Ad personam:
Cara Melisanna, che piacere sentirti! Sei stata rapidissima! Le tue deduzioni sono giuste, ci avviciniamo al momento conclusivo. Nella scala del tempo del racconto mancano ancora alcune settimane. Vero che è simpatica Yan Lin? E' uno dei miei personaggi preferiti, anche se dal punto di vista dei meridiani è gradevole quanto Cerbero. Spero proprio di leggere presto la conclusione del tuo Terra Magica. Cara Atlantis Lux, grazie della bella recensione, sono felice di poter sempre contare su di te. Anche a me Phobos fa un po' pena. Quel po' di sentimenti umani che ancora può nutrire sparirà completamente dopo che avrà preso le ultime batoste. Non per mio sadismo, naturalmente: questa storia deve spiegare l'involuzione di questo personaggio nello spietato villain che ci è presentato dal fumetto anni dopo questi eventi. Un sentito ringraziamento anche a Silen per la rilettura delle bozze di questa storia. Qualche parola su questo capitolo, che è
ambientato un mese e mezzo dopo il precedente, e si sviluppa in un arco
di circa quarantott'ore. Sulla Terra, siamo a metà del dicembre
1984. Ormai mancano pochissimi giorni alla conclusione di La Luce al
tramonto. Buona lettura
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Capitolo 19
Fuga nel tempo
Il Principe Phobos
Meridian, casa di Eliasdal
Nella casa deserta, attraverso le
finestre chiuse filtrano i rumori della giornata: il chiacchierio di
alcuni passanti, lo scalpiccio ritmato degli zoccoli di un asinello,
un rumore lontano di ruote cerchiate di ferro sul selciato
irregolare.
Nella cucina, un sottile strato di
polvere offusca la lucentezza del rame delle pentole. Negli angoli,
piccole ragnatele hanno cominciato a espandersi timidamente alla
conquista dell’ambiente.
Al centro della stanza, da un baluginio
prendono consistenza due sagome: quella elegante di Lord Cedric, e
quella massiccia di un gigante dalla pelle azzurrina.
“Eccoci, Vathek”, dice il primo,
guardandosi attorno. “Ci tenevo a dare un’altra occhiata all'abitazione di Eliasdal”.
Anche l’altro osserva il locale. “In
effetti, Signore, non è una brutta casa”. Passa la mano su
una mensola, e osserva gli aloni di polvere rimasti sui suoi
polpastrelli. “Però ormai si nota la mancanza di una donna”.
Cedric si dirige verso le scale. “Non
sono qui per controllare le pulizie. Vorrei ridare un’occhiata ad
alcune cose che avevo notato di sfuggita”.
Salito fino nella mansarda, Cedric si
guarda ancora attorno. Decine di quadri, finiti o incompiuti, sono
schierati lungo i muri, o sui cavalletti, o accostati come libri in
qualche angolo in un maldestro tentativo d'ordine. Il colore
rossiccio di alcune sculture di terracotta punteggia il locale. “Il
tipico studio di un artista”, sogghigna.
Vathek sale a sua volta, dopo essersi
accertato prudentemente che la scala di legno regga il suo peso. Lo
fa sempre per abitudine, dopo aver avuto altre brutte sorprese in
passato. Subito, il suo sguardo cade su due ritratti ancora sui
cavalletti, e poi su un busto di terracotta sostenuto da uno
sgabello. “Ma quello non è il Principe Phobos?”.
“Sì” conferma Cedric, “In
questa soffitta ho contato un busto e sette ritratti del Principe, né
autorizzati, e men che meno commissionati da lui”. Li confronta tra
loro. “Non sono molto somiglianti. Deve averlo ritratto a memoria.
Ma perché?”.
“Forse lo ammira?” suggerisce il
gigante.
“Non credo” risponde pensieroso
l’altro, “E non ha mai avuto confidenza, neanche una volta quando
il principe era molto più accessibile di ora”.
