Capitolo 3
Patti
da Riscrivere
Kim aveva sempre odiato le gonne.
Strette, scomode, sempre troppo
corte o troppo lunghe, necessitavano di un’attenzione costante ed erano delle
infide traditrici, perennemente pronte a rivelare al mondo intero il tuo modello
di mutandine.
Le
odiava, le gonne.
Per anni, sua madre aveva cercato
di convincerla a vestirsi in modo più femminile, regalandole ad ogni occasione
gonne piene di balze e vestitini che sarebbero stati un amore indosso a una
bambola di ceramica, ma Kim non aveva mai ceduto. Si era sempre opposta, aveva
sempre trovato una scusa per non abbandonare i suoi pantaloncini, aveva sempre
scalciato e urlato, pur di fare come pareva a lei.
Fino ad ora.
«Sei sicuro che non si veda nulla?» chiese, per la ventisettesima volta.
«Assolutamente sicuro.» rispose
Lee, dimostrando una pazienza tale da poterlo fare Santo lì e subito. «Perfino
N, con l’occhio lungo che si ritrova, dovrebbe praticamente mettersi a testa in
giù, per sbirciare. Rilassati.»
Ma Kim non sembrava ancora molto
convinta. Per sicurezza, tirò l’orlo della gonna un po’ più in basso, ottenendo
solo che le spalline dell’abito scavassero un solco ancora più profondo nelle
sue spalle, ormai arrossate e doloranti. «Dici?» chiese, ma qualunque risposta
l’avrebbe lasciata insoddisfatta. «Continua a sembrarmi troppo corto.»
«È il più lungo che hai, Kim.
Avanti, ti arriva al ginocchio, non è così scandaloso.»
Lei fece una smorfia. «Quasi al ginocchio. E poi, c’è sempre
quello della nonna...»
«Quello è orribile. Non posso permetterti di indossarlo, non solo in quanto
tuo migliore amico, ma in quanto essere
umano.»
«Meglio! Se sarò troppo brutta per
essere guardata, anche N mi lascerà in pace!»
Lee gonfiò una guancia. «Hai già
dimenticato il nostro patto? Non puoi barare. E poi, per quello che vale,
stiamo parlando di un maniaco: non gli importa dei tuoi vestiti, tanto vuole
togl- »
«Non provare nemmeno a pensarlo! Mi
farai andare nel panico!»
«Tanto lo sei già...»
«Allora non peggiorare le cose! Ho
bisogno di uno specchio.»
Lee, con un punto interrogativo
sulla testa, la guardò fiondarsi su per le scale, verso la sua camera.
Dannazione,
pensò
la ragazza, chiudendosi la porta alle spalle. Dannazione, dannazione, dannazione!
Li odiava tutti. N, sua madre,
l’appuntamento, le gonne, tutta quella situazione. Non ce la poteva fare. Non
sarebbe sopravvissuta a quella serata, non ce n’era alcuna possibilità.
Qualcosa di umido, morbido e caldo
le si sfregò delicatamente sulla caviglia, facendola sobbalzare.
«Oh, Porchetta.» sospirò Kim,
chinandosi ad accarezzare il suo dolce starter. «Vorrei tanto che bastasse il
tuo nasino a consolarmi...»
Il pokémon le leccò la mano e poi
vi spinse dentro la testa, forse per incoraggiarla, forse solo per richiedere
un altro po’ di coccole.
Kim l’adorava.
Certo, avevano avuto le loro
incomprensioni (più di una volta, Kim si era ritrovata ustionata malamente dopo
qualche scaramuccia e, altrettante, Porchetta era stato lasciato per giorni “a
riflettere” nella sua pokéball), ma le avevano sempre superate. Erano amici,
compagni, ormai incapaci di vivere l’uno senza l’altra. Kim si sentiva legata a
quel pokémon più che a qualsiasi essere umano. Era l’unico che, in qualunque
situazione, rimaneva sempre dalla sua parte.
Lo prese in braccio, intenerita da
quella dimostrazione d’affetto, e, nel girarsi, scorse con la coda dell’occhio
la sua immagine riflessa nello specchio. Rimase di stucco.
La ragazza che rispondeva al suo
sguardo sbigottito non era lei.
Certo, le assomigliava: i lineamenti,
la costituzione, il colore dei capelli erano gli stessi, ma tutto il resto le
era completamente estraneo.
