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Autore: MaxT    06/03/2011    6 recensioni
“Non si può fermare l’inverno, ma si può seminare per la primavera”. Adariel Escanor, sesta Luce di Meridian. Questo prequel racconta gli avvenimenti culminati con l’ascesa al potere di Phobos, la lotta di una regina morente per assicurare un futuro al suo mondo e la fuga sulla Terra dei genitori adottivi di Elyon con la predestinata al trono di Meridian.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Phobos
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le profezie di Meridian'
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19-Fuga nel tempo  
 
Ad personam:
Cara Melisanna, che piacere sentirti! Sei stata rapidissima! Le tue deduzioni sono giuste, ci avviciniamo al momento conclusivo. Nella scala del tempo del racconto mancano ancora alcune settimane.
Vero che è simpatica Yan Lin? E' uno dei miei personaggi preferiti, anche se dal punto di vista dei meridiani è gradevole quanto Cerbero. Spero proprio di leggere presto la conclusione del tuo Terra Magica.
Cara Atlantis  Lux, grazie della bella recensione, sono felice di poter sempre contare su di te. Anche a me Phobos fa un po' pena. Quel po' di sentimenti umani che ancora può nutrire sparirà completamente dopo che avrà preso le ultime batoste. Non per mio sadismo, naturalmente: questa storia deve spiegare l'involuzione di questo personaggio nello spietato villain che ci è presentato dal fumetto anni dopo questi eventi.
Un sentito ringraziamento anche a Silen per la rilettura delle bozze di questa storia.

Qualche parola su questo capitolo, che è ambientato un mese e mezzo dopo il precedente, e si sviluppa in un arco di circa quarantott'ore. Sulla Terra, siamo a metà del dicembre 1984. Ormai mancano pochissimi giorni alla conclusione di La Luce al tramonto.
Per quanto riguarda Eliasdal e Luduvik, invece, questa sarà la loro ultima apparizione. Il nostro pittore verrà ritrovato prigioniero nel suo stesso quadro, dopo un'attesa di quasi quattrocento anni, in W.I.T.C.H. n.5, un bellissimo episodio del fumetto del quale qui ho ricostruito gli antefatti.

Buona lettura
MaxT

Capitolo 19

Fuga nel tempo

Per quei nove anni rubati alla punizione, la sua prigionia sarà molto più lunga della vita di qualunque uomo”

Il Principe Phobos


Meridian, casa di Eliasdal

Nella casa deserta, attraverso le finestre chiuse filtrano i rumori della giornata: il chiacchierio di alcuni passanti, lo scalpiccio ritmato degli zoccoli di un asinello, un rumore lontano di ruote cerchiate di ferro sul selciato irregolare.
Nella cucina, un sottile strato di polvere offusca la lucentezza del rame delle pentole. Negli angoli, piccole ragnatele hanno cominciato a espandersi timidamente alla conquista dell’ambiente.

Al centro della stanza, da un baluginio prendono consistenza due sagome: quella elegante di Lord Cedric, e quella massiccia di un gigante dalla pelle azzurrina.
“Eccoci, Vathek”, dice il primo, guardandosi attorno. “Ci tenevo a dare un’altra occhiata all'abitazione di Eliasdal”.

Anche l’altro osserva il locale. “In effetti, Signore, non è una brutta casa”. Passa la mano su una mensola, e osserva gli aloni di polvere rimasti sui suoi polpastrelli. “Però ormai si nota la mancanza di una donna”.

Cedric si dirige verso le scale. “Non sono qui per controllare le pulizie. Vorrei ridare un’occhiata ad alcune cose che avevo notato di sfuggita”.

Salito fino nella mansarda, Cedric si guarda ancora attorno. Decine di quadri, finiti o incompiuti, sono schierati lungo i muri, o sui cavalletti, o accostati come libri in qualche angolo in un maldestro tentativo d'ordine. Il colore rossiccio di alcune sculture di terracotta punteggia il locale. “Il tipico studio di un artista”, sogghigna.

