Dedicata
a Ginevra B.
Perché
le sue parole e il suo supporto mi sono di stimolo e mi fanno immensamente
piacere.
Grazie.
L’ultimo
ballo
We have
the answer to all your fears
It’s
short, it’s simple, it’s crystal dear
It’s
round about, it’s somewhere here
Lost
amongst our winnings
O children
–
Ron era ancora dappertutto.
Lo sorprendevo a fissarmi attraverso le cose che gli
appartenevano e che aveva lasciato nella tenda quando ci aveva abbandonato.
Talvolta era il maglione di lana che sua madre gli aveva confezionato per il
Natale precedente, o ancora la tazza di ceramica che utilizzava quando bevevamo
il tè, la fascia che aveva smesso quando il braccio aveva cessato di dolergli.
Mettevo quello che trovavo nella borsa di perline.
Cercavo di nascondere la sua assenza ai miei occhi.
Sapevo che avrei dovuto buttare tutto, bruciare ogni
testimonianza del suo passaggio, ma mi dicevo che non volevo lasciare tracce di
noi in giro, che accendere un fuoco avrebbe potuto attirare l’attenzione.
Erano solo bugie.
Avrei potuto sbarazzarmi dei ricordi di Ron in mille altri
modi, ma sfuggivo all’idea di prenderne in considerazione anche solo uno.
Quando, rovistando nella borsa, m’imbattevo in qualcuno
dei suoi vestiti, me lo lasciavo scivolare tra le dita, ne accarezzavo il
tessuto per liberare il lieve odore che era rimasto di lui. Se chiudevo gli
occhi e annullavo dalla memoria le ultime settimane riuscivo ancora ad
immaginarmelo vicino.
Mi faceva male. Mi facevo male.
Ogni volta che pensavo a lui sentivo comprimermi il petto
da un peso che non mi permetteva di respirare, ma non potevo smettere.
Il suo letto vuoto, la sua sedia nascosta in un angolo
richiamavano il nostro sguardo continuamente. Io ed Harry tentavamo di
evitarli, ma attiravano la nostra attenzione, pulsavano di rancore come fossero
cose vive.
C’erano giorni in cui la mancanza di Ron si espandeva a
tal punto da inquinare l’aria nella tenda. Talvolta si faceva così densa che io
ed Harry non riuscivamo a restare nello stesso posto assieme. Si dilatava tra
di noi come una terza presenza, occupava lo spazio che Ron aveva lasciato
vuoto, rendendoci ancora più assurdo il proposito di voler dimenticare.
Le sue ultime parole risuonavano tra i nostri silenzi, tra
le pause delle nostre brevi conversazioni di circostanza. Entrambi avvertivamo
le sue accuse come macigni da portare al collo, ci logoravano l’anima molto più
di quanto non facesse già il medaglione di Serpeverde.
Ogni tanto lo sognavo.
Sognavo la sua espressione arrabbiata e delusa quando era
uscito dalla tenda, la sua schiena allontanarsi nella notte piovosa. Non ho mai
sognato il suo ritorno, forse per paura che non accadesse, o forse perché
faticavo a credere in un suo ritorno: io ed Harry eravamo invisibili, in
continuo movimento. Non ci trovava Voldemort, non ci
avrebbe trovato Ron. E magari era proprio quello che voleva.
Mentivamo.
Tentavamo di far sembrare tutto normale, ricercavamo la
routine degli ultimi mesi, vivevamo ogni nuovo giorno fingendo che nulla fosse
cambiato.
Ma ogni nuovo giorno era una menzogna.
Tutto era cambiato.
Harry era cambiato.
Io ero cambiata.
E sapevo che non potevamo tornare indietro.
Aprivo gli occhi e mi convincevo che potevo andare avanti
anche senza Ron, che dovevo andare avanti. Non volevo permettere ad Harry di
andare in pezzi, ed io per prima non dovevo andare in pezzi.
Mi persuadevo di essere intatta, mi mostravo salda e
sicura, ostentavo interesse per la ricerca degli Horcrux,
curiosità per il significato nascosto delle fiabe di Beda.
Mi stancavo. Cercavo di affaticarmi il più possibile.
Coprivo due o tre turni di guardia di seguito, rimandavo più che potevo il
momento di dormire.
Harry mi lasciava fare. Forse sapeva meglio di me che
erano inutili espedienti.
La notte mi metteva paura. Di notte non riuscivo a non
crollare.
Quando entravo sotto le coperte, il freddo incombeva su di
me e mi obbligava a pensare ancora.
Non soffrivo il freddo prima.
Quando Ron dormiva nel letto accanto al mio, quando
avvertivo la sua veglia al di là della tenda, il freddo non mi toccava. Adesso
il gelo mi scuoteva incessantemente, s’infilava sotto la mia pelle, mi arrivava
fin nelle ossa. Forse era il mio cuore stesso ad essere ghiacciato.
Il suono del suo respiro mi riempiva ancora le orecchie
nella solitudine del nostro rifugio, non riuscivo a scordare il ritmo che aveva
accompagnato il mio sonno tanto spesso. Era come se lo avessi tatuato nei
timpani. M’inseguiva in qualsiasi luogo ci accampassimo, in qualunque notte
cercassi di addormentarmi.
Evitavo di arrendermi al pianto, almeno davanti ad Harry,
ma c’erano momenti in cui mi sentivo sopraffatta al punto che trovavo conforto
solo tra le lacrime. Mi allontanavo con una scusa dal mio amico e mi lasciavo
andare alla disperazione, davo sfogo alla mia frustrazione, alla rabbia, alla
delusione. Non mi portava a stare meglio, ma il dolore, in qualche modo, mi
diceva che ero ancora viva.
Credevo che, col passare del tempo, la situazione si
sarebbe stabilizzata, che avrei iniziato a rassegnarmi.
Mi sbagliavo.
Non immaginavo che lui mi fosse entrato così nel profondo.
Una parte di me era talmente tanto legata a Ron da
spaventarmi e stupirmi al tempo stesso.
Quell’Hermione non voleva cedere, avrebbe addirittura
abbandonato Harry per riprendersi Ron. Dovevo lottare ogni giorno contro di
lei, ed ogni giorno mi avvicinavo un po’ di più alla sconfitta, ma insistevo e
combattevo e soffrivo e piangevo…
Iniziai ad accendere la radio per riempire il silenzio.
Io non volevo parlare, Harry neppure, l’ascolto della
radio era la scusa giusta per il nostro mutismo.
Nonostante sapessi che gli recava fastidio, Harry non mi
chiese mai di spegnerla.
A volte prestavo attenzione alle parole che ne uscivano:
liste con nomi di persone scomparse si srotolavano infinite tra i nostri
pensieri, rendendoci ancora più abbattuti. Sentivo la responsabilità di quelle
sparizioni, ed ero sicura che la sentiva anche Harry.
Udivamo elenchi di persone senza storia sciorinati come
liste della spesa.
Erano solo nomi e cognomi. La maggior parte non li
conoscevamo.
Potevano essere chiunque, e potevano essere nessuno.
Come noi.
Ormai eravamo solo nome e cognome. Harry Potter, Hermione
Granger.
Una volta c’era anche un Ron Weasley.
Perdevo di vista la missione. Ne ero consapevole, ma la
mia mente non era abbastanza lucida per riflettere.
Guardavo le Rune segnate tra le pagine di Beda ed era
come se stessi fissando il ramo di un albero spoglio: non ci vedevo nulla.
Pian piano tutto perdeva di significato.
Mi dicevo che dovevo riprendermi, che era arrivato il
momento di rialzarmi come avevo sempre fatto, che, se volevo, potevo essere
invincibile. Ma non volevo.
Desideravo annullarmi, crogiolarmi nello sconforto.
I giorni si rincorrevano uno con l’altro e sembravano
tutti uguali.
Come le notti.
Neanche le distinguevo più.
Erano scandite dalle parole della radio, il continuo
sottofondo dei nostri fallimenti. L’annunciatore pareva ricordarci
ininterrottamente i nostri errori, rimproverarci ed insultarci. Io chinavo il
capo sotto quelle accuse, me le sentivo piombare sopra pesantemente, mi
lasciavano stordita, m’indebolivano.
