Anno
Cristiano:
La città era
illuminata dalla luce rossa del tramonto che si
accennava a comparire, le strade erano ghermite di pompeiani nelle
vesti chiare
che si apprestavano a comprare le ultime cose prima della chiusura
delle
botteghe. Tra la gente camminava una ragazza dai lunghi capelli biondi,
salutò
qualche persona e poi, senza dare troppo nell’occhio
girò dentro ad una stretta
stradina dove il sole non arrivava. Alzò il cappuccio del
mantello azzurro
cielo che portava: ora era praticamente impossibile riconoscerne il
volto.
Nella stradina c’era poca gente; solo una donna coperta da un
vestito
stracciato li dove toccava per terra e un paio di bambini scalzi e
sporchi che
giocavano ai lati della strada. Appena a metà della stradina
vi era un’insegna
nei colori del rosso che recitava “Lupanare”.
Bussò alla porta e un individuo dalla aspetto sciatto e
dagli occhi scaltri le aprì.
“Buonasera puellae Dafne” la salutò con
un profondo inchino.
“Ti ho detto di non dire mai più il mio nome in
pubblico,
Aristo”
“Mi scusi, mi scusi.” Le fece un inchino ancora
più profondo
del primo. “La porto al solito posto”
E la precedette su per le scale che portavano al primo piano
e poi la lasciò davanti ad una porta di legno.
“Mi chiami per qualunque cosa le serva, signorina”
e
scomparve di nuovo al piano terra.
La ragazza bussò tre volte e venne ad aprirgli una ragazza
che dimostrava appena diciassette anni: aveva capelli rosso scuro
raccolti in
una treccia che le scendeva lungo la schiena e occhi verde acqua,
seppure non
altissima aveva un corpo ben proporzionato e un seno molto abbondante
che era
contenuto a malapena nel succinto abito color champagne.
Appena la bionda fu dentro si tolse il mantello e lo
appoggiò alla sedia rustica a destra della porta, poi le due
ragazze si
abbracciarono.
“Dafne” disse la rossa.
“Come va, Diana?” le rispose l’altra. Poi
si sedette sul
letto.
Si trovavano in una stanza spartana ma ben tenuta, vi era un
letto scolpito in un grezzo pezzo di pietra grigia sopra cui vi era un
materasso di fieno. Di fronte alla finestra c’era un
cavalletto con sopra un
dipinto ancora da finire che raffigurava il paesaggio che si vedeva
fuori, a fianco di
esso un arpa. Tutt’intorno erano
appesi quadri magnifici con la stessa firma: Diana.
“Dai tutto bene, questo pomeriggio l’ho avuto
libero anche
se stasera mi toccano quattro clienti da un ora e mezza, mi
toccherà fare le
due di notte e poi domani attacco a mezzogiorno.” Le rispose
aprendo l’armadio.
“Diana te lo continuo a ripetere, cambia lavoro e lascia il
lupanare!” la implorò la bionda.
“E secondo te cosa potrei fare? Non ho famiglia e ho solo i
soldi che guadagno facendo la prostituta, se me ne vado non
potrò mai trovare
lavoro, senza nessuna preparazione scolastica.. finirei come quelle
pezzenti
la!” e indicò un gruppo di donne vestite di
stracci logori che bazzicavano in
cerca di elemosina nella strada sottostante. “Qua vivo bene,
ho vitto e
alloggio e posso dedicarmi ai miei interessi, mi posso permettere vesti
decenti
e forse un giorno risparmierò tanto da potermi comprare una
casa mia.. quando
sarò troppo vecchia per lavorare.”
Sospirò.
“Certo, hai ragione Diana.. scusami. Ma forse davvero non
posso capirti fino a fondo. Non con la mia situazione alle
spalle.”
“Tranquilla tesoro, non preoccuparti.” Le sorrise
“Piuttosto
aiutami a trovare un bel vestito per questa sera.. questo qua
è troppo
difficile da slacciare.”
Dopo un’ora il sole era tramontato e le strade cominciavano
a liberarsi, tutte le persone tornavano a casa: non era consigliabile
girare
per le strade quando il sole era calato.
“E’ meglio che vada” disse alzandosi
Dafne.
“Certo tesoro, non voglio che ti succeda qualcosa.. tanto io
attacco fra mezz’oretta, vado a farmi un trucco
più pesante và.”
Si salutarono, Dafne si mese di nuovo il mantello alzando il
cappuccio, non era per niente consigliabile che qualcuno la
riconoscesse in
questi posti li.
La sua casa era sulla collina più alta di Nuova Pompei ed
era circondata da un bellissimo giardino con una terrazza panoramica da
cui si
poteva ammirare la vista dell’intera città.
Nuova Pompei era grande ma non troppo, aveva case di pietra
ben tenute e fontane ad ogni angolo e la vita scorreva felice. Nessun
abitante
poteva uscire dalla città, o meglio se usciva non poteva
più rientrare e nessun
forestiero vi poteva entrare liberamente. Vi erano rigide regole per
tutelare
la città.