Vathek sale a sua volta, dopo essersi accertato prudentemente che la scala di legno regga il suo peso. Lo fa sempre per abitudine, dopo aver avuto altre brutte sorprese in passato. Subito, il suo sguardo cade su due ritratti ancora sui cavalletti, e poi su un busto di terracotta sostenuto da uno sgabello. “Ma quello non è il Principe Phobos?”.

“Sì” conferma Cedric, “In questa soffitta ho contato un busto e sette ritratti del Principe, né autorizzati, e men che meno commissionati da lui”. Li confronta tra loro. “Non sono molto somiglianti. Deve averlo ritratto a memoria. Ma perché?”.

“Forse lo ammira?” suggerisce il gigante.

“Non credo” risponde pensieroso l’altro, “E non ha mai avuto confidenza, neanche una volta quando il principe era molto più accessibile di ora”.

“E’ per questo che somigliano poco”, aggiunge il gigante, poi s’illumina come per un colpo di genio. “Forse per lui è una sfida: vuole riuscire a farne almeno uno somigliante”.

Cedric lo squadra con sufficienza e ironizza: “Non ti sapevo così psicologo, Vathek”.

Il gigante si acciglia, incerto se il suo superiore l' abbia inteso come un complimento o come un insulto, anche perché non sa cosa vuol dire esattamente quella parola. Sforzandosi di non pensarci, si porta davanti a un bel quadro del palazzo reale, lo osserva, poi si inchina per guardare fuori dalla finestra verso il maestoso edificio che sovrasta la rupe. “Eppure questo è perf…”.

“Attento!”.

L’avvertimento arriva troppo tardi: nel chinarsi, l’omone ha urtato il busto di Phobos, che si sbilancia e cade rumorosamente sul pavimento, frantumandosi in grossi pezzi di coccio.

Alzandosi di colpo, cozza con la testa su una capriata di legno. “Mer…”.
“Vathek, bestione!”, sbotta a mezza voce Cedric. “Non so perché ti ho portato…”.

“Sono desolato… perdonatemi”, borbotta tenendosi la testa quasi calva.
Guardando il disastro ai suoi piedi, Cedric sbotta: “Ci vorrà altro che perdonarti… dobbiamo giustificare questo danno!”. Guarda fuori dalla finestra, e un sorriso astuto gli illumina il viso. Un grosso gatto leporino cammina disinvolto, con ineccepibile equilibrio, sulla falda di un tetto vicino. “Ecco il nostro colpevole” dice, e i suoi occhi brillano.

Il gatto si immobilizza un attimo, poi cambia direzione come in trance e con pochi lenti passaggi da equilibrista arriva fino alla finestra.

“Entra”, ordina Cedric all’animale aprendogli i battenti, “E resta qui fino all’arrivo di Eliasdal!”.

Il micione prende a vagare, lento e con sguardo assente, nella mansarda.

“Whow! Geniale!”, esclama Vathek ammirato.

“Bene”, si compiace lord Cedric, “Ora dobbiamo cercare qualunque cosa sospetta”, dice, osservando da vicino il retro dei ritratti del principe alla ricerca di scritte arcane.

“Cosa cerchiamo, Signore?”, chiede il gigante.

“Qualunque cosa sospetta, l'ho detto. Lettere. Scritti. Formule magiche. Amuleti. Elementi di un’altra macchina del tempo. In fondo, Eliasdal è fratello di un condannato per spiritismo”.

Una luce di comprensione si accende negli occhi dell’omone. “Voi… voi pensate che tutti questi ritratti possano servire per gettare il malocchio sul Principe?”.

“Forse. O forse glieli ha commissionati qualcuno per irriderlo. Come quelle orribili caricature tracciate sui muri della città prima di quegli scontri di piazza”.

“Criminali irrispettosi!”, sbotta l’omone stringendo i pugni possenti con una smorfia indefinibile.

“Da quella volta, ogni ritratto non autorizzato di Phobos è vietato”, continua Lord Cedric.

“Ma allora, ciò che abbiamo già trovato non basterebbe ad arrestarlo? Poi lo faremmo parlare come ben sappiamo…”.

Cedric si stringe nelle spalle. “Anche il tentativo di fuga sarebbe bastato per incarcerarlo. Purtroppo Eliasdal è un protetto della Regina. Per ora limitiamoci a sorvegliarlo, ma una volta morta lei, che gli Dei l’abbiano in gloria, il nostro pittore smetterà di essere trattato con troppi riguardi”.


Mezz’ora dopo, il silenzio della casa deserta viene rotto dallo scatto del chiavistello, seguito da un cigolio, mentre il battente della porta si apre e la luce del sole inonda l’interno.
Eliasdal entra e appoggia sul tavolo il sacchetto di iuta che portava con sé. In poche mosse estrae dai battenti della credenza un piatto ancora mezzo pieno di briciole, un coltello e una bottiglia di succo di melopea, e prende da una mensola un bicchiere di ceramica mal lavato.
Sedutosi a tavola, il pittore inizia il suo pranzo frugale, quando la coda dell’occhio gli va in cima alla scala: da lì, due occhi gialli e luminosi da gatto leporino lo stanno fissando.

“E tu cosa fai qui?”.
Vistosi scoperto, il gatto scappa colpevolmente verso i piani superiori.
Eliasdal sale le scale in tempo per vedere la coda impellicciata sparire nella botola della soffitta.

Salita anche la seconda scala, Eliasdal scorge subito i frammenti del busto di terracotta sul pavimento. “Bestiaccia!”, dice fra sé. “Va beh che era mal riuscita, quella scultura…”.
Va a controllare il dipinto del palazzo, constatando con sollievo che è intatto. Anche gli altri quadri non presentano alcun danneggiamento.

Nota una finestra semiaperta. ‘Strano… sto diventando sempre più distratto’, ne conclude.

Si avvicina al gatto leporino, mormorando “Micio, micione…” con voce suadente.

Ancora una volta, come incantato, l’animale gli viene vicino, lasciandosi afferrare senza proteste per la collottola. Lo riconosce: è Miev, il gattone della signora Vertel. L’anziana sensitiva ha fatto mille favori alla sua famiglia, per cui ora gli sembra doveroso renderglielo senza chiedere alcun risarcimento.

Poco dopo, Eliasdal si avvicina alla coloratissima casa della sua vicina. Il battente della porta è completamente dipinto a fiori dai colori vivaci, ai quali ogni anno viene aggiunto un nuovo mazzo o rametto. Da lui, naturalmente: questo lavoretto non rende bene come eseguire ritratti su commissione, ma è un ringraziamento adeguato per la gentilezza della sensitiva. Questa, con la sua forte telepatia, si presta anche a trasmettere messaggi a persone distanti e fornisce risposte in tempo reale ai suoi clienti e amici privi di tale potere.

Il pittore non fa in tempo a bussare, che già il battente fiorito si apre. “Entra, entra, Elias”, dice la voce della signora da dentro.
La casa, linda e ordinata, è ornata di piccoli quadretti di fiori e animaletti in ogni spazio disponibile sulle pareti.

“Signora, le ho riportato il suo micione. Era entrato in casa mia”.

“Perdonalo”, risponde lei gentile. “E’ strano, non lo faceva da molto tempo. Eppure sono stata sempre così chiara con lui… vero, Miev?”.

“Mieeev”, conferma il gatto leporino.
“Vuoi restare a pranzo, Elias? Così mi faccio perdonare un po’ per la tua scultura...”.

“No, grazie”, declina lui accennando a voltarsi. “Ho già messo in tavola”.

Poco dopo il pittore sta finendo il suo parco pranzo, pensieroso. Anche se quel busto di Phobos non era ben riuscito, l’incidente gli è sembrato un presagio. Ma di cosa?
Un bussare alla porta, sommesso ma impaziente, lo distoglie dai suoi pensieri, e va ad aprire.

“Signora Vertel?” fa, sorpreso, davanti alla donna visibilmente agitata.

“Posso entrare?”.

“Certo…”, dice scostandosi. “Solo, scusi il disordine”.

Appena richiusa la porta, la signora lo fronteggia. “Elias, ho avuto delle visioni accarezzando Miev. Lui non è entrato da solo, ma è stato costretto dalla volontà di quello stesso uomo che è comparso qui quando è morta la povera Odridel”.

Il pittore sbarra gli occhi. “Vuol dire… Lord Cedric?”.

“Zitto!”, intima lei coprendosi la bocca con le mani, “Non pensare mai il nome di chi non vorresti incontrare”. Dopo un attimo di silenzio confuso, riprende: “Era qui questa mattina, in casa tua, assieme a un gigante dalla pelle azzurrina. Quando il gatto è entrato, il busto era già rotto a terra”.

Lui annuisce, senza riuscire a proferire verbo.

Lei riprende: “Quel che è peggio, Elias, è che hanno detto che, appena la regina sarà morta, verranno a prenderti per farti pagare tutto assieme, il tuo tentativo di fuga e i ritratti di Phobos. Non sapevi che ora sono proibiti?”.

Lui storce il viso, stupito e confuso. “Proibito… un ritratto? Da quando?”.

La signora non risponde, ma continua: “Sento che la morte della Luce di Meridian è ormai questione di giorni. Scappa, Elias. Scappa finché puoi. Ormai qui sei segnato. E, ne sono certa, è segnato anche il tuo patrigno Luduvik!”. Poi si guarda in giro, come se temesse di veder Cedric materializzarsi dal nulla. “Io non ti ho detto niente. Io non sono mai stata qui, oggi”. Si volta verso la porta. “Buona fortuna, Elias. Addio”. Poi esce furtiva.

Lui guarda dalla finestra mentre la sua vicina rientra rapidamente nella sua casa e sparisce alla vista.


Meridian, quella sera

L’ora del tramonto è passata, e le vie della città si stanno lentamente spopolando, illuminate solo dal chiarore di una delle due lune e da quella poca luce che filtra dalle finestre delle case.
Luduvik, intabarrato in un pastrano che nasconde la divisa, cammina con prudenza lungo la tortuosa vietta che scende da piazzale Sottocastello fino a una casa che per molti anni si era abituato a considerare sua.

Cercando di scacciare i rimpianti, bussa alla porta.

Subito si apre uno spiraglio. “Entra, presto”, ordina piano la voce grave di Eliasdal.

All’interno, chiusa la porta, Luduvik abbassa il cappuccio. “Perché mi hai cercato con tanta urgenza, Elias?”, chiede gelido. Dopo la morte di Odridel, i loro rapporti si sono molto raffreddati: anche se l’ex sergente non l'ha mai rimproverato apertamente, considera Eliasdal in qualche modo responsabile della morte di sua moglie e della fine della sua carriera.
Il pittore gli fa cenno di sedere al tavolo, dove due bicchieri sembrano attenderli facendo compagnia a una bottiglia di succo di melopea.

Appena seduti, Eliasdal inizia: “Luduvik, ho saputo che intendono arrestaci non appena la Regina sarà morta. E che questo succederà entro pochi giorni”.

L’altro si acciglia, ma non sembra sorpreso. “Da chi lo hai saputo?”.

“Non posso dirtelo”, taglia corto, “Ma per me è meglio fuggire subito. Oggi o domani, se possibile”.

Luduvik annuisce piano, con lo sguardo perso in un angolo buio. “Hai già un piano?”, gli chiede dopo un interminabile momento di silenzio.

“Sì. E mi servi tu”.

L’altro nicchia. “Sappi che non ho più accesso ai sigilli di teletrasporto. Sono un soldato semplice, ormai”.

