Lau, ho mantenuto la promessa?
Nuove
prospettive
Sostenere che il successo duraturo di un uomo dipenda dalla fama che hanno avuto i
suoi progenitori è errato.
Non accusiamo la purezza del sangue o il peso del cognome se non
ragioniamo o agiamo come si conviene, perché la colpa non è che
nostra.
La disposizione di un animo nobile non ha niente a che vedere con le
origini, altrimenti da Harry Potter ci saremmo aspettati eterno e umile
splendore.
Del nostro Eroe non è rimasto che lo spettro. Durante gli eventi mondani
s’improvvisa poeta, declamando versi licenziosi sotto gli effetti del Whiskey
Incendiario. Il teatrino non fa che ripetersi, fino al colpo di scena di ieri
sera con il Molliccio. (Approfondimento
pagg. 2/3/6)
I maghi e le streghe inglesi hanno bisogno di guardare avanti. Dopo
cinque anni passati a ricordare, oggi è tempo di ricostruire. Per iniziare,
Harry Potter dovrebbe dimettersi da Auror; i suoi disdicevoli show rovinano la
credibilità del Ministero della Magia.
Ognuno di noi deve tornare a brillare di luce propria e non del riflesso
offuscato di qualcun altro. Riprendiamo in mano i nostri
poteri.
A. Greengrass – “La Gazzetta del Profeta”, 16 luglio
2003
MUTAFORMA
ATTACCA HARRY POTTER
IERI, Museo Nazionale degli Auror. Durante l’esposizione delle Bacchette
dei Caduti nel Secondo Ritorno, si è verificato un autentico complotto ai danni
dell’immagