Nick Autore: Morgain28 (MissChatterbox su EFP)
Titolo: Memories of Me and You
Personaggi: Andromeda Tonks; Ted Tonks; Ninfadora Tonks.
Pairing: TedAndromeda
Genere: Malinconico
Rating: Giallo
Avvertimenti: Spolier; Missing Moment.
Citazione scelta: 22. «La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...». (XXI, 93)
Introduzione: Andromeda ricorda il suo rapporto con Ted: l'inizio traballante, l'inaspettato sviluppo, le sue conseguenze. Intanto, Dora porta notizie.
NdA: Questa fic ha partecipato al concorso "Le Petit Prince" indetto da Only_Me sul forum di EFP, classificandosi quinta. Su QUINDICI. Un dato che ancora non riesco ad accettare, tanto sono sotto shock. XD Sono immensamente felice del risultato ottenuto, e ringrazio la giudice per il giudizio (che riporto alla fine) e per aver indetto il bellissimo contest. Non mi resta che augurare una buona lettura. Fatemi sapere cosa ne pensate!
M.
Memories of Me and You
Andromeda Tonks
si sedette stancamente sul letto matrimoniale, una scatola di legno
intagliato stretta in grembo. Con un dito, seguì la trama
dell'intarsio, liscia al tatto, e fredda.
Fredda come la
spessa coltre di neve sul davanzale della finestra; fredda come si
sentiva lei in quel momento.
Come si sentiva
da giorni.
Fredda, ma non vuota.
Sollevò il coperchio della scatola con più cautela di quanto la solidità del legno di ciliegio avrebbe richiesto, rivelando il suo contenuto.
Forse era nella
natura dei Black, fare delle collezioni.
Ricordava che a
scuola Bellatrix aveva una vasta collezione di punizioni quanto
Narcissa di spasimanti e voti alti.
Andromeda,
invece, raccoglieva memorie.
La sua prima
piuma d'oca, la sua prima Figurina dei Maghi Famosi... piccoli
oggetti senza importanza per nessuno tranne lei.
Era quello, il contenuto della scatola: memorie.
Raccolse gli
oggetti uno per uno, sistemandoli in ordine cronologico.
Obbiettivamente,
le apparvero davvero ordinari: la pagina di un libro, una foto
spiegazzata, una pergamena consunta; un nastro di seta e una Regina
Bianca degli scacchi.
Si soffermò sulla pagina del libro.
Aveva
dimenticato il titolo, ma ricordava che era di Pozioni.
Andromeda
odiava Pozioni.
A volte pensava
che solo il suo cognome altisonante le avesse evitato la bocciatura.
Studiava come
una forsennata fino a tardi solo per un Accettabile.
Era stato
durante una di quelle sessioni disperate in Biblioteca che aveva
incontrato l'uomo della sua vita.
E, per quanto suonasse poco romantico, non aveva provato che fastidio.
Un attimo prima
nella stanza regnava un silenzio tombale; quello dopo, un ragazzone
alto e completamente zuppo si faceva strada tra i tavoli
scricchiolando rumorosamente.
Andromeda non
aveva alzato nemmeno la testa; si era limitata ad uno sguardo veloce,
soppesando la testa di capelli biondi e le lentiggini sulla pelle
rosata.
Il ragazzo era
crollato su una sedia poco lontano da lei, con un profondo sospiro
soddisfatto; poi le aveva lanciato un'occhiata curiosa.
Un'occhiata estremamente lunga e snervante.
Andromeda era
generalmente una ragazza paziente -doveva esserlo, con due sorelle
bellicose come le sue-, ma ogni briciolo di sopportazione svaniva
quando era sotto influenza delle Pozioni.
“Potresti
smetterla di guardarmi, per piacere?” aveva esordito in tono
alquanto seccato.
Il ragazzo
aveva ghignato. “Ti disturba?”
Andromeda aveva
dovuto trattenersi dal dare una risposta sgarbata. “Abbastanza,
sì.”
“Ti dispiace
se resto?” “Basta che eviti di guardarmi.”
