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Attesa
‘Coma’.
L’unica parola che fosse riuscito a distinguere in quell’intrico di
informazioni confuse, strappate agli infermieri che avevano portato via Roxas dal parco.
Qualcuno aveva detto che era in coma.
Axel non sapeva che
aspettarsi da quella parola, ma sperava che, qualsiasi cosa Roxas
stesse affrontando in quella sala operatoria, finisse presto.
Che finisse bene.
La sala d’aspetto era affollatissima,
eppure il silenzio gravava su di loro come un macigno.
Hayner, Pence
e Olette, ancora con le loro attrezzature da
skateboard. Sora e Kairi, con le divise scolastiche in
disordine. E poi lui, che in quel dolore comune a tutti si sentiva un estraneo.
Aveva affondato la testa tra le mani, chinandosi
su se stesso, stanco di vedere le lacrime angosciate delle due ragazze, il
pallore stravolto di Sora e Pence, i passi nervosi di
Hayner che percorrevano su e giù la stanza in
cerca di quiete e di risposte che sembravano destinate a non arrivare mai.
Aveva chiuso gli occhi, cercando dentro di
sé la forza per affrontare quella situazione, ma non riusciva a pensare
in modo razionale. Non ricordava neppure come avevano fatto ad arrivare in
ospedale.
Tutto ciò cui era facile fare riferimento
era il senso di colpa, il sangue di Roxas, le sue
labbra morbide e fredde che ancora scottavano sulle sue...
Avrebbe voluto essere ancora in grado di
credere, per poter pregare per la salvezza del suo amico.
Perché, se per lui era tardi, Roxas meritava di
salvarsi.
Fu
il tocco esitante e gentile di una mano a riportarlo alla realtà.
«Axel...»
La voce di Sora.
Alzò lentamente la testa. Ancora una
volta incontrò quella rassomiglianza con i lineamenti di Roxas. Sora cercò di sorridergli, sotto la paura e
la preoccupazione.
«Grazie. Immagino che sia stato tu a chiamarci
da scuola...» Prese fiato, e Axel vide
distintamente un brivido percorrere il suo corpicino minuto. «E grazie
anche per essere stato accanto a Roxas quando...
Beh... Lo sai. E grazie per esserci ancora adesso.»
Quelle parole, pronunciate con le migliori
intenzioni del mondo, gli penetrarono nel corpo e nell’anima come
coltelli. Nessun Marluxia al mondo avrebbe mai potuto
fargli altrettanto male, dentro e fuori.
Chiuse gli occhi e chinò di nuovo la
testa, tornando ad affondare le mani tra i capelli.
«Non ringraziarmi» mormorò.
«Non merito né ringraziamenti né parole di altro
genere.»
Intuì la perplessità di Sora senza
doverlo guardare.
«Perché dici così?»
Così innocente, così ignaro.
Proprio come suo fratello. Che lui
aveva messo in pericolo, e che per questo adesso
era in quella sala operatoria. Per colpa sua,
soltanto sua.
E Sora lo ringraziava.
Strinse gli occhi e scosse il capo. Avrebbe
tanto voluto che il ragazzo togliesse quella mano dalla sua spalla.
«Tu non capisci... È colpa
mia...»
«Hai mai voluto fare del male a Roxas?»
Axel alzò di scatto
il viso e lo fissò con occhi annebbiati. «Certo che no!»
Inaspettatamente, Sora gli sorrise di nuovo.
«Allora, qualsiasi cosa tu voglia dire, non può essere colpa
tua.»
Il giovane ammutolì e continuò a
guardare quel ragazzino sorridente. Era lo stesso sorriso che aveva visto sul
volto di suo fratello, solo poco prima – quanto tempo con esattezza?
– e che temeva di non vedere più.
«...
In fondo lui è sempre stato più forte di me...»
Forse fu solo in quel momento che capì
cosa fosse davvero la forza di Sora, come si manifestasse attraverso il suo
sguardo pulito.
Axel tornò a guardare
il pavimento, sentendosi sempre più inerme. La lieve pressione sulla sua
spalla sparì e il fratello di Roxas si
allontanò, lasciandolo ai suoi dubbi e alla voglia inutile di essere
qualcun altro.
Forse
erano passate delle ore o forse erano passati degli anni.
Alla fine, le porte si aprirono e un giovane
medico dai capelli scuri s’incamminò senza fretta verso di loro.
