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Di miracoli e verità
Il pozzo buio nella sua mente si diradò,
a poco a poco, e in qualche modo Roxas capì
che stava tornando alla vita.
Dapprima fu solo un vago
odore di disinfettante. Poi un brusio sommesso, un bip appena accennato. Infine un
chiarore che si faceva strada sotto le palpebre chiuse.
Cosa gli era successo?
L’ultima cosa che ricordava era quella sensazione di freddo, e il dolore
al fianco, e il sangue e...
«... Andrà tutto bene. Non ti lascio
andare via...»
Aprì gli occhi.
Una stanza bianca, un letto
d’ospedale.
Di colpo gli
sembrò di essere tornato indietro di due anni, al momento in cui si era
svegliato dopo l’incidente che gli era costato due gambe e una famiglia.
Che strano, però. Non aveva più pensato neanche per un attimo al
suo passato da quando si era alzato dal letto e aveva deciso di affrontare il
presente...
Il ricordo improvviso,
unito ad un pungente senso di colpa per l’averlo accantonato per qualche
ora, lo colpì forte al punto da fargli accelerare il cuore. E se quel
battito era una conferma ulteriore al fatto che era vivo, sul momento non
avrebbe saputo dire se fosse una buona o una brutta cosa.
Il bip di poco prima si intensificò. Voltando la testa capì
che il macchinario che vedeva confusamente accanto al letto era in
realtà il monitor che teneva sotto controllo la sua vita.
«Ah, bene. Ti sei
svegliato, Roxas.»
Una voce sconosciuta
introdusse una presenza nel suo campo visivo.
Roxas batté le
palpebre per schiarirsi la vista e individuò un medico molto giovane,
con in volto un sorriso che pareva sincero e non di circostanza.
«Mi chiamo Squall Leonhart e sono il chirurgo
che ti ha operato. Desolato per l’intrusione; ma volevo essere presente,
quando avessi aperto gli occhi.» Accostò una seggiola di plastica
al letto e vi sedette. «Come ti senti?»
Il ragazzo ci
pensò su per un attimo. Non sentiva un particolare dolore; ma era come
se tutta la parte sinistra del corpo gli mancasse. Si portò la mano
destra alla testa ancora così confusa, e nel farlo si accorse dell’ago
di una flebo nel braccio.
«Non...»
esordì, ma la sua voce si perse da qualche parte sotto il lenzuolo.
Il medico sollevò
subito una mano per interromperlo.
«Perdonami. Non
parlare, sei ancora debole. Lascia che ti rassicuri: non hai perso sensibilità
nella parte sinistra, sono solo gli effetti dell’anestesia prolungata.
È stata una lunga battaglia, ma ce l’abbiamo fatta.» Gli
sorrise di nuovo. «La prontezza dei tuoi amici ti ha probabilmente
salvato la vita. Sei fortunato.»
Roxas guardò il soffitto.
Amici.
Amici che credeva di
aver perso da tempo.
Se non fosse stato per Axel...
«Ascoltami»
riprese il dottor Leonhart, «so che non dovrei
dirtelo ora, che è ancora presto per le forti emozioni... Ma credo sia
meglio approfittare di questo momento in cui ancora riesco a tenere a bada tuo
fratello e gli altri. Devo parlarti di una cosa che devi essere il primo a
sapere, da solo. Per questo ho aspettato che ti svegliassi... D’altro
canto, ho la sensazione che tu sia un ragazzo forte. Ne hai decisamente passate
tante – troppe, forse, per lasciarti impressionare da quanto sto per
dirti.»
Roxas spostò di nuovo
gli occhi su di lui. Ora come ora, non si sentiva in grado di emozionarsi per
nulla. E per quanto riguardava l’essere forte, beh...
Aspettò che l’uomo
continuasse, e gradualmente vide rinascere il sorriso di poco prima.
«Come ti dicevo,
è stata una lunga lotta, ma ci ha lasciato intravedere anche delle
speranze future. Il proiettile che ti ha colpito ha quasi sfiorato la tua
colonna vertebrale, così che abbiamo potuto constatare alcune
cose.» S’interruppe, dandogli il tempo di assimilare le idee.
«Non voglio annoiarti con inutili nozioni tecniche, perciò
verrò subito al punto. Roxas, ci sono serie
probabilità che tu possa tornare a camminare.»
Il ragazzo lo
fissò, senza sapere bene come prendere la rivelazione.
Una parte di lui avrebbe
voluto credergli, tanto.
Un’altra aveva
voglia di ridergli in faccia, e forse se non si fosse sentito così
esausto l’avrebbe fatto.
Squall Leonhart
si alzò all’improvviso.
«Ci credi ai
miracoli, Roxas?»
Quella domanda lo
sorprese. Studiò per un attimo il suo volto gentile, i lineamenti
vagamente duri di un giovane francamente buono, e cominciò a riflettere.
Sua madre aveva cercato
di trasmettergli alcune delle sue credenze cattoliche, ma lui non aveva mai
avuto un’idea precisa della religione. Sentiva che c’era qualcosa, qualcosa che l’uomo non avrebbe potuto
spiegarsi neppure tra un milione di anni; ma così come non sapeva
definirlo, non sapeva nemmeno identificarlo. Perciò adesso non aveva
idea di come rispondere al medico.
Si strinse nelle spalle,
sperando che lui capisse. E lui capì.
«Quello che ti
è successo oggi è qualcosa che gli si avvicina molto, te
l’assicuro. Sotto molti aspetti.»
L’uomo
voltò le spalle e fece per allontanarsi. Roxas
si sentiva troppo provato per mettersi a riflettere sulle sue parole; subito
dopo lo vide girarsi di nuovo verso di lui.
«In altre
circostanze non te lo chiederei, ma... Desideri vedere subito qualcuno? Tuo
fratello, forse?»
Il ragazzo chiuse gli
occhi per un attimo.
Un riflesso di verde.
«... Non ti lascio andare via...»
Riaprì gli occhi
e prese fiato. «C’è Axel?»
Leonhart gli tornò
accanto, evitandogli di alzare troppo la voce. «Il ragazzo che ha
aspettato l’ambulanza con te?»
Roxas annuì.
«In questo momento
un tenente della polizia lo sta interrogando. Ma gli farò sapere al
più presto che sei sveglio, d’accordo? E anche a tutti gli altri,
se per te va bene.»
Lui annuì di
nuovo.
«Grazie»
mormorò. «Per tutto.»
«Non ringraziarmi.
È il mio lavoro.» Il giovane chirurgo gli posò una mano su
una spalla. «Nessuno merita di vivere quello che hai vissuto tu. Prendi
questo momento come una rivalsa personale sul destino. E adesso
riposati.»
Lo seguì con lo
sguardo mentre attraversava la stanza, apriva una porta e spariva in un
corridoio, in un’altra camera, in un’altra vita e forse in
un’altra bella notizia.
Poi chiuse di nuovo gli
occhi e sciolse le briglie dei pensieri, cercando di scuotersi dalla
spossatezza.
Non si soffermò
sulla notizia datagli dal medico, sull’eventualità di tornare a
reggersi in piedi. In quel momento gli appariva un’ipotesi troppo remota,
troppo inconcepibile. Addirittura superflua.
Si concentrò
invece su ciò che gli aveva appena detto di Axel.
Un tenente della polizia...
Evidentemente, uno sparo
ad un ragazzo disabile era un fatto su cui indagare. Per la prima volta dal
momento in cui aveva perso i sensi, Roxas
pensò allo sparo in sé: era stato uno dei vecchi
‘amici’ di Axel a ridurlo in quello
stato? Probabilmente sì... Strano, la cosa non gli faceva un grande
effetto.
Tutto ciò cui in
effetti riusciva a pensare era che, a meno che non avesse cambiato idea, Axel stava per confessare alla polizia il modo in cui aveva
vissuto negli ultimi due mesi, e che a quel punto sarebbe andato incontro al suo destino, alla sua personale pena da
scontare.
Quando gli aveva
comunicato la sua decisione non ci aveva pensato. Ma ora quella domanda lo torturava.
Cosa gli avrebbero
fatto?
La stanchezza
cominciò ad avere la meglio; il suo respiro si fece più regolare.
Prima di addormentarsi risentì all’orecchio le parole di Squall Leonhart.
«Ci credi ai miracoli, Roxas?»
Forse era stato un
miracolo a farlo alzare quella mattina e a riportarlo da Hayner
e gli altri.
Forse era stato un
miracolo a salvargli la vita salvandolo per prima cosa da se stesso.
No. Era stato Axel...
Avvertì
all’improvviso una strana sensazione di calore sulle labbra, che non
seppe spiegarsi; infine scivolò di nuovo nel sonno ristoratore.
* * *
Tifa Lockhart sedeva
su una poltroncina in una saletta vuota, attigua a quella in cui aveva trovato
la persona che stava cercando – che adesso era seduta di fronte a lei e,
senza schermi e senza freni, le stava dando tutto quello che lei voleva. La
verità.
Si sporse in avanti
verso l’adolescente. «Credi che Marluxia
abbia sparato al tuo amico per sbaglio?»
Axel sollevò da terra
gli occhi verdissimi e, senza cambiare posizione, le sorrise amaramente di
sotto in su.
«Lei crede che si
sarebbe fatto scrupoli a sparare a me,
dopo aver sbagliato mira?»
Tifa sospirò.
Capiva perfettamente. Come lei stessa aveva detto poche ore prima ad Aerith e Cloud, quel bastardo era
uno che faceva le cose per bene.
Axel non aspettò una
risposta e tornò a scrutarsi i piedi. «Adesso immagino di dover
venire con lei al commissariato o dove accidenti è.»
Il tenente Lockhart incrociò le braccia. «Immagini
bene.»
Il ragazzo annuì.
Poi la guardò negli occhi.
«Posso chiederle
un favore?»
«Quale
favore?»
«Il tempo di
vedere Roxas e di assicurarmi che torni a casa
presto.»
Tifa ricambiò lo
sguardo. Quelli erano occhi maledetti, occhi che avevano visto il brutto della
vita, quello vero, quello che andava ben oltre una turpe e meschina faccenda di
droga, senza la paura o il rimorso di sguazzarci in mezzo. Occhi che
però avevano fatto una scelta, occhi che non avevano più niente
da perdere. E in quegli occhi vide la sincerità e il bisogno di
quell’ultima e unica richiesta appena formulata.
Distolse i suoi.
«Forse
passerò dei guai per questo.» Si alzò. «Vedremo.
Comunque sappi che ti tengo d’occhio.»
Prima di uscire dalla
stanza, vide di sfuggita che Axel chinava di nuovo il
capo, le spalle mosse da un sospiro silenzioso. Si chiese se avesse ancora da qualche
parte la capacità di piangere.
Tifa si chiuse la porta
alle spalle, si avviò lungo il corridoio asettico dell’ospedale ed
estrasse il cellulare da una tasca. Non le restava che da fare una telefonata.
* * *
In tanti anni di lavoro nelle prigioni di Stato,
Cid Highwind non aveva mai
visto un prigioniero più strano.
Tanto per cominciare,
aveva un’aria distinta e colta, una faccia che sarebbe stata più adatta
ad un rappresentante o a un altro riccastro del genere piuttosto che al
criminale che era in realtà. Così impettito, così
elegante. I capelli tinti, la pelle liscia. Per non parlare della camminata.
Capì subito che
quell’individuo gli sarebbe sempre stato sul cazzo.
«Allora, posso
vedere la mia cella?»
L’uomo gli sorrideva
come se niente fosse, neanche parlasse di una suite di un albergo a cinque
stelle appena pagata sull’unghia. Cid si chiese
se c’era o ci faceva.