“E’ per questo che somigliano
poco”, aggiunge il gigante, poi s’illumina come per un colpo di
genio. “Forse per lui è una sfida: vuole riuscire a farne
almeno uno somigliante”.
Cedric lo squadra con sufficienza e
ironizza: “Non ti sapevo così psicologo, Vathek”.
Il gigante si acciglia, incerto se il
suo superiore l' abbia inteso come un complimento o come un insulto,
anche perché non sa cosa vuol dire esattamente quella parola.
Sforzandosi di non pensarci, si porta davanti a un bel quadro del
palazzo reale, lo osserva, poi si inchina per guardare fuori dalla
finestra verso il maestoso edificio che sovrasta la rupe. “Eppure
questo è perf…”.
“Attento!”.
L’avvertimento arriva troppo tardi:
nel chinarsi, l’omone ha urtato il busto di Phobos, che si
sbilancia e cade rumorosamente sul pavimento, frantumandosi in grossi
pezzi di coccio.
Alzandosi di colpo, cozza con la testa
su una capriata di legno. “Mer…”.
“Vathek, bestione!”, sbotta a mezza
voce Cedric. “Non so perché ti ho portato…”.
“Sono desolato… perdonatemi”,
borbotta tenendosi la testa quasi calva.
Guardando il disastro ai suoi piedi,
Cedric sbotta: “Ci vorrà altro che perdonarti… dobbiamo
giustificare questo danno!”. Guarda fuori dalla finestra, e un
sorriso astuto gli illumina il viso. Un grosso gatto leporino cammina
disinvolto, con ineccepibile equilibrio, sulla falda di un tetto
vicino. “Ecco il nostro colpevole” dice, e i suoi occhi brillano.
Il gatto si immobilizza un attimo, poi
cambia direzione come in trance e con pochi lenti passaggi da
equilibrista arriva fino alla finestra.
“Entra”, ordina Cedric all’animale
aprendogli i battenti, “E resta qui fino all’arrivo di
Eliasdal!”.
Il micione prende a vagare, lento e con
sguardo assente, nella mansarda.
“Whow! Geniale!”, esclama Vathek
ammirato.
“Bene”, si compiace lord Cedric,
“Ora dobbiamo cercare qualunque cosa sospetta”, dice, osservando
da vicino il retro dei ritratti del principe alla ricerca di scritte
arcane.
“Cosa cerchiamo, Signore?”, chiede
il gigante.
“Qualunque cosa sospetta, l'ho detto.
Lettere. Scritti. Formule magiche. Amuleti. Elementi di un’altra
macchina del tempo. In fondo, Eliasdal è fratello di un
condannato per spiritismo”.
Una luce di comprensione si accende
negli occhi dell’omone. “Voi… voi pensate che tutti questi
ritratti possano servire per gettare il malocchio sul Principe?”.
“Forse. O forse glieli ha
commissionati qualcuno per irriderlo. Come quelle orribili caricature
tracciate sui muri della città prima di quegli scontri di
piazza”.
“Criminali irrispettosi!”, sbotta
l’omone stringendo i pugni possenti con una smorfia indefinibile.
“Da quella volta, ogni ritratto non
autorizzato di Phobos è vietato”, continua Lord Cedric.
“Ma allora, ciò che abbiamo
già trovato non basterebbe ad arrestarlo? Poi lo faremmo
parlare come ben sappiamo…”.
Cedric si stringe nelle spalle. “Anche
il tentativo di fuga sarebbe bastato per incarcerarlo. Purtroppo
Eliasdal è un protetto della Regina. Per ora limitiamoci a
sorvegliarlo, ma una volta morta lei, che gli Dei l’abbiano in
gloria, il nostro pittore smetterà di essere trattato con
troppi riguardi”.
Mezz’ora dopo, il silenzio della casa
deserta viene rotto dallo scatto del chiavistello, seguito da un
cigolio, mentre il battente della porta si apre e la luce del sole
inonda l’interno.