Nuova Pompei non era un città comune: situata nella Campania
orientale era un’oasi dove il tempo era rimasto al pari della
Pompei vera e propria:
nel resto del mondo erano nell’anno 2010 avanti Cristo, li
erano all’anno 50 di
Nuova Pompei.
La storia risale a cinquant’anni fa, quando un gruppo di
quaranta persone decise di abbandonare i piaceri dell’era
moderna per creare
un’oasi dove costruire tutto secondo i canoni
dell’età greco-romana: prendendo
come spunto una della città meglio conservate (Pompei,
appunto) avevano
costruito la città a immagine e somiglianza, senza
elettricità, senza
elettrodomestici e senza tecnologia avevano iniziato ad espandersi e
ben presto
era diventata molto popolosa acquistando una sua indipendenza e un suo
sistema
monetario e proprie istituzioni.
Gli stranieri non potevano entrare se non lasciavano ogni
tecnologia e non si adattavano alla vita di Nuova Pompei, per questo
raramente
entravano persone nuove nella città. Era come se il mondo al
di fuori di
quell’oasi non esistesse: i ragazzi venivano a conoscenza del
mondo moderno
solo al compimento dei vent’anni, prima rimanevano
all’oscuro di tutto; se una
persona rivelava ad un altro ragazzo minore di vent’anni il
segreto rischiava
la pena di morte, come la rischiava chi faceva entrare nella
città tecnologie
non approvate e qualunque oggetto che apparteneva all’
“altro mondo” come lo
chiamavano comunemente gli abitanti.
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“Alessio, tesoro, alzati dal letto. C’è
qui Gian che ti
aspetta!” Il ragazzo ignorò la voce della madre e
si girò dall’altra parte,
tirandosi le coperte fino alle orecchie. Trenta secondi dopo era
già
sprofondato nel sonno.
“Alza quel culo dal letto!” l’urlo che
gli era arrivato
forte e chiaro insieme al freddo provocato dalla coperta alzata di
scatto
svegliarono il ragazzo addormentato. Maledicendo i modi rozzi e
assolutamente irritanti del proprio
migliore amico si
alzò svogliatamente.
Con gli occhi praticamente chiusi iniziò a cercare i
pantaloni della tuta e una maglia, mentre Gian continuava
ininterrottamente a
parlare di cose futili senza praticamente prendere fiato.. prima o poi sarebbe morto
di asfissia, o
almeno era quello che sperava. Trovò i vestiti e li
indossò, poi si avviò in
cucina, sempre seguito dall’amico che ora era passato a
raccontargli degli
ultimi gossip della “compa”, era incredibile come
continuasse a parlare nonostante
non ricevesse feedback postivi al suo cianciare.
Quando finalmente ebbe finito l’immensa tazza di
caffè che
la madre gli aveva messo davanti iniziò a collegare i
neuroni ed a svegliarsi.
“Cosa ci fai qui Gian?”
“Dobbiamo organizzare il campeggio per stasera,
furbizia!”
Ma nonostante i buoni propositi e come era chiaro fin
dall’inizio , non organizzarono un bel niente e passarono il
pomeriggio a
giocare al computer. In ogni caso alle sette di sera erano riusciti a
recuperare due macchine, in modo da contenere tutti gli amici e le
tende, e
partirono alla volta di un camping tra la natura.
Gian aveva portato due cosiddette amiche in modo da potersi
“intrattenere” durante la serata, una per lui e
l’altra per Alessio. Si
avvicinò all’amico e gli sussurrò
nell’orecchio “Carine vero?”
Ale rivolse un’occhiata alle due amiche che urlavano come
due galline indicando un innocuo insettino, si erano piuttosto carine e
sexy ma
visibilmente stupide. Non aveva voglia di queste storie mordi e fuggi,
tipiche
di Gian invece. Senza rispondere iniziò a piantare la tenda.
Erano alte circa quattro metri ed erano ben tenute, era
impossibile che fossero rovine. Ancora più curioso
iniziò a percorrerle alla
ricerca di uno spiraglio da cui penetrare. Alla fine si
appoggiò sconsolato
alle mura ma colpì accidentalmente un mattone più
sporgente e di colpò si trovò
per terra, senza fiato e con le mani graffiate.
Si guardò intorno scombussolato e nella luce fortissima del
sole basso si stagliò la figura indefinita di una ragazza
dai lunghi capelli
biondi e la faccia perplessa. “Forse
sono
morto e finito in paradiso” fu il primo pensiero
che gli passo nel
cervello, poi si ricordò la serata appena passata e decise
che era molto
improbabile che fosse il paradiso.
ANGOLINO AUTRICE:
L’idea per
questa storia mi frullava in testa da
parecchio tempo e finalmente ho deciso di buttarla giù. Cosa
ne pensate? E’ un
capitolo piuttosto corto ma mi serviva da introduzione, i prossimi
saranno più
lunghi; volevo solamente presentare i protagonisti.
Fatemi sapere :D
Baciii Eikochan
Ps:
per chi non
l’avesse capito il lupanare era
l’antico bordello romano.