La ragazza sciupata, impaurita e
fragile, avvolta troppo stretta da un vestito rosa pastello, incerta nel
reggersi su un paio di tacchi di pochi centimetri, non era lei.
Non poteva essere lei.
Sbatté un paio di volte le
palpebre, cercando di cancellare quell’immagine irreale dalla sua retina, ma
essa rimase lì dov’era, a fissarla con orrore.
Tenendo Porchetta stretto a sé con
un braccio, sfiorò la superficie dello specchio con la mano libera.
Che cosa le stava succedendo?
Perché era così spaventata?
Perché, questa volta, non riusciva
a trasformare la sua paura in determinazione, progettando come al solito mille
modi di mandare N al camposanto?
«Sai, Porchetta, io e Lee abbiamo
fatto un patto, per quanto riguarda stasera.» disse piano, grattando il piccolo
Tepig tra le orecchie, per rimetterlo poi a terra. «Uno di noi dovrà tenere
occupato N, mentre l’altro cercherà di scoprire cos’ha in mente questa volta.
Solo che nessuno dei due vuole stare troppo vicino a quello lì, capisci?»
Mentre parlava, Kim si liberò
dell’abitino rosa e lo buttò per terra. Lo calpestò addirittura, mentre si
affrettava ad aprire l’armadio ed iniziare a frugarci dentro.
«Quindi, vedi, non riuscivamo a
trovare una soluzione. E anche lasciare la scelta al caso sarebbe stato troppo
complicato: avremmo solo finito per lanciare una moneta in aria un centinaio di
volte, senza arrivare a niente.»
Porchetta osservò la sua migliore
amica umana infilarsi un paio di shorts
neri e una maglietta senza maniche, dello stesso colore, fatta eccezione per le
macchie di arancione che erano il disegno di un Tepig addormentato e la scritta
sottostante: “Porchetta ♥”. Kim se l’era fatta fare qualche anno
addietro, quando Lee aveva per la prima volta insinuato l’inutilità del suo
pokémon, se lei non si fosse decisa a farlo evolvere.
Quando tornò davanti allo specchio,
Porchetta emise un versetto di approvazione, a cui Kim rispose con un breve
sorriso.
«Perciò, abbiamo deciso che ci
affideremo alla fonte stessa del problema.» continuò la ragazza, anche se fu
evidente nella sua voce una nota di nervosismo, mentre si legava i capelli
nella solita coda di cavallo. «Ovvero N. Abbiamo concordato che il...»
Un ansioso bussare alla porta la
interruppe.
«Kim, sei morta?» la chiamò Lee,
dal corridoio. «Guarda che non vale chiuderti qui finché N non arriva, lo
considererò forfait.»
Lei fece una smorfia. «Il pensiero
non mi aveva nemmeno sfiorata. Arrivo tra un minuto.» mentì. Aveva pensato a
quello e ad almeno altri ventiquattro modi di fuggire, nelle ultime due ore.
Decisa a dire un altro paio di bugie, per farsi coraggio, stava anche per
aggiungere che “lei, la parola forfait
nemmeno la conosceva” e che “di certo, non si lasciava impaurire da un clown
coi capelli verdi”, ma qualcosa la distrasse.
Il rumore come di un sospiro e una
strana corrente d’aria, che le scompigliò un poco i capelli. Per un attimo si
convinse che non era stato nulla. Dopo la visita di Archeops, tutto quello che
era rimasto della finestra erano lo stipite e le tenda, perciò era normale che
il vento s’insinuasse anche all’interno della stanza, di tanto in tanto.
Ma la sua tranquillità durò solo
quell’instante che le servì a voltarsi, dopodiché svanì di botto, come una
bolla di sapone scoppiata. Le sembrò quasi di sentirlo, quel ‘pop’ sbigottito.
In piedi sul davanzale della
finestra, illuminato solo dalla pallida luce della luna. Con il suo solito
sorriso, innocente solo all’apparenza. Il cappello, che teneva con la visiera
così bassa. E quella spugna di Menger, che come sempre gli dondolava dalla
cintura.
N.
Il cuore di Kim saltò un battito.
Il ragazzo si raddrizzò e rivolse
lo sguardo verso di lei. «Ehi.» disse soltanto, entrando con un piccolo salto
nella camera.