Lui non l'aveva
fatto. Invece, aveva continuato a presentarsi, sera dopo sera, ogni
volta con un sorriso più largo sulle labbra.
Il terzo giorno, Andromeda aveva perso le staffe.
“Lo fai
apposta?”
Lui le aveva
riservato la più innocente delle espressioni.
“Cosa?”
“Venire qui, a quest'ora.”
“Sì.”
Andromeda aveva
inarcato un sopracciglio.
“Robbins mi
ha sfidato rimanere fuori oltre il coprifuoco senza farmi beccare per
una settimana, e qui mi è sembrato il posto più sicuro.” aveva
elaborato lui.
Andromeda era ancora sospettosa, comunque.
“Perché
proprio a questo tavolo?”
“Perché è
il più vicino all'entrata.”
Aveva senso.
“Ma perché
mi stai a guardare? Fa parte della scommessa?”
Le parve fosse
arrossito, ma forse era la luce del fuoco.
“Perché non
dovrei? Sei molto bella.” aveva risposto.
Così era cominciata.
Quello che,
aveva poi saputo indagando con discrezione, si chiamava Ted Tonks,
Tassorosso Nato Babbano, era sempre lì alle nove precise.
Le loro serate
passavano in un silenzio via via meno nervoso, ma mai una parola
veniva scambiata tra loro.
L'ottava sera,
non vedendolo arrivare, Andromeda si era trovata a combattere con un
sentimento sconosciuto: una sorta di strano vuoto alla bocca dello
stomaco, che aveva identificato come “delusione”.
Forse era perché si era abituata a lui, si era detta. Di certo era per quello.
Ma neanche lei
aveva potuto negare che, sentendo passi pesanti che riconobbe come i
suoi con un'ora di ritardo rispetto al solito, si era sentita
sollevata.
“Ciao,”
l'aveva salutata lui, cordiale.
E quella volta,
prendendo il coraggio a due mani, Andromeda aveva ricambiato il
saluto.
Seppur con
qualche resistenza, era iniziato un tentativo di conversazione.
“Hai più
vinto la scommessa?”
“Certo, vinco
sempre io.”
“Mi fa
piacere per te.”
“Anche a me
fa piacere per me.”
Silenzio imbarazzato.
“Ti ho vista,
oggi.” era tornato alla carica lui. “A Erbologia, “ aveva
specificato.
Andromeda non
aveva risposto.
La verità era
che anche lei lo aveva notato.
Pensava di
essere riuscita a nascondersi dietro la Tentacula che stava potando;
evidentemente non ci era riuscita bene come aveva creduto.
“Anche tu mi
hai visto.” aveva aggiunto lui. Un'affermazione.
“Sì.”
“Ma non mi
hai salutato.”
Andromeda era
scattata sulla difensiva all'istante.
“Noi non
siamo amici.” aveva precisato.
Io non ho amici.
“No.”
aveva annuito Ted. “Ma lo saremo.”
“Non
è possibile,” aveva ribattuto lei, secca. “Non posso essere tua
amica.”
“Non
puoi?”
“No.”
“Ma
vorresti?”
“No!
Smettila di confondermi!”
A
lui era scappata una risatina.
“E'
consolante vedere che provi emozioni sotto quella scorza d'acciaio.
Ti ho osservata, sai? Sei così tranquilla, fai paura, a volte.”
Emozioni.
Non era certa di volerne provare.
Di
certo non voleva che quell'imbarazzante rossore tornasse a tingerle
le guance.
Narcissa
non arrossiva.
Bella
faceva arrossire.
Anche
lei doveva fare lo stesso.
Ma
era arrossita, e molte volte lo avrebbe fatto, suo malgrado.
Perché
quella, in fin dei conti, non era stata che la “prima sera” della
loro strana “amicizia”.
Andromeda
non gli rivolgeva mai la parola in pubblico, né lo salutava; non
faceva menzione di conoscerlo con nessuno, né gli permetteva di fare
diversamente. Non c'era stato bisogno di spiegargli il perché: le
abitudini della sua famiglia erano piuttosto conosciute.
Eppure, si vedevano. In Biblioteca, ogni sera lontani da tutti.
Giocavano
a scacchi, facevano i compiti -molto raramente-, divoravano
Cioccorane e confrontavano le collezioni. Alla fine del primo mese,
Andromeda conosceva i nomi di tutti i suoi amici.
Inventava
scuse elaborate e credibili per non mancare mai ai loro appuntamenti
- e nessuno aveva ragione di non crederle: tutti sapevano quanto era
solitaria.
Lo
riconosceva per i corridoi: come ignorare quella magnifica testa di
capelli biondi?
Lei,
che non era mai stata una fan del Quidditch, aveva preso ad andare
alle partire, solo per poter fare il tifo per lui.
Aveva
persino rubato un'istantanea sfocata -la stessa su cui ora passava le
dita- durante una partita contro i Tassorosso – ed aveva gioito
silenziosamente quando l'aveva visto vincere contro tutti i
pronostici.
Erano passati i mesi, e lei aveva cominciato a preoccuparsi.
Aspettava
la sera con un entusiasmo eccessivo: per quanto amasse la sua buona
dose di sonno, non era abbastanza brava da mentire a se stessa e
convincersi che lui non fosse a causa delle sue visite alla
Biblioteca.
A
volte, le era sembrato di vivere esclusivamente attraverso di lui: di
sera, accanto al fuoco, abbandonava la sua veste di ragazza studiosa,
figlia obbediente e sorella devota e si gettava in avventure assurde
nelle Cucine, cavalcava Ippogrifi, nuotava nel Lago.
Non
sapeva se fossero vere o inventate, quelle storie, ma erano vivide e
brillanti, ed era così che la facevano sentire: viva.
Avevano
cominciato a comunicare anche fuori dalla Biblioteca.
Andromeda
aveva incantato due vecchie pergamene in modo che, scrivendo su una
di esse, l'altra avrebbe ricevuto il messaggio.
Era
diventata uno dei suoi più cari tesori, che portava sempre con sé,
per la folle paura che potessero scoprirla -a Serpeverde, anche i
muri hanno le orecchie, era solita pensare.
Ma la sua piccola bolla di felicità era destinata a scoppiare.
Era
accaduto durante le vacanze di Natale.
Durante
la festa di fidanzamento di Bella, per essere precisi.
Ricordava
ancora gli addobbi di vischio e cristalli di neve, i sorrisi ipocriti
degli invitati ed il sapore falso della torta. Il nastro di seta che
le tirava tra i capelli.
E
sua sorella, splendida ed altrettanto finta nel suo abito rosso, che
si faceva circondare con le braccia da un istupidito Rodolphus a
beneficio dei presenti.
Ma
poi, quando l'aveva raggiunta sul balcone, ogni maschera era caduta
nel freddo dell'inverno:
”Ho
conosciuto un uomo, 'Dromeda.” aveva annunciato trionfante come un
gatto che acchiappa il topo. Inconsapevolmente, Andromeda si era
ritrovata a paragonare il tono di voce in cui aveva pronunciato il
detestato soprannome che le avevano affibbiato – le aveva
affibbiato- da bambina, a quello con cui la chiamava Ted.
La differenza l'aveva fatta rabbrividire.
“Un
uomo?” Bella aveva sorriso, stranamente adorante. “Il suo nome
è... Lord Voldemort.” disse, scandendo ogni lettera amorevolmente.
“Bella!” aveva sussurrato Andromeda con concitazione.
“Stai
per sposarti!”
Bella
non pareva aver gradito che le venisse ricordato.
C'era
stata una nuova durezza nella suo voce, quando le aveva risposto. “Lo
sposo solo perché è stupido, e potrò modellarlo come creta; non
certo per amore.”
Le aveva voltato le spalle. “I Black non amano, 'Dromeda.
I Black obbediscono e dominano.”
Nei
giorni seguenti, Andromeda aveva riascoltato quelle parole
continuamente nella testa. Le aveva rigirate e riesaminate, e aveva
visto quanto di vero ci fosse in esse. E quel pensiero, insieme ad
una conversazione avuta con Ted poco tempo dopo, l'aveva impaurita da
morire.
Era il suo compleanno, e Ted le aveva fatto un regalo. Andromeda era furiosa -furiosa perché glielo aveva espressamente vietato- ma in fondo, piacevolmente colpita.
Era una spazzola d'argento.
Piccola,
graziosa, era quantomai lontana dalle creazioni dei Goblin che aveva
ricevuto dai suoi parenti, ma nessuna di quelle meraviglie poteva
sperare di competere.
“Sciocco,
ti avevo detto che non ne valeva la pena.”
“Quando
mai ti ascolto, 'Dromeda?”
'Dromeda...
“Sai...”
aveva esordito con apparente casualità. “Mia sorella si sposa in
giugno.” “Oh.”
“Per
allora la scuola sarà finita.” “Avremo gli esami...” “Dovremo
impegnarci – o tentare, nel tuo caso”, aveva cercato di scherzare
Andromeda. Ma Ted era serio.
“E
poi?” aveva chiesto. “Poi...?” “Che faremo?”
Non questa domanda. Non voleva pensare alla risposta.
“Ebbene,
tu andrai a lavorare al Ministero ed i miei mi troveranno un
fidanzato congruo, come Bella.” aveva risposto in tono più neutro
possibile.
Silenzio.
Era
come se qualcuno avesse scagliato un Incantesimo Scudo in mezzo al
tavolo.
Alla
fine, non ce l'aveva fatta più, Andromeda.
“Scusami,”
aveva detto, preparandosi ad andare via. Ted l'aveva afferrata prima
che potesse farlo. Andromeda aveva sentito un brivido per la spina
dorsale a contatto con le sue dita.
“Devi proprio fidanzarti, Andromeda?”
Per
un attimo, lei avrebbe solo voluto urlare che, no, non era
inevitabile.
Invece,
piuttosto che dirgli una bugia, era fuggita.
Solo
nel suo dormitorio, protetta dalle cortine del letto, aveva
realizzato.
Aveva
capito perché all'improvviso aveva sempre voglia di toccarlo, di
parlargli, di sentire la sua voce; perché, ogniqualvolta vedeva o
sentiva qualcosa di divertente, il suo primo pensiero andasse a lui;
perché vedeva i suoi dannatissimi occhi nelle chiome degli alberi,
ed i suoi capelli in quegli strani gerani studiati ad Erbologia.
Perché
era l'unico a cui avesse mai confidato i suoi segreti, l'unico che
volesse vedere quando era triste.
Si era spaventata a morte.
Si era
spaventata a morte, e aveva preso ad evitarlo. Non era andata in
Biblioteca; non aveva risposto ai suoi messaggi. E ogni giorno, ogni
giorno si era sentita peggio.
Non aveva
realizzato quanto le fosse necessario vederlo che dopo averlo
perduto.
O aver deciso di perderlo.
Si era
incamminata su una strada pericolosa, che conduceva ad una sofferenza
immane, e lo aveva capito troppo tardi.
I suoi voti ne
soffrirono, ricordava, tanto che sua madre quasi le aveva mandato una
Strillettera; non osava pensare a cosa avrebbe fatto, se avesse
saputo che sua figlia si era innamorata di un Babbano di nascita.
Aveva nascosto
la spazzola; ripiegato la pergamena.
Non aveva
niente di quel periodo, nessuna memoria se non quella di una
profonda, radicata tristezza.
Ripensandoci,
perché raccogliere memorie di un periodo così orribile?
Non avrebbe
mai, mai voluto riviverlo. E vedere Ted perdere via via ogni speranza
di parlare con lei... le era parso di morire dentro.
Poi, inaspettatamente, il primo bacio.
Non c'era
nulla, in quella scatola che potesse rammentarglielo; d'altra parte,
non aveva bisogno di souvenir per ricordare il freddo nelle ossa che
aveva sentito quel giorno: il giorno in cui si era finalmente decisa
a troncare ogni rapporto con Ted.
Pioveva molto,
per questo aveva freddo, si era detta, cosciente di mentire - da
quando conosceva Ted era diventata una maestra nel mentire a tutti,
inclusa se stessa.
Tremava di
freddo, e quando Ted l'aveva raggiunta in uno dei corridoi deserti
del terzo piano, l'aveva trovata che tentava di scaldarsi un po'
circondandosi il busto con le braccia.
Forse,
ricordava di aver ragionato, quel gesto l'avrebbe tenuta insieme una
volta che gli avesse rivelato il vero motivo per cui l'aveva chiamato
in quel corridoio buio nel cuore della notte.
Lui doveva
averlo capito, in qualche modo, perché nei suoi occhi solitamente
miti aveva letto una certa agitazione.
O rabbia, più
precisamente.
“Ciao,” aveva detto, profondamente a disagio. Lui aveva solo annuito freddamente. E ad ogni suo tentativo di fare conversazione aveva concesso solo risposte monosillabiche.
Lui, la logorrea incarnata.
A pensarci
adesso, sarebbe stata una scena comica vista dall'esterno, ma ridere
era stato l'ultimo dei suoi pensieri.
Era come sapere
di doversi cavare un dente senza Incantesimo Anestetizzante e
continuare a rimandare l'inevitabile.
Alla fine, era
stato Ted a tagliare corto.
“Dimmi perché
mi hai chiamato, Andromeda.”
Andromeda. Ted non la chiamava mai Andromeda.
Era arrivato il momento.
“Tu lo sai,
il perché.” Ted aveva scosso la testa, l'immagine vivente della
frustrazione. “Potrò anche saperlo, ma non riesco a capirlo.”
“Non c'è niente da capire, Ted. E' come deve essere. E' quello che
ti ho detto sarebbe successo. La prima sera, ti ricordi?”
Andromeda aveva
sorriso tristemente.
Il destino di
un Black era già scritto al momento della nascita. Niente
variazioni, niente sorprese. Tutto era come doveva
essere. Ted si era passato una mano tra i capelli. Lo ricordava
perché aveva focalizzato tutta la sua attenzione su una ciocca
scomposta che gli era ricaduta sulla fronte.
Non voleva vedere -pensare a nient'altro.
“Me lo
ricordo.” le aveva detto. ”Però pensavo che le cose fossero
cambiate.”
Se erano
cambiate, erano cambiate in peggio, aveva pensato lei.
“Te l'ho
detto, che sarebbe andata così. Che se fossimo diventati amici
sarebbe stato solo più difficile.”
“Bene! Io non
sono tuo amico. Non voglio
essere tuo amico, Andromeda!” era scattato lui, afferrandola per le
braccia.
Le era parso
che fosse arrossito.
Andromeda era
rimasta immobile, mentre sentiva montare dentro una rabbia pari alla
sua. “Lo so, quello che vuoi da me!” aveva sibilato, “E non te
lo posso dare. Non posso!”
“Vuoi dire che non ne valgo la pena?” Andromeda aveva riso amara.
“Ted, ma ti
senti, quando parli? Ti rendi conto di quello che dici?” La sua
rabbia aveva continuato a crescerle dentro, tanto che si era sentita
sul punto di scoppiare. “Sai com'era la mia vita, prima di te? Una
noia mortale! Talmente noiosa che le giornate mi sembravano tutti
uguali, mi sembrava di non vivere affatto! E poi,... poi sei arrivato
tu.”
Era stato in
quel momento che, con sommo disgusto, aveva cominciato a piangere.
“Con i tuoi scherzi, le tue avventure, ogni giorno era diverso, e
bello, e ho cominciato a vederti ovunque, e volevo parlare con te e
nessun altro...” Era come un fiume in piena: non era più riuscita
a fermare la sua stupida lingua.
“E ti vedevo
ovunque, il tuo sorriso e i tuoi stupidi capelli, e guardavo la
Foresta e pensavo ai tuoi occhi, e mi sentivo così disgustosamente
stupida, perché non c'è futuro per me e te!”
L'aveva ridotto
al silenzio.
Era diventato
rosso come un peperone, l'aveva visto anche al buio.
“E allora?”
aveva balbettato, dandole un minuto per riprendere fiato.
“E allora, sono io
a non valerne la pena!” aveva gridato lei con voce strozzata,
liberandosi dalle sue mani. “Quello che mi stai chiedendo di darti
è una vita di segreti, e bugie, e sotterfugi. Non potremmo mai farci
vedere in pubblico mano nella mano! O parlarci, se è per questo!
Saremmo infelici, finiremmo per odiarci!”
Ted si era
avvicinato di nuovo a lei, poggiandole le mani sulle spalle.
Si era sentita
così impotente, e triste, e disperata.
C'era un motivo
ancora che non gli aveva rivelato: il più egoista, quello che più
la faceva sentire codarda.
Gli doveva la
verità, e gliel'aveva detta, ma non era riuscita a guardarlo negli
occhi.
“Io ho paura,
Ted. Paura di... di non essere abbastanza forte per affrontare le
conseguenze di qualcosa che ha le potenzialità di portarci tutti e
due al disastro. Lo sai quello che succede a chi si oppone alla mia
famiglia. Cancellati.” aveva detto con voce spenta, “Come non
fossimo mai esistiti.”
Per tutta
risposta, la stretta di Ted si era rafforzata. “Ascolta,” le
aveva detto costringendola a guardarlo negli occhi. “Non ti sto
chiedendo di... scappare con me, o che so io. Dico solo che... non mi
va di stare senza di te. E se tanto dobbiamo essere infelici, meglio
esserlo insieme. Ci terremo compagnia.”
Aveva fatto scivolare le braccia lungo i fianchi. “E se tu vuoi, troveremo il modo, 'Dromeda. Vedrai.”
A quel punto,
le era scappata una risata tremula. Chissà, forse era l'ironia
tragica della cosa: sarebbe stata lei, la figlia obbediente e
pacifica, e non la ribelle o la viziata, a diventare la pietra dello
scandalo peggiore che la sua famiglia avesse affrontato da decenni.
Perché
Andromeda sapeva bene anche allora che un Black non accetta
compromessi: una volta fatta la sua scelta, non ci sarebbe stato
nessun modo da trovare. Questo le aveva fatto paura, sì, ma la
verità era che c'era niente che temesse di più che tornare alla
vita prima di Ted – una vita monotona, piatta, grigia... una
non-vita.
A lui non l'aveva detto.
Era stato
meglio lasciarlo vivere nell'illusione di non averla costretta a
scegliere tra lui e la sua famiglia ancora per un po'.
Invece, si era
alzata sulle punte ed aveva esaudito quello che era diventato il suo
più grande desiderio da mesi a quella parte: l'aveva baciato.
Non era stato
uno di quei baci mozzafiato di cui si parlava tanto nei libri; era
stato umido, bagnato e goffo. Ma non per questo meno speciale.
Aveva avuto ragione, a conti fatti.
Il giorno del
suo primo bacio aveva segnato il suo destino. Ad un anno da quella
data, Andromeda Black aveva cessato si esistere.
Al suo posto,
c'era 'Dromeda Tonks, moglie di Ted Tonks, ed infinitamente più
felice di quanto la secondogenita Black sarebbe mai stata.
Erano stati
anni pieni e gioiosi, eccezion fatta per i penosi, orribili mesi
della Prima Guerra Magica.
Andromeda
pensava di averlo pagato allora, il prezzo della sua felicità, ma
solo adesso capiva di sbagliarsi.
Almeno, erano stati insieme, allora.
Ma lei non era
potuta andare con lui questa volta, non con Dora a cui badare, ed il
loro nipotino che stava per venire al mondo.
Così, Ted era
solo chissà dove, alla mercé di chissà chi, e lei poteva solo
pregare che stesse bene, mentre l'angoscia le divorava lo stomaco e
le consumava la mente. Raccolse di nuovo gli oggetti, rimettendoli
nella scatola, poi ne chiuse con lentezza il coperchio.