“Non ai sigilli. Alla macchina del tempo sequestrata”.

L’uomo si acciglia. “Vuoi dire, a quel cavolo di trappola che ha ucciso Odridel?”.

“Sì, quella”.

Storce il viso. “Hai deciso di suicidarti?”.

“Ho deciso di provare a vivere libero. E ho un gran buon motivo per pensare che ci riuscirò”.

Sempre col viso deformato da una smorfia di scetticismo, l’altro chiede: “E sarebbe?”.

“Non posso dirtelo, ma me l’ha dato la Regina stessa”.
Luduvik si morde il labbro: se c’entra una profezia della Luce di Meridian, è una cosa seria.

Eliasdal prosegue: “Voglio trasferirmi sulla Terra in un’epoca remota, in cui non esisteva Phobos, e se lo vorrai potrai venire con me”.

L’altro storce nuovamente il viso. “La Terra… Ma ti pare che io possa passare per terrestre?”.

“Se puoi procurarmi dell’acqua magica, ti aiuterò io a cambiare, e anche a vivere lì. Io so già che ci riuscirò e avrò successo”.

Luduvik aspetta molto a rispondere, la mano immobile sul bicchiere. Infine dice in fretta: “Domani notte”, poi butta giù un gran sorso di bevanda, come per ingoiare una pillola. “Domani notte avrò il turno di sorveglianza a quel cavolo di torre Nord. Tu entrerai nel palazzo nel pomeriggio con qualche scusa, e io ti nasconderò in uno stanzino. Di notte, stordirò l’altra guardia, verrò a prenderti e apriremo la porta di un magazzino al sesto piano della torre Nord. Lì è tenuta quella macchina maledetta, assieme a tanti oggetti sequestrati a maghi illegali. L’energia la potremo ottenere dalle tubazioni che irrigano il giardino: di notte, molta dell’acqua magica della città è deviata verso il paradiso in terra del Sommo Stronzo”.

Eliasdal annuisce con interesse, indifferente al linguaggio da caserma che non gli aveva mai sentito usare finché era viva Odridel. “Questo si chiama parlare!”.

Meridian, palazzo reale, la notte dopo

Le ore passano interminabili quando si è chiusi a chiave in una stanza buia, e il senso del tempo deve appigliarsi al proprio respiro lento o al rumore occasionale di passi nel corridoio.
Dopo decine di falsi allarmi e false speranze, l’ultimo scalpiccio è finalmente quello buono. Con uno scatto della serratura, la porta si apre, e il primo raggio di luce che ne entra sembra quasi un fioco lampo.

Il viso di Luduvik appare nella fessura. Senza una parola, gli infila nella stanza degli indumenti e un paio di stivali: una divisa da guardia. Eliasdal capisce che deve indossarla, e lo fa più rapidamente che può, mentre l’altro entra per aiutarlo con gli alamari e la fascia alla vita. I pantaloni gli sono corti, ma gli stivaloni in cui infilarli nascondono bene la cosa.

Come ultimo cambiamento, Luduvik gli porge un vasetto di fondotinta verde, ma Eliasdal è in grado di controllare da solo il colore della sua pelle.

Quando escono con circospezione dallo sgabuzzino, l’ex sergente si incammina silenzioso verso la torre Nord, e Eliasdal lo segue, sussultando a ogni svolta e a ogni rumore. Di tanto in tanto, Luduvik si ferma a fare un gesto convenzionale a qualche invisibile sistema di sorveglianza.
Dopo un itinerario contorto fatto di frequenti deviazioni e cambiamenti di piano, i due arrivano finalmente alla base della torre Nord senza aver incontrato alcuno. Salgono le scale ricurve fino al sesto piano, dove Luduvik apre con una chiave una robusta porta.

All’interno dello stanzone che si avvolge attorno al vano scale come un anello, illuminati da una fioca luce fluorescente verdolina, si rivelano scaffali stipati da ogni genere di talismani, statuette, specchi deformanti, libri e altro, ciascuno corredato di una schedina che, immagina Eliasdal, farà riferimento alle circostanze del sequestro.
Appena fatti pochi passi, la vedono. La macchina del tempo è lì, in ottime condizioni.

