Harrison senza alcuna fatica, entro il
coprifuoco stabilito dai suoi genitori per quella sera.
-Siamo fatti per stare
insieme- Scandì prepotentemente, quasi intenzionata a farsi udire da Blackie
–Non esisterebbe, per Harrison altra ragazza più adatta di me.
Harrison Henry, il cui
nome suonava quasi come un indovinato gioco di parole, era il più affascinante
e carismatico alunno della scuola e perciò un conquistatore abilissimo e
indubbiamente popolare presso il pubblico femminile.
Megan, la migliore amica
di Blackie, aveva attirato la sua attenzione con caparbietà e si era fregiata
dell’appellativo di fidanzata di Harrison fino alla settimana precedente,
quando lei stessa aveva deciso di piantarlo.
-Siamo incompatibili-
Aveva affermato ridendo, il sorriso sfacciato eppur piacevole abbozzato sul
viso quasi perfetto – Inoltre preferisco che sia tua a sedurlo. Non ti piace
forse, Blackie?
A quelle parole, Blackie
era arrossita considerevolmente e aveva zittito Megan con aria sconvolta.
-Non farei mai una cosa
simile a te, Megan. Inoltre…-
Harrison Henry non
avrebbe mai accettato di apparire in pubblico accompagnato dall’eccentrica e
inavvicinabile Blackie Arrow.
Sollevando lo sguardo per
controllare se l’amica fosse arrivata, Blackie scorse una piccola folla
radunata davanti all’entrata:una fila invalicabile di femmine spasimanti
ostruivano l’ingresso della palestra, sospirando lamentose il nome di Harrison.
Quel pallone gonfiato
doveva essere arrivato alla festa, accompagnato naturalmente dai fedeli amici e
da uno stuolo di corteggiatrici insistenti.
Sbuffando per il
fastidio, Blackie cercò di farsi largo fra la folla per raggiungere Megan,
impegnata a discutere con l’eclettico pittore Sandrej: schivando precisa le
ragazze pon pon, si ritrovò ben presto sommersa dal gruppo di fan urlanti.
Harrison avanzava
sorridendo nell’ingresso della palestra, fissando sfuggevole solo poche delle
ragazze impegnate a spasimare per lui: camminò sicuro finchè non si avvicinò a
Bethany, incappando sorpreso in una persona che non si sarebbe di certo
aspettato di incontrare in quel contesto, sistemata fra le ammiratrici.
Blackie Arrow.
Blackie arrossì
nell’istante in cui avvertì lo sguardo di Harrison fisso su di sé: il
conquistatore pareva alquanto sconcertato.
-Io…io…credevo di aver
visto Megan- Si giustificò, scostandosi in direzione dell’amica con un passo
indietro.
Perché era stata così
stupida?
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Harrison
fissava piacevolmente sorpreso la ragazza imbarazzata e incerta che arretrava
fino a sfiorare la parete: la figura snella e proporzionata, le gambe
strettamente fasciate in un paio di semplici pantaloni porpora, i capelli
lunghi e ondulati dalle mille sfumature, le scarpe antiche e scomode.
L’inavvicinabile
Blackie Arrow.
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-Davvero non c’è più nulla da fare?
-Sì: è così. Mi dispiace.
-Anche a me. Spero di riuscire a rintracciarne il padrone.
-No; si sbaglia. E’ un randagio.
-Da cosa l’ ha intuito?
-Le macchie d’olio sulle zampe, lo stato dimezzo del manto: è confermato.
Esercito da poco ma sono in grado di fare il mio lavoro.
-Scusi, signora Harfy. Non volevo mancarle di rispetto.
-So bene che non è così.
-Allora vado.
-Aspetti….il suo nome?
- Harrison.
-La ringrazio molto per quello che ha fatto per questo povero animale.
-Avrei solo voluto poter fare di più.
-Niente avrebbe potuto farlo stare meglio. L’auto che l’ ha investito ha reciso una zampa e provocato gravi lesioni alla spina dorsale.
-Posso andare ora?
-Ovvio figliolo. Hai dato prova di grande umanità, oggi.
Mentre Harrison Henry, studente del prestigioso istituto superiore Edison usciva, la veterinaria di quartiere, Sofia Harfy, gettò un’altra occhiata al gatto sofferente disteso sul ripiano del suo studio, il ventre ricucito e la zampa destra troncata di netto.
Fissandolo con interesse, si accorse che il suo respiro flebile spostava lievemente lo strato di carta velina che aveva steso sotto di lui: incredibile, davvero.
Quando Harrison, qualche ora prima le aveva portato l’animale, in uno stato di prostrazione incredibile, avrebbe giurato che sarebbe morto di lì a pochi secondi.
Invece…….eccolo lì, stoicamente resistente.
-Addio amico…- Sussurrò, mentre si recava ad estrarre dalla teca dei medicinali, che conservava nell’atrio, il siero che l’avrebbe addormentato per sempre.
-Chissà se avevi un nome.
Dopo qualche secondo, mentre Sofia s'apprestava a ritornare presso lo studio, l’occhio del gatto nero come la pece, si aprì pigramente: l’animale, alzandosi a fatica, balzò al di là della finestra.
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-Sono qui per Megan.
Harrison sorrise soddisfatto e in uno slancio d’eccessiva euforia s’azzardò a sfiorarle la schiena.