Sarebbe
tornato, si disse. Doveva smettere di piangersi addosso: aveva una
figlia ed un nipote di cui prendersi cura.
Dei forti colpi
alla porta della camera interruppero il flusso dei suoi pensieri.
Doveva essere Ninfadora di ritorno dalla riunione dell'Ordine.
La loro casa
era sotto l'incanto Proteus, ed il Custode era Dora stessa.
Scosse la
testa: la sua bambina insisteva per andare alle riunioni pur sapendo
di non avere alcuna possibilità di trovarsi sul campo di battaglia
nell'immediato futuro.
“Sono pur
sempre un'Auror,” affermava lei con un che di orgoglioso e piccato
nella voce quando glielo faceva presente.
Andromeda
sorrise appena, riponendo la scatola nel suo nascondiglio: non aveva
Ted accanto, forse, ma certamente la persona che gli somigliava di
più.
Con
l'apprensione che la invadeva ormai ogni volta che era del tutto
sola, Andromeda fece la domanda di rito, bacchetta alla mano e corpo
teso: “Chi è là?”
“Sono Dora,
mamma”, le rispose la voce di sua figlia, stranamente roca.
“Qual è il
tipo di naso che ti riesce meglio?”, chiese ancora Andromeda, come
da routine.
“Quello a
forma di grugno di maiale, “ ripose la voce nello stesso tono
attutito.
Sollevata,
Andromeda aprì la porta, frugando attentamente l'oscurità dietro la
sagoma di sua figlia. “Presto, tesoro, entra: non è prudente
restare al buio, potremmo essere sorvegliate...”
“Mamma.”
Andromeda
spostò finalmente l'attenzione sulla figlia.
Sul suo volto
pallido, rigato di lacrime.
“Si arrischia di piangere un poco, quando ci si è lasciati addomesticare...”
Giudizio Complessivo
• Grammatica e forma: 14.175/15
• Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
• Originalità della trama: 5/5
• Attinenza al tema assegnato: 10/10
• Gradimento personale: 5/5
Totale: 44.175/45.
Commento: è una storia bellissima, fortuna che ho avuto la brillante idea di postare quell’elenco.
Andando con ordine, la penalizzazione nella grammatica è dovuta a diversi spazi in più sparsi nella storie e ad un “e” che sarebbe dovuto essere un “sei” (verbo). Per il resto, la storia è scorrevole e bella, il registro adottato è medio e adatto per parlare di Andromeda e Ted.
I personaggi sono splendidi: Andromeda, per prima, mi è piaciuta da morire. Il suo cambiamento, ricordo dopo ricordo, è palese ed estremamente credibile. Ted e Ninfadora sono sempre dipinti come molto simili – anche in questa storia, dopotutto – ma questa volta mi ha fatto piacere leggerli come due personaggi differenti. Ted, come Andromeda, evolve nel corso della storia, mentre Ninfadora, comparendo solo nell’ultima parte della storia, è l’icona del dolore. È stato straziante leggere questa storia, davvero. Anche Bellatrix è ben caratterizzata, nonostante appaia solo in una parte della fic.
L’originalità è palese, non credo ci sia altro d’aggiungere. I personaggi, l’ambientazione, i ricordi, l’evoluzione e la fine di tutto sono ben amalgamati ed estremamente verosimili.
L’attinenza con la citazione era evidente sin dal primo ricordo; Ted è il principe che osservava la volpe da lontano, prima senza parlarle e via via addomesticandola. Andando avanti si trovano sempre più riferimenti – i capelli color grano, ad esempio – che non possono far altro che confermare il punteggio massimo.
Infine, il gradimento personale. Non so cosa dire di questa storia, solo che alla fine mi sono commossa e mentre leggevo sentivo il cuore stringersi sempre più forte. È emozionante, un climax di sensazioni e ricordi che arrivano al culmine con l’arrivo di Ninfadora a casa. Davvero, davvero, complimenti. Questa storia è meravigliosa!