Dopo un rapido e silenzioso esame, Eliasdal annuisce soddisfatto, e Luduvik raccoglie da uno scaffale un barilotto e alcuni attrezzi da idraulico.

Accostata la porta, tornano a scendere per le scale. Ora non solo i passi, ma anche i respiri risuonano nel silenzio.

Arrivati a un corridoio sotterraneo nell’ala nordovest, si accostano a una porticina metallica. Luduvik fa alcuni gesti misteriosi davanti a un bassorilievo di una testa di pipistrello, poi apre il locale con una chiave. All’interno, tubi di piombo e valvole di bronzo si dipartono da un unico collettore.

Luduvik inizia a smontare da un tubo uno strumento il cui quadrante mostra una intensa fosforescenza verdina e, poco dopo, un fiotto di acqua dalla tenue luminosità comincia a fluire nel barilotto.

Poco dopo, i due ritornano verso la torre Nord con il prezioso e pesante bottino, dopo aver cercato di cancellare tutte le tracce del loro passaggio. Di nuovo, passi felpati e respiri risuonano nei locali fin troppo silenziosi.
Giunti faticosamente in cima alle scale, entrano nuovamente nel magazzino. Finora tutto è andato bene, sorprendentemente bene.

Eliasdal inizia rapidamente a disporre gli specchi e a collegarli, mentre Luduvik accosta il barilotto al conversore psicoenergetico, inserendo nel prezioso liquido il tubo di pescaggio, e aspirando con la bocca da un tubicino per innescare il sifone inverso.

Poco dopo, i due uomini si scambiano silenziosi cenni di assenso: la macchina del tempo è pronta.
Eliasdal immerge brevemente i polsi nell’acqua fosforescente, sentendosi ricaricare da una sensazione di potere e successo imminente. Gli basta volerlo, e in un attimo il colore della sua pelle muta nel tipico rosato dei terrestri. Poi appoggia il palmo sulla fronte di Luduvik, che viene percorsa da aloni e, più lentamente, anche il suo aspetto muta, diventando credibilmente simile a quello di un tipico abitante dell’altro mondo.

Con un ultimo, silenzioso cenno di assenso, Eliasdal si porta al centro dei quattro specchi, allineandoli con cura e facendo cenno a Luduvik di accostarsi a lui.

D’improvviso, voci lontane cominciano a risuonare nel vano scale, attutite dalla porta accostata. Sono più voci, sempre più agitate, sempre più vicine. Certo li hanno scoperti, ma troppo tardi.
Eliasdal inizia a ripetere la sequenza mentale, dapprima in modo lento, poi sempre più velocemente.

Le voci si avvicinano, si fanno riconoscibili, Una, che tuona ordini, sembra quella del comandante Alborn.

“Aspetta, vado a chiudere la porta a chiave” dice Luduvik, muovendo due passi in direzione dell’ingresso. Proprio in quel momento, gli specchi iniziano scintillare, il rumore del conversore psicoenergetico aumenta, e dai suoi interstizi il discreto luccichio dell’acqua si trasforma in un lampo.

Quando riapre gli occhi, Eliasdal si trova davanti a un incantevole paesaggio di una campagna verde e piatta, disseminata di cascine sparse e di mulini a vento, che sembra uscita dai quadri del suo bel libro patinato sui pittori olandesi.
“Luduvik, ce l’abbiamo fatta!”, grida con gioia in meridiano. “Siamo sulla Terra. Siamo in Olanda, nel loro anno 1620! Capisci? Ce l’abbiamo fatta!”. Si guarda attorno. “Luduvik? Luduvik, dove sei?”.

Quando realizza di essere solo, la sua gioia si vela di amarezza. Solo lui è libero. Il suo patrigno non è riuscito, e pagherà le conseguenze per tutti e due.