Avevo davanti agli occhi una sorta di nebbia perenne che
mi appannava il cervello e non mi concedeva di vedere la via d’uscita, credevo
di essere in un abisso senza ritorno.
Mi sentivo sola. Anche se Harry c’era sempre.
Alla sera la malinconia mi si stringeva addosso e mi
impediva persino di sollevare la testa e condividere il mio dolore con Harry
seduto poco distante da me.
Una di quelle sere alla radio passava una canzone.
Non la stavo ascoltando, ma mi resi conto che non era il
solito bollettino di sconosciuti dispersi.
Stanno raccogliendo dal pavimento del macellaio
i vostri piccoli cuori spezzati
Diceva la voce cantante.
Il mio, di cuore spezzato, non era neanche più sul
pavimento, l’avevano calpestato e spazzato via.
Noi abbiamo la risposta a tutte le vostre paure
è breve, è semplice, è chiara come
il cristallo
è qui attorno, è qui da qualche
parte,
persa fra le nostre vincite
Non c’era nulla di breve, o di semplice, o di chiaro lì
attorno.
C’era buio, c’era freddo e c’era la paura. La paura per
ciò che dovevamo fare, paura di non riuscirci, paura di rimanere in balìa di
quel momento che durava ormai da troppo tempo.
Harry si alzò e venne verso di me. Mi si fermò di fronte.
Mi tese la mano, invitandomi ad alzarmi.
Ignoravo cosa volesse, ma afferrai le sue dita e mi misi
in piedi.
Mi tolse dal collo il medaglione di Serpeverde,
poi mi portò al centro della tenda.
O bambini
alzate la vostra voce, alzate la vostra
voce
Eravamo ancora dei bambini. Io, Harry e anche Ron.
Facevamo finta di dimenticarlo, ma in verità eravamo dei
bambini.
E ai bambini è permesso avere paura.
Volevo essere una bambina e alzare la voce, come diceva la
canzone.
Per la prima volta da mesi non mi sentii in colpa per ciò
che provavo: avevo paura, freddo, fame, ero arrabbiata e triste e ne avevo
tutto il diritto.
Bambini
rallegratevi, rallegratevi
Harry cominciò a muoversi, a dondolare, e mi spingeva a
seguirlo.
Non avevo abbastanza forza per
oppormi ai suoi gesti.
Manovrava le mie braccia come fossi una bambola. Le gambe
si spostavano rincorrendo le sue mosse, senza che io ne avessi il pieno
controllo.
Stavamo ballando.
Il mondo fuori crollava e noi stavamo ballando.
E non m’importava…
Era quello di cui avevo bisogno: volevo mollare tutto e
ballare.
Mi fece girare, girò a sua volta su sé stesso.
Rideva e venne da ridere anche a me.
Erano mesi che non ridevo, pensavo di non ricordare come
si faceva.
E dimenticai tutto, dimenticai perché sentivo quel gran
dolore al centro del petto, perché io ed Harry non riuscivamo più a parlare,
perché mi sembrava di esserci addossati un onere molto più grande di noi.
La cosa fondamentale in quel momento era seguire la musica
e rispondere al sorriso malinconico di Harry.
Stiamo tutti piangendo adesso
piangendo perché non possiamo fare niente
per proteggervi
Mi abbracciò. Il calore del suo
corpo si fuse con il mio.
Harry cercava di proteggermi,
avrebbe fatto qualsiasi cosa per allontanare da me ogni tormento, come avrebbe
fatto un fratello, se ne avessi avuto uno; ma non poteva proteggermi dal male
che mi aveva provocato la perdita di Ron.
La sua stretta mi rammentò un
altro paio di braccia che mi avevano circondato raramente, al cui ricordo però
si volgeva ogni mio pensiero.
Mi tornarono alla mente le
ultime parole che Ron aveva pronunciato prima di sparire oltre la tenda: “ Vi ho visti, voi due ” e l’abbraccio con cui Harry
stava tentando di consolarmi, mi parve d’un tratto sbagliato.
