Inizi della Caduta
Per prima cosa reputai necessario scagliarmi con tutte le
mie forze contro il muro, se non altro era fattibile, non richiedeva un
articolare dispendio di energia, e soprattutto mi avrebbe garantito un trauma
tale da stramazzare quasi inerme al suolo. Ma non abbastanza violento da farmi
seriamente male.
Così feci, e avvertii una forte risoluzione in me. Dalla
distanza di dieci metri scarsi corsi verso il muro. Passo dopo passo lo vidi
farsi più bianco, più profondo, più sferico. Il mio avvicinamento ricordava un
lento e progressivo processo di sterilizzazione. In questo l’attrezzo da
sterilizzare erano i miei pensieri, che se prima si proiettavano sul muro
sporcandolo e screziandolo, adesso lo lasciavano completamente pulito, di uno
sterile bianco. Mi ricordò uno studio dentistico. Ma il bianco di quel muro era
l’essenza stessa del non pensiero, un candido schermo privo di una qualsiasi
via di fuga.
Entrarvi in collisione apparve inevitabile superati i due
metri di distanza da esso. Prima di riuscire a ragionare oltre sentii la
sensazione di lacerante passività della mia spalla che si slogava e del mio
pugno adesso escoriato. Poi la mia visuale si spostò similmente a come si
ribalta quella di un top gun durante un’evoluzione nella grotta del cielo.
Ero totalmente spossato. Il dolore e il senso di passività
mi pervadevano, rendendomi impossibile qualsiasi pensiero. Ad eccezione di te.
Quello era un pensiero che con il dolore si era sempre accompagnato benissimo,
e questo aspetto non era stato considerato nella sua pienezza. La mia azione
avrebbe dovuto portare all’origine di una condizione di profondo e
irreversibile dolore fisico, tale da permettere che quello legato a te passasse
in secondo piano. Ma non avevo immaginato che quei due status – entrambi frutto
di partenogenesi, infondo- si sarebbero infine coalizzati contro di me, col
solo e preciso fine di tenermi in vita per godere fino infondo della mia totale
sconfitta e della mia ridicola perseveranza nel farmi mantenere vivo.
Giacevo inerme, in quel prezioso momento di passività. La
mia creatura si era ribellata al suo padrone e si coalizzava con il dolore,
quello che aveva la tua voce e la tua faccia. Quello che prima di colpirmi
nello stomaco si faceva oggetto della mia violenza più perversa e del sesso più
malato. Quello che prima di girarmi la spada trascinando via ogni budello di
dignità, aveva la lucidità di baciarmi con un’esperienza che forse non avevi
neanche tu.
Aveva adocchiato il dolore fisico, l’aveva abilmente sedotto
e l’aveva indotto a fingere di essere dalla mia parte, e di poter dunque
costituire la mia salvezza. L’ipotesi sconcertante che i due mostri fossero
ormai entità indipendenti dalla mia volontà, non più frutti della tua vittoria
su di me, bensì un'unica folata di vento ghiaccio e dilaniante, fu la giusta
compagnia del sangue che iniziava a macchiare la mia mano che contratta in
pugno non riusciva ad evitare di colpire il pavimento.
Era freddo, sai? Questo mi colpì. Sembrava un freddo
consolatorio, meglio del tuo braccio sulla mia spalla in quei giorni. Era un
gelo rassicurante, privo di effetti collaterali, duraturo, spartano. Era
semplicemente il mio freddo in quel preciso istante.
Di nuovo avvertivo il senso di passività prendere possesso
di me. Facevo l’amore col pavimento e col dolore. Un’unione morbosa,
conveniente. Era in realtà la più difficile battaglia che avessi mai
affrontato. La situazione era disperata. Il dolore fisico mi attanagliava
costringendomi all’immobilità e alla remissitvità nei confronti di quello
interiore. Questo secondo tipo di dolore era adesso più che mai intenzionato a
prendere del tutto possesso dei miei organi ancora intatti, come un tumore
trepidante di partorire mortifere metastasi. Si muoveva in me, cosciente. E
parlava con la tua voce, mi induceva al ricordo delle carezze, degli abbracci,
e della violenza che ci piaceva simulare ed accentuare nelle nostre notti.
Il suo tentativo di plagiarmi iniziava a vedere un esito
favorevole.
In tutto questo il pavimento era l’unico piano stabile e
sicuro, l’unico che non poteva rovesciarsi e abbandonarmi, l’unico di cui
potevo ciecamente fidarmi, il solo che non mi avrebbe mai riservato brutte
sorprese. Il primo ed ultimo che grazie alla sua patetica stabilità avrebbe
ricevuto la mia fiducia. Tutta quanta, senza riserve. Era il mio quartier
generale in quella guerra che mi serviva a inniettarmi un po’ di vita e di
dolore.
D’improvviso sentii il campanello suonare. Nascondemmo tutti
le armi, i dolori fecero ritorno nei miei arti e là sostarono non senza
problemi per me. Il pavimento restò ad aspettarmi mentre mi alzavo e mi
apprestavo ad aprire la porta. La mano sanguinava, e questo stupì il postino
quando si accorse che apponevo la firma con la mano sinistra invece che con la
solita destra. Ero sudato e puzzavo di sperma. Fu una cosa veloce.
Sistemata la faccenda mi gettai a terra, a mezz’aria pensai
a quanto era bella quella guerra con la quale ti tenevo in vita.