Meridian, giardino di Phobos, alcune ore dopo

Lord Cedric si addentra da solo nel giardino proibito, dopo aver lasciato le guardie e il fido Vathek alla porta della torre est. Sotto il braccio porta un volume illustrato: il reperto migliore delle loro indagini sulla fuga di Eliasdal.
Con sua grande sorpresa, un umanoide dall’aspetto alieno ed elegante gli viene incontro. Ha uno sguardo immobile ma penetrante, più simile a quello di un gatto che di un essere umano. Il disagio di Cedric è aumentato dalla nudità che l’essere, dalla lucida pelle verde ammantata da lunghissimi capelli marroni, porta con la più completa disinvoltura.

Com'è apparso, l’essere si ritira con grazia verso il folto del giardino senza emettere un solo fruscio, confondendosi con i colori delle piante come se lui stesso facesse parte di quel luogo vietato.

Mentre Cedric lo segue con lo sguardo, in un qualche luogo tra le sue orecchie risuona un pensiero imperioso: ‘Vieni avanti fino alla polla, Cedric’.

Avanza in mezzo alla vegetazione, guardandosi intorno. Dell’essere non vede più alcuna traccia.

Arrivato al laghetto, non trova nessuno ad aspettarlo. “Altezza…”.
“Alza gli occhi, Cedric”, risuona la voce del principe. Phobos è in piedi, immobile, alla sommità della rupe, vicino alla sorgente della cascatella.

“Altezza! Perdonatemi se vi ho cercato in questo luogo privato. Posso chiedervi chi era quell’essere che mi è venuto incontro?”.

“Era un mormorante” risponde semplicemente Phobos dall’alto, come se questo spiegasse tutto. “Che novità hai sul traditore Eliasdal?”, chiede con il tono annoiato di chi non si aspetta svolte decisive.

Ma sbaglia.

Cedric cerca di mantenersi compunto e irreprensibile, nascondendo sia il disagio creato da quel luogo, sia l’eccitazione per la sua scoperta. “Altezza, abbiamo trovato un reperto importantissimo che il traditore ha imprudentemente lasciato a casa. Con questo, sappiamo dove e soprattutto quando cercarlo”. Prende in mano il grosso libro illustrato, e glielo apre.

“Cos’è?”. A un gesto di Phobos, il libro scompare dalle mani dell’altro per riapparire tra le sue.

“Un libro terrestre? Come se l’è procurato?”.

“Gliel’ha donato la Regina ai funerali di Odridel”.

Phobos si scurisce in viso: che parte ha sua madre in questa cosa? Poi mette a fuoco l’autoritratto in testa alla pagina. “Ma questo… è lui!”.

“Esatto, Altezza. Con il nome di Elias Van Dahl. Sono convinto che si è trasferito nella Amsterdam del 1620 per impersonare questo pittore”.

Phobos annuisce, scorrendo il testo. “Qui c’è scritto che le sue tracce si perdono nel 1629”.

“Appunto. Altezza, se ritenete che valga l’alto costo energetico per il viaggio nel tempo, preparerò con ogni cura una missione per catturarlo nel 1629 e portarlo a Meridian”.

Il viso di Phobos resta impenetrabile.

Cedric insiste: “Altezza, se non saremo noi a catturarlo nel 1629, potrebbe sparire in altri modi. Magari potrebbe tornare a Meridian, a piede libero, secoli prima della vostra stessa nascita, e…”.

Phobos lo interrompe con disappunto: “Cedric, non è in discussione che voi dobbiate prendere quel traditore a ogni costo. Ma mi fa rabbia dovergli regalare nove anni d'impunità, sia pure brevi annetti terrestri”. Riflette un attimo. “Prepara dunque la sua cattura per il 1629. Ma questo significherà che la sua punizione sarà esemplare. Per quei nove anni rubati, la sua prigionia sarà molto più lunga della vita di qualunque uomo”.



  
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