La prima reazione di Kim fu anche
la più banale possibile. «Da... da... da quanto sei qui?» chiese, pregando che
quella preoccupante semioscurità nascondesse almeno il rossore delle sue
guance.
«Di certo troppo poco.» rispose N, dirigendosi
tranquillamente verso di lei. «Perché, hai fatto qualcosa che non dovrei
vedere?» aggiunse con malizia, un attimo prima di rischiare di inciampare nel
vestito che Kim aveva abbandonato a terra. Lo raccolse, piacevolmente sorpreso.
«Oh, questo sarebbe stato interessante.» commentò, fermando momentaneamente la
sua avanzata.
Kim incrociò le braccia al petto,
sulla difensiva. Il patto, pensò,
sentendo la paura riemergere. Non è così
che dovevano andare le cose. Sto praticamente perdendo a tavolino. Serrò
ancora di più le braccia, cercando di contenere il nervosismo. Non voglio. Non è giusto.
«Sai, la gente normale entra dalla
porta, di solito.» disse, ostentando una sicurezza che non aveva. «Anche se
sembra un’abitudine che non avete né tu né i tuoi pokémon.»
«Ah, già.» disse N, rigirandosi tra
le mani il vestito, come a volerlo esaminare. «Mi dispiace per l’incidente con
Archeops. Gli avevo raccomandato di essere gentile, ma è ancora un po’
selvatico, che vuoi farci.»
Devo
uscire di qui. Se riesco a tornare da Lee, ho ancora una possibilità.
«Beh, la prossima volta mandami un
pokémon un po’ meno “selvatico”, grazie.» replicò, acida.
«Come desidera, mademoiselle.» acconsentì N, nonostante
sembrasse ancora molto più interessato all’abito che non alla conversazione.
Poi portò la stoffa rosata al viso ed inspirò.
Kim sentì un brivido percorrerla da
capo a piedi. Forse non si trattava più solo del patto. Forse era davvero in
pericolo, trovandosi da sola, in una stanza semibuia e chiusa a chiave, insieme
al suo stalker personale.
Indietreggiò.
Con un sorriso soddisfatto, N
lasciò l’abito e riprese ad avvicinarsi a lei, lentamente e con una
tranquillità inquietante. «Sei nervosa, eh? Che dolce.»
«Non vedo proprio perché dovrei
esserlo.» mentì nuovamente Kim, continuando tuttavia ad allontanarsi tanto
quanto lui avanzava.
N ridacchiò. «E anche il fatto che
lo neghi è così... adorabile. Sai, » aggiunse, tornando serio. «C’è una cosa
buona dell’essere cresciuto con i pokémon.» Kim sentì il freddo della parete
contro la schiena. Ma la porta, alla sua sinistra, sembrava ancora
tremendamente lontana. N le si avvicinò sempre di più, fino a trovarsi a meno
di un metro da lei. «Ho imparato a percepire le emozioni di chi mi sta
intorno.»
Kim lanciò un’occhiata alla porta,
pronta a scattare verso di essa qualora si fosse reso necessario, ma N appoggiò
una mano contro il muro, frapponendosi tra lei e la sua via di fuga. «Il tuo
odore, il tuo respiro, il modo in cui ti muovi... tutto di te mi dice che mi
temi.»
Il rumore dei battiti del suo cuore
le riempiva le orecchie, rendendole ancora più difficile pensare. Non si
disturbò neanche a contraddirlo; la sua stessa voce l’avrebbe tradita. Cercò
allora di schiacciarsi il più possibile contro il muro, come se avesse sperato
che questo potesse inghiottirla e farla passare dall’altra parte. Ma era e
rimaneva fatto di solidi mattoni, impossibili da penetrare.
È
troppo vicino. Troppo. Di questo passo...
«Ma ho l’impressione che si tratti
di un timore positivo.» continuò N, prendendole il mento tra pollice ed indice
e costringendola a sostenere il suo sguardo. «Oserei dire che tu sia...
emozionata.»
Cazzo, no che non lo era. Aveva
solo paura da morire.
E aveva perso.
La voce di Lee le riecheggiò nella
mente, distante ed irreale. «Allora,
facciamo così.» aveva detto, appena poche ore prima. «Il primo che viene toccato da N, perde.»
Il
primo che viene toccato da N.
E
lei aveva perso.