I cinque ragazzi scattarono in piedi, mentre Axel fissava intensamente quell’uomo come se potesse
cogliere dal suo sguardo ciò che stava per dire loro.
Il medico si fermò nella sala
d’aspetto e li guardò uno ad uno. «Siete suoi
parenti?»
«Io
sono suo fratello» saltò su Sora, sempre pallido, ma in tono
fermo. «Come sta?»
Axel si accorse di
trattenere il fiato.
L’uomo studiò ancora per un attimo
il resto dei presenti, evidentemente chiedendosi se per una volta poteva fare
un’eccezione e parlare anche davanti a gente che non aveva legami di sangue
con il paziente di turno. Alla fine sembrò decidere che non gliene
importava nulla. Tornò a guardare Sora e gli rivolse il sorriso caloroso
di chi fa il medico perché ama farlo.
«Ce la farà.»
Sollievo...
Caldo sollievo...
Axel tornò a
respirare, e quasi non si accorse del flusso di emozioni manifestate dagli
altri.
Hayner e Pence
esultarono. Olette ricominciò a piangere di
gioia. Sora e Kairi si abbracciarono in un curioso
insieme di lacrime e risate.
Axel si limitò ad
abbandonare la nuca contro il muro e a sollevare lo sguardo al soffitto. Questa
volta avrebbe voluto saper ancora credere soltanto per poter ringraziare chi
era riuscito a recepire la sua inconsistente preghiera.
Il flusso si calmò a poco a poco, e Sora
sciolse l’abbraccio con Kairi per rivolgersi di
nuovo al medico.
«Grazie. Grazie davvero.» Gli
strinse la mano. «Quando pensa che potremo vederlo?»
L’altro ricambiò il sorriso e la
stretta, ma poi scosse la testa. «Temo che dobbiamo ancora aspettare per
questo. È uscito dal coma, ma ci vorrà qualche ora, forse qualche
giorno, prima che si riprenda del tutto. Nel frattempo, vi consiglio e vi prego
di lasciarlo tranquillo il più possibile.»
Axel si fissò le
scarpe e rivolse loro un sorriso storto.
Lasciarlo
tranquillo.
Se lui
l’avesse fatto fin dall’inizio, a quest’ora Roxas non sarebbe stato nella stanza accanto.
Una seconda porta si aprì, ma stavolta
non ne uscirono dottori né infermieri. Axel
voltò lo sguardo quel tanto che bastava per assistere all’ingresso
in sala d’attesa di una giovane donna dai lunghi capelli neri, atletica
ed efficiente, che in cuor suo identificò ed etichettò subito.
Agente in
borghese.
A conferma del suo pensiero, la donna estrasse
un distintivo da una tasca interna della giacca in pelle.
«Salve. Sono il tenente Tifa Lockhart.»
Il medico si allontanò da Sora per
avvicinarsi a lei. «Buongiorno, tenente. Come possiamo aiutarla?»
Prima di rispondere, Tifa Lockhart
si guardò intorno, esaminando le facce dei ragazzi. Quando il suo
sguardo si posò su di lui, Axel vide qualcosa
di simile al trionfo illuminare i suoi occhi.
Subito dopo, la donna si diresse decisa verso la
sedia dov’era ancora seduto e gli si fermò di fronte.
«Vorrei scambiare quattro chiacchiere con te» disse, quasi in risposta alla
domanda del chirurgo. «Pensi di potermi concedere un po’ di
tempo?»
Axel ricambiò
l’occhiata, inespressivo.
«Sei ancora dell’idea... di andare a
parlare con la polizia?»
«Credo sia l’unica cosa di cui sono
davvero sicuro.»
Annuì.
«Va bene.»
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Sono
in ritardo ;_; Perdonatemi! Tra casa e accademia è davvero un periodaccio,
e certi miei accessi di pessimismo cosmico dinanzi ai più recenti
avvenimenti nel mondo non fanno che peggiorare la situazione. Ma in fin dei
conti di pessimismo ce n’è già troppo in giro.
Scusate
anche la brevità del capitolo, ma meglio così piuttosto che accumulare
il sollievo di Axel con tutto ciò che
succederà dopo… Ok, lo faccio apposta. xD
Ringraziamenti
vivissimi a _Nick_ e infiammabile per le loro recensioni, e di nuovo a infiammabile e a BlackRuri per aver inserito la
storia tra le preferite *o* Sono onoratissima, dico davvero. Mi fate felice
<3
Alla
prossima con – lo giuro! – un capitolo più lungo ed
esauriente.
Aya ~