«Sei davvero
così impaziente di finire in gattabuia?»
Il tizio scosse la
testa, disinvolto. «Tutt’altro. Ma sa, non voglio farle perdere
tempo.»
Sorrise di nuovo, e Cid ebbe la certezza che lo stesse spudoratamente prendendo
per il culo.
Con un sogghigno
crudele, gli aprì la porta del corridoio. «Ma prego, vossignoria Testa-di-cazzo. Da
questa parte.»
Per nulla impressionato,
quello lo precedette lungo la fila di celle da cui si affacciavano molte facce
divertite e altre poco raccomandabili e alcune che erano tutte e due le cose
insieme.
«Guardate, questo
qui ha la puzza sotto il naso.»
«Che bel
faccino.»
«Meglio che stia
alla larga se vuole tenerselo com’è.»
Risate sguaiate da tutte
le parti. Cid vi si unì, ma il suo bislacco
compagno non fece una piega.
Si fermarono davanti a
una cella vuota. La guardia prese una chiave dal mazzo e l’aprì,
quindi si produsse in un inchino esagerato.
«Vi prego,
vossignoria, entrate nella vostra nuova dimora. Spero che non soffrirete di
solitudine. I ratti dovrebbero risolvere il problema, vi pare?»
Il prigioniero che, gli
avevano detto, portava il nome di Marluxia
entrò nella cella e si guardò intorno con aria indifferente.
Cid era ben deciso a vendicarsi
dell’irritante ironia di poco prima, e continuò a punzecchiarlo.
«Non mi
rispondete, mio caro? Ma questo significa che non avete più nemmeno l’arma
della parola. Vi hanno sequestrato anche quella, insieme alla robaccia di merda
che vi piace dare ai ragazzini?»
L’altro si
voltò di nuovo a guardarlo e sorrise.
«Lei non
può capire. Chi è solo, sa quando è il caso di calare le
sue armi. Tutte quante.»
Cid rimase per un attimo
perplesso. Quindi sbuffò, chiuse violentemente la grata della cella e
fece segno alle due guardie che erano con lui di seguirlo.
«Venite, lasciamo
il signor Testa-di-cazzo alla sua filosofia da
quattro soldi.»
Si allontanarono lungo
il corridoio, lasciandosi alle spalle un uomo solo e ormai impotente, ma che
aveva trovato comunque il modo di mettere a tacere la lingua notoriamente
biforcuta di Cid Highwind.
* * *
Demyx riagganciò e
rimase a fissare il telefono come se fosse un’innovazione tecnologica mai
vista prima.
E così, era
finita.
Possibile che Marluxia si fosse arreso così presto?
Si allontanò
lentamente dall’apparecchio e si lasciò cadere a sedere sul letto.
L’avevano preso.
Aveva confessato. E lui, una volta
scontata la sua parte di pena, sarebbe stato libero di uscire di nuovo.
Soprattutto, lei era salva.
Un piccolo sorriso gli
si affacciò alle labbra a quel pensiero. Si disse che alla fine era solo
quello a contare. E che era davvero una bella sensazione, sentire di aver fatto
finalmente una cosa giusta.
Non aveva più
voglia di espiare con la morte. Ora sapeva che gli era rimasta una cosa da
fare, quella più importante.
L’avrebbe
ritrovata. E, a distanza di sette anni, avrebbe mantenuto una promessa.
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Due settimane di puro inferno, tra problemi
di salute e di studio e di familiari impazziti…
So che suona banale, ma vi chiedo umilmente scusa per la sparizione. Spero non
accadrà più ç///ç
Ringrazio davvero tutti i miei lettori; chi
inserisce la storia tra le preferite/ricordate/seguite; chi puntualmente
commenta con una gentilezza quasi disumana – vi voglio bene, non so cosa
farei senza il vostro entusiasmo! <3
E spero soprattutto di non farvi più
aspettare tanto, a partire dal prossimo aggiornamento ^^’
Aya ~