Eliasdal entra e appoggia sul tavolo il
sacchetto di iuta che portava con sé. In poche mosse estrae
dai battenti della credenza un piatto ancora mezzo pieno di briciole,
un coltello e una bottiglia di succo di melopea, e prende da una
mensola un bicchiere di ceramica mal lavato.
Sedutosi a tavola, il pittore inizia il
suo pranzo frugale, quando la coda dell’occhio gli va in cima alla
scala: da lì, due occhi gialli e luminosi da gatto leporino lo
stanno fissando.
Vistosi scoperto, il gatto scappa colpevolmente verso i piani superiori.
Eliasdal sale le scale in tempo per vedere la coda impellicciata sparire nella botola della soffitta.
Salita anche la seconda scala,
Eliasdal scorge subito i frammenti del busto di terracotta sul
pavimento. “Bestiaccia!”, dice fra sé. “Va beh che era
mal riuscita, quella scultura…”.
Va a controllare il dipinto del
palazzo, constatando con sollievo che è intatto. Anche gli
altri quadri non presentano alcun danneggiamento.
Nota una finestra semiaperta. ‘Strano…
sto diventando sempre più distratto’, ne conclude.
Si avvicina al gatto leporino,
mormorando “Micio, micione…” con voce suadente.
Ancora una volta, come incantato,
l’animale gli viene vicino, lasciandosi afferrare senza proteste
per la collottola. Lo riconosce: è Miev, il gattone della
signora Vertel. L’anziana sensitiva ha fatto mille favori alla sua
famiglia, per cui ora gli sembra doveroso renderglielo senza chiedere
alcun risarcimento.
Poco dopo, Eliasdal si avvicina alla coloratissima casa della sua vicina. Il battente della porta è completamente dipinto a fiori dai colori vivaci, ai quali ogni anno viene aggiunto un nuovo mazzo o rametto. Da lui, naturalmente: questo lavoretto non rende bene come eseguire ritratti su commissione, ma è un ringraziamento adeguato per la gentilezza della sensitiva. Questa, con la sua forte telepatia, si presta anche a trasmettere messaggi a persone distanti e fornisce risposte in tempo reale ai suoi clienti e amici privi di tale potere.
Il pittore non fa in tempo a bussare,
che già il battente fiorito si apre. “Entra, entra, Elias”,
dice la voce della signora da dentro.
La casa, linda e ordinata, è
ornata di piccoli quadretti di fiori e animaletti in ogni spazio
disponibile sulle pareti.
“Signora, le ho riportato il suo
micione. Era entrato in casa mia”.
“Perdonalo”, risponde lei gentile.
“E’ strano, non lo faceva da molto tempo. Eppure sono stata
sempre così chiara con lui… vero, Miev?”.
“Mieeev”, conferma il gatto
leporino.
“Vuoi restare a pranzo, Elias? Così
mi faccio perdonare un po’ per la tua scultura...”.
“No, grazie”, declina lui
accennando a voltarsi. “Ho già messo in tavola”.
Poco dopo il pittore sta finendo il suo
parco pranzo, pensieroso. Anche se quel busto di Phobos non era ben
riuscito, l’incidente gli è sembrato un presagio. Ma di
cosa?
Un bussare alla porta, sommesso ma
impaziente, lo distoglie dai suoi pensieri, e va ad aprire.
“Signora Vertel?” fa, sorpreso,
davanti alla donna visibilmente agitata.
“Posso entrare?”.
“Certo…”, dice scostandosi.
“Solo, scusi il disordine”.
Appena richiusa la porta, la signora lo
fronteggia. “Elias, ho avuto delle visioni accarezzando Miev. Lui
non è entrato da solo, ma è stato costretto dalla
volontà di quello stesso uomo che è comparso qui quando
è morta la povera Odridel”.
Il pittore sbarra gli occhi. “Vuol
dire… Lord Cedric?”.