La sensazione di essere la
causa della mancanza di Ron tornò nuovamente a diffondersi nel mio cuore,
violenta, irrefrenabile.
Harry poggiò la guancia sulla
mia spalla, io posai il mento sulla sua.
Desideravo ritrovare la
spensieratezza di un attimo prima, ma capii che per me il momento era passato;
l’espressione accusatoria di Ron quell’ultima sera seguitava a ricomparirmi
davanti.
Harry alzò la testa e mi guardò
speranzoso.
O bambini
alzate la vostra voce, alzate la vostra
voce
Io risposi al suo sguardo e mi
illusi che potesse vedere la stessa aspettativa nei miei occhi, ma non ero già
più capace di alzare la voce, un nodo mi serrava la gola ora. Di nuovo.
La stanchezza m’invase. Mi
sentii così stanca di fingere che, le mani di Harry che stringevo tra le mie,
mi sembrarono improvvisamente pesanti, troppo pesanti.
Non riuscii a sopportare la sua
vicinanza un istante di più, abbassai lo sguardo e mi scostai da lui.
Harry non sarebbe stato in
grado di scorgere alcun briciolo di speranza sul mio viso perché io stavo
fissando un paio di occhi verdi, e l’unica cosa che mi avrebbe riportato a
ritrovare me stessa erano due iridi azzurre.
Tornai al posto che occupavo
prima di alzarmi.
Non avevo più voglia di
ballare.
Ero consapevole del fatto che
stavo dando ad Harry un ulteriore dolore e che non se lo meritava.
Neanche io meritavo quel
dolore.
Nessuno lo meritava, ma noi
eravamo costretti a conviverci.
Quel
giorno decisi che avrei reagito, che sarei tornata in me, che
non potevo cancellare Ron dal mio cuore, ma non avrei più permesso che il suo
ricordo mi facesse perdere di vista l’obbiettivo: c’era una guerra lì fuori.
Dovevamo prepararci.
Dovevamo combattere.
Dovevamo far sapere al mondo
che non ci saremmo arresi, che avevamo smesso di essere bambini.
Harry sarebbe andato avanti
fino alla fine ed io sarei stata al suo fianco.
Col cuore spezzato, con una
parte di me chissà dove, ma sarei rimasta al suo fianco, a lottare per far sentire
la nostra voce.
Erano mesi che non mi cimentavo
con la prima persona. Mi mancava, mi mancava descrivere un momento triste e
intenso.
Ho adorato “Harry Potter e i
Doni della Morte Parte I” ed ho adorato questa scena.
C’è un po’ del libro e un po’
del film dentro. Non so se questa Hermione sia “in canon”
con l’uno o con l’altro, ma è sicuramente “in canon”
con l’Hermione che io ho imparato a conoscere e che amo: una ragazza
estremamente sensibile e fragile che troppo spesso tenta di nascondere la sua
fragilità dietro una maschera di perfezione che la porta a diventare troppo
dura con sé stessa e con gli altri. Spero che possiate riconoscerla tra le mie
parole.
Questa è la mia prima vera e
propria song-fic. Ho sempre citato, nelle mie storie,
le canzoni da cui traggo ispirazione, ma è la prima volta che la canzone entra
a far parte del testo. La canzone è O’ children
di Nick Cave che è proprio la colonna sonora della scena nel
film. Ho utilizzato solo le frasi che mi sembravano più adatte nel racconto ed
ho usato la traduzione ( che non è mia, ma che potete trovare in questa pagina:
http://www.nickcave.it/discografia-dettaglio.php?idAlbum=15&idCanzone=141
) perché le parole della canzone si correlavano direttamente con quelle della
storia.
Spero di essermi spiegata e
spero davvero che possa piacervi.
Se avete voglia di farmi sapere
cosa ne pensate, mi renderete felice.
E se avete un account su Facebook e avete voglia di un’amica in più, mi trovate
sotto Emmahp EFP.
Grazie a tutti e alla prossima.
Emmahp7