-Ok, Arrow…- S’illuminò,
ammiccando –Voglio sperare che dopo avermi illuso avrai la compiacenza di
concedermi un ballo.
Blackie deglutì, in preda
al panico.
Calma, si impose. Stai
calma.
-No, non penso sia il
caso- Proferì, secca –Non credere di potermi prendere in giro.
Altezzosa, si allontanò
in direzione di Megan e afferrandola per un braccio, la trascino dietro di sé.
-Sei impazzita, forse?-
Fece, strabuzzando gli occhi –Dovevi coprirmi, non startene impalata senza dire
nulla.
L’amica le lanciò uno
sguardo divertito, tormentandosi una ciocca di capelli biondi.
-Ero impegnata con
Sandrej: stavamo discutendo sul mio lato migliore.
E’ da secoli che voglio
un ritratto fedele della mia bellezza.
Blackie si lasciò
strappare un sorriso divertito, passandosi una mano fra i capelli scuri.
-Strano, avrei detto che
steste parlando d’altro.
Le due ragazze scoppiarono
a ridere in simultanea, dirigendosi verso l’imponente giardino esterno.
-Hai da accendere?-
Domandò Megan, una sigaretta piuttosto malconcia stretta fra le dita sottili.
-Ecco qua- Si introdusse
all’improvviso Sandrej, spuntato direttamente dalla porta principale.
Un accendino di metallo
fulgido si materializzò: Megan rivolse al ragazzo un sorriso pieno di
gratitudine.
I tre rimasero in
silenzio, contemplando la silenziosa immensità del cortile: Blackie teneva lo
sguardo rasoterra, rammentando quanto aveva fatto poco prima.
Rifiutare Harrison Henry.
Pazza: ecco cos’era.
-Ah, Blackie..-Sandrej
tirò un’ ampia boccata di fumo dalla propria sigaretta, puntando lo sguardo su
di lei – Sei stata assolutamente magnifica. Nessuna aveva dato prima d’ora il
benservito a quel pallone gonfiato.
La ragazza sorrise
debolmente, annuendo.
-Gentile da parte tua.
Megan roteò furiosamente
gli occhi, voltandosi adorante in direzione del giovane pittore.
-Se vuoi sapere la mia
opinione..- Continuò Sandrej – Ti adorerà per questo.
-Che cosa vuoi dire?
-Le ragazze sarebbero
pronte a svendersi per Henry: soprattutto quella cinica marionetta di Bethany
Wins. E’ normale che lui non trovi nessuna attrattiva in ochette trotterellanti
che non aspettano altro che puntargli gli artigli addosso.
Ma tu….sei diversa.
Un’eroina gotica
piacevolmente acida ed impenetrabile.
Sandrej cinse le spalle
di Megan, attirandola a sé.
-Voi siete senza dubbio,
le uniche ragazze degne di stima qui dentro.
Blackie sorrise, a metà
fra il rinfrancato e perplesso.
Apprezzava i complimenti
di Sandrej, indubbiamente; eppure, la possibilità d’aver offeso Harrison la
turbava, impedendole di riflettere a mente lucida.
-Scusate ragazzi- Fece,
allontanandosi –Vado in bagno: ho bisogno di rinfrescarmi. Continuate pure
senza di me,
Megan e Sandrej rimasero
soli, abbracciati, fumando nel grande giardino isolato.
-Un gatto- Disse lui,
guardando Blackie allontanarsi.
-Come hai detto?
Megan lo stringeva
affettuosamente, eppur sorpresa.
-Un gatto..- Ripetè
Sandrej –Questa è l’immagine che attribuirei alla tua amica.
-Già- Concordo Megan –un
felino scuro e solitario.
Un gatto nero. Un
cacciatore abile ed introverso.
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-Non capisco. Cosa ha lei
in più di me?
Blackie indietreggiò
bruscamente, restando impalata al di là della porta del bagno.
Bethany Wins e le sue
amichette, intente a spettegolare dinanzi agli specchi, si ritoccavano il
trucco impeccabile, insultandola con pesantezza.
-Quella poveraccia mi fa
pena. Chi si crede di essere per far sfigurare Harrison?
Blackie. Ecco chi mi
credo di essere.
-In un certo senso è
stato meglio per lei.
Che cosa vorresti dire
con questo?
Harrison aveva scommesso
con gli amici che ci sarebbe stata.
Non può essere andata
così.
-Già, esattamente. In
effetti è quello che tutti ci aspettavamo.
La riprova che nessuno
di voi mi conosce veramente.
-Pensate che fantastica
prospettiva quella di veder sfigurare Arrow davanti a tutti
Che darei per strapparle quel
sorrisino astuto.
Bethany, che ti ho
fatto per essere odiata così?
- D’altro canto cosa
pretendente da lei? Non è che una morta di fame.
Se la signorina non
eccellesse in qualsiasi disciplina in modo da vincere abitualmente una borsa di
studio, ora frequenterebbe le scuola serate con i suoi simili.
- Simili?
-Gli accattoni come lei.
Bethany e le sue amiche ridono
fragorosamente, soddisfatte: la loro invidia soffocata in offese taglienti.
Il gatto non le ascolta.
Indignato ha già varcato il grande giardino ed ora corre
ferito verso casa.