“Zitto!”, intima lei coprendosi la
bocca con le mani, “Non pensare mai il nome di chi non vorresti
incontrare”. Dopo un attimo di silenzio confuso, riprende: “Era
qui questa mattina, in casa tua, assieme a un gigante dalla pelle
azzurrina. Quando il gatto è entrato, il busto era già
rotto a terra”.
Lui annuisce, senza riuscire a
proferire verbo.
Lei riprende: “Quel che è
peggio, Elias, è che hanno detto che, appena la regina sarà
morta, verranno a prenderti per farti pagare tutto assieme, il tuo
tentativo di fuga e i ritratti di Phobos. Non sapevi che ora sono
proibiti?”.
Lui storce il viso, stupito e confuso.
“Proibito… un ritratto? Da quando?”.
La signora non risponde, ma continua:
“Sento che la morte della Luce di Meridian è ormai questione
di giorni. Scappa, Elias. Scappa finché puoi. Ormai qui sei
segnato. E, ne sono certa, è segnato anche il tuo patrigno
Luduvik!”. Poi si guarda in giro, come se temesse di veder Cedric
materializzarsi dal nulla. “Io non ti ho detto niente. Io non sono
mai stata qui, oggi”. Si volta verso la porta. “Buona fortuna,
Elias. Addio”. Poi esce furtiva.
Lui guarda dalla finestra mentre la sua
vicina rientra rapidamente nella sua casa e sparisce alla vista.
Meridian, quella sera
L’ora del tramonto è passata,
e le vie della città si stanno lentamente spopolando,
illuminate solo dal chiarore di una delle due lune e da quella poca
luce che filtra dalle finestre delle case.
Luduvik, intabarrato in un pastrano che
nasconde la divisa, cammina con prudenza lungo la tortuosa vietta che
scende da piazzale Sottocastello fino a una casa che per molti anni
si era abituato a considerare sua.
Cercando di scacciare i rimpianti,
bussa alla porta.
Subito si apre uno spiraglio. “Entra,
presto”, ordina piano la voce grave di Eliasdal.
All’interno, chiusa la porta, Luduvik
abbassa il cappuccio. “Perché mi hai cercato con tanta
urgenza, Elias?”, chiede gelido. Dopo la morte di Odridel, i loro
rapporti si sono molto raffreddati: anche se l’ex sergente non l'ha
mai rimproverato apertamente, considera Eliasdal in qualche modo
responsabile della morte di sua moglie e della fine della sua
carriera.
Il pittore gli fa cenno di sedere al
tavolo, dove due bicchieri sembrano attenderli facendo compagnia a
una bottiglia di succo di melopea.
Appena seduti, Eliasdal inizia:
“Luduvik, ho saputo che intendono arrestaci non appena la Regina
sarà morta. E che questo succederà entro pochi
giorni”.
L’altro si acciglia, ma non sembra
sorpreso. “Da chi lo hai saputo?”.
“Non posso dirtelo”, taglia corto,
“Ma per me è meglio fuggire subito. Oggi o domani, se
possibile”.
Luduvik annuisce piano, con lo sguardo
perso in un angolo buio. “Hai già un piano?”, gli chiede
dopo un interminabile momento di silenzio.
“Sì. E mi servi tu”.
L’altro nicchia. “Sappi che non ho
più accesso ai sigilli di teletrasporto. Sono un soldato
semplice, ormai”.
“Non ai sigilli. Alla macchina del
tempo sequestrata”.
L’uomo si acciglia. “Vuoi dire, a
quel cavolo di trappola che ha ucciso Odridel?”.
“Sì, quella”.
Storce il viso. “Hai deciso di
suicidarti?”.
“Ho deciso di provare a vivere
libero. E ho un gran buon motivo per pensare che ci riuscirò”.
Sempre col viso deformato da una
smorfia di scetticismo, l’altro chiede: “E sarebbe?”.
“Non posso dirtelo, ma me l’ha dato
la Regina stessa”.
Luduvik si morde il labbro: se c’entra
una profezia della Luce di Meridian, è una cosa seria.
Eliasdal prosegue: “Voglio
trasferirmi sulla Terra in un’epoca remota, in cui non esisteva
Phobos, e se lo vorrai potrai venire con me”.
L’altro storce nuovamente il viso.
“La Terra… Ma ti pare che io possa passare per terrestre?”.
“Se puoi procurarmi dell’acqua
magica, ti aiuterò io a cambiare, e anche a vivere lì.
Io so già che ci riuscirò e avrò successo”.
Luduvik aspetta molto a rispondere, la
mano immobile sul bicchiere. Infine dice in fretta: “Domani notte”,
poi butta giù un gran sorso di bevanda, come per ingoiare una
pillola. “Domani notte avrò il turno di sorveglianza a quel
cavolo di torre Nord. Tu entrerai nel palazzo nel pomeriggio con
qualche scusa, e io ti nasconderò in uno stanzino. Di notte,
stordirò l’altra guardia, verrò a prenderti e
apriremo la porta di un magazzino al sesto piano della torre Nord. Lì
è tenuta quella macchina maledetta, assieme a tanti oggetti
sequestrati a maghi illegali. L’energia la potremo ottenere dalle
tubazioni che irrigano il giardino: di notte, molta dell’acqua
magica della città è deviata verso il paradiso in terra
del Sommo Stronzo”.
Eliasdal annuisce con interesse,
indifferente al linguaggio da caserma che non gli aveva mai sentito
usare finché era viva Odridel. “Questo si chiama parlare!”.
Meridian, palazzo reale, la notte dopo
Le ore passano interminabili quando si
è chiusi a chiave in una stanza buia, e il senso del tempo
deve appigliarsi al proprio respiro lento o al rumore occasionale di
passi nel corridoio.
Dopo decine di falsi allarmi e false
speranze, l’ultimo scalpiccio è finalmente quello buono. Con
uno scatto della serratura, la porta si apre, e il primo raggio di
luce che ne entra sembra quasi un fioco lampo.
Il viso di Luduvik appare nella
fessura. Senza una parola, gli infila nella stanza degli indumenti e
un paio di stivali: una divisa da guardia. Eliasdal capisce che deve
indossarla, e lo fa più rapidamente che può, mentre
l’altro entra per aiutarlo con gli alamari e la fascia alla vita.
I pantaloni gli sono corti, ma gli stivaloni in cui infilarli
nascondono bene la cosa.
Come ultimo cambiamento, Luduvik gli
porge un vasetto di fondotinta verde, ma Eliasdal è in grado
di controllare da solo il colore della sua pelle.
Quando escono con circospezione dallo
sgabuzzino, l’ex sergente si incammina silenzioso verso la torre
Nord, e Eliasdal lo segue, sussultando a ogni svolta e a ogni rumore.
Di tanto in tanto, Luduvik si ferma a fare un gesto convenzionale a
qualche invisibile sistema di sorveglianza.
Dopo un itinerario contorto fatto di
frequenti deviazioni e cambiamenti di piano, i due arrivano
finalmente alla base della torre Nord senza aver incontrato alcuno.
Salgono le scale ricurve fino al sesto piano, dove Luduvik apre con
una chiave una robusta porta.
All’interno dello stanzone che si
avvolge attorno al vano scale come un anello, illuminati da una fioca
luce fluorescente verdolina, si rivelano scaffali stipati da ogni
genere di talismani, statuette, specchi deformanti, libri e altro,
ciascuno corredato di una schedina che, immagina Eliasdal, farà
riferimento alle circostanze del sequestro.
Appena fatti pochi passi, la vedono. La
macchina del tempo è lì, in ottime condizioni.
Dopo un rapido e silenzioso esame,
Eliasdal annuisce soddisfatto, e Luduvik raccoglie da uno scaffale un
barilotto e alcuni attrezzi da idraulico.
Accostata la porta, tornano a scendere
per le scale. Ora non solo i passi, ma anche i respiri risuonano nel
silenzio.
Arrivati a un corridoio sotterraneo
nell’ala nordovest, si accostano a una porticina metallica. Luduvik
fa alcuni gesti misteriosi davanti a un bassorilievo di una testa di
pipistrello, poi apre il locale con una chiave. All’interno, tubi
di piombo e valvole di bronzo si dipartono da un unico collettore.
Luduvik inizia a smontare da un tubo
uno strumento il cui quadrante mostra una intensa fosforescenza
verdina e, poco dopo, un fiotto di acqua dalla tenue luminosità
comincia a fluire nel barilotto.
Poco dopo, i due ritornano verso la
torre Nord con il prezioso e pesante bottino, dopo aver cercato di
cancellare tutte le tracce del loro passaggio. Di nuovo, passi
felpati e respiri risuonano nei locali fin troppo silenziosi.
Giunti faticosamente in cima alle
scale, entrano nuovamente nel magazzino. Finora tutto è andato
bene, sorprendentemente bene.
Eliasdal inizia rapidamente a disporre
gli specchi e a collegarli, mentre Luduvik accosta il barilotto al
conversore psicoenergetico, inserendo nel prezioso liquido il tubo di
pescaggio, e aspirando con la bocca da un tubicino per innescare il
sifone inverso.
Poco dopo, i due uomini si scambiano
silenziosi cenni di assenso: la macchina del tempo è pronta.
Eliasdal immerge brevemente i polsi
nell’acqua fosforescente, sentendosi ricaricare da una sensazione
di potere e successo imminente. Gli basta volerlo, e in un attimo il
colore della sua pelle muta nel tipico rosato dei terrestri. Poi
appoggia il palmo sulla fronte di Luduvik, che viene percorsa da
aloni e, più lentamente, anche il suo aspetto muta, diventando
credibilmente simile a quello di un tipico abitante dell’altro
mondo.
Con un ultimo, silenzioso cenno di
assenso, Eliasdal si porta al centro dei quattro specchi,
allineandoli con cura e facendo cenno a Luduvik di accostarsi a lui.
D’improvviso, voci lontane cominciano
a risuonare nel vano scale, attutite dalla porta accostata. Sono più
voci, sempre più agitate, sempre più vicine. Certo li
hanno scoperti, ma troppo tardi.
Eliasdal inizia a ripetere la sequenza
mentale, dapprima in modo lento, poi sempre più velocemente.
Le voci si avvicinano, si fanno
riconoscibili, Una, che tuona ordini, sembra quella del comandante
Alborn.
“Aspetta, vado a chiudere la porta a
chiave” dice Luduvik, muovendo due passi in direzione
dell’ingresso. Proprio in quel momento, gli specchi iniziano
scintillare, il rumore del conversore psicoenergetico aumenta, e dai
suoi interstizi il discreto luccichio dell’acqua si trasforma in un
lampo.
Quando riapre gli occhi, Eliasdal si
trova davanti a un incantevole paesaggio di una campagna verde e
piatta, disseminata di cascine sparse e di mulini a vento, che sembra
uscita dai quadri del suo bel libro patinato sui pittori olandesi.
“Luduvik, ce l’abbiamo fatta!”,
grida con gioia in meridiano. “Siamo sulla Terra. Siamo in Olanda,
nel loro anno 1620! Capisci? Ce l’abbiamo fatta!”. Si guarda
attorno. “Luduvik? Luduvik, dove sei?”.
Quando realizza di essere solo, la sua
gioia si vela di amarezza. Solo lui è libero. Il suo patrigno
non è riuscito, e pagherà le conseguenze per tutti e
due.
Meridian, giardino di Phobos, alcune ore dopo
Lord Cedric si addentra da solo nel
giardino proibito, dopo aver lasciato le guardie e il fido Vathek
alla porta della torre est. Sotto il braccio porta un volume
illustrato: il reperto migliore delle loro indagini sulla fuga di
Eliasdal.
Con sua grande sorpresa, un umanoide
dall’aspetto alieno ed elegante gli viene incontro. Ha uno sguardo
immobile ma penetrante, più simile a quello di un gatto che di
un essere umano. Il disagio di Cedric è aumentato dalla nudità
che l’essere, dalla lucida pelle verde ammantata da lunghissimi
capelli marroni, porta con la più completa disinvoltura.
Com'è apparso, l’essere si
ritira con grazia verso il folto del giardino senza emettere un solo
fruscio, confondendosi con i colori delle piante come se lui stesso
facesse parte di quel luogo vietato.
Mentre Cedric lo segue con lo sguardo,
in un qualche luogo tra le sue orecchie risuona un pensiero
imperioso: ‘Vieni avanti fino alla polla, Cedric’.
Avanza in mezzo alla vegetazione,
guardandosi intorno. Dell’essere non vede più alcuna
traccia.
Arrivato al laghetto, non trova nessuno
ad aspettarlo. “Altezza…”.
“Alza gli occhi, Cedric”, risuona
la voce del principe. Phobos è in piedi, immobile, alla
sommità della rupe, vicino alla sorgente della cascatella.
“Altezza! Perdonatemi se vi ho
cercato in questo luogo privato. Posso chiedervi chi era quell’essere
che mi è venuto incontro?”.
“Era un mormorante” risponde
semplicemente Phobos dall’alto, come se questo spiegasse tutto.
“Che novità hai sul traditore Eliasdal?”, chiede con il
tono annoiato di chi non si aspetta svolte decisive.
Ma sbaglia.
Cedric cerca di mantenersi compunto e
irreprensibile, nascondendo sia il disagio creato da quel luogo, sia
l’eccitazione per la sua scoperta. “Altezza, abbiamo trovato un
reperto importantissimo che il traditore ha imprudentemente lasciato
a casa. Con questo, sappiamo dove e soprattutto quando cercarlo”.
Prende in mano il grosso libro illustrato, e glielo apre.
“Cos’è?”. A un gesto di
Phobos, il libro scompare dalle mani dell’altro per riapparire tra
le sue.
“Un libro terrestre? Come se l’è
procurato?”.
“Gliel’ha donato la Regina ai
funerali di Odridel”.
Phobos si scurisce in viso: che parte
ha sua madre in questa cosa? Poi mette a fuoco l’autoritratto in
testa alla pagina. “Ma questo… è lui!”.
“Esatto, Altezza. Con il nome di
Elias Van Dahl. Sono convinto che si è trasferito nella
Amsterdam del 1620 per impersonare questo pittore”.
Phobos annuisce, scorrendo il testo.
“Qui c’è scritto che le sue tracce si perdono nel 1629”.
“Appunto. Altezza, se ritenete che
valga l’alto costo energetico per il viaggio nel tempo, preparerò
con ogni cura una missione per catturarlo nel 1629 e portarlo a
Meridian”.
Il viso di Phobos resta impenetrabile.
Cedric insiste: “Altezza, se non
saremo noi a catturarlo nel 1629, potrebbe sparire in altri modi.
Magari potrebbe tornare a Meridian, a piede libero, secoli prima
della vostra stessa nascita, e…”.
Phobos lo interrompe con disappunto:
“Cedric, non è in discussione che voi dobbiate prendere quel
traditore a ogni costo. Ma mi fa rabbia dovergli regalare nove anni
d'impunità, sia pure brevi annetti terrestri”. Riflette un
attimo. “Prepara dunque la sua cattura per il 1629. Ma questo
significherà che la sua punizione sarà esemplare. Per
quei nove anni rubati, la sua prigionia sarà molto più
lunga della vita di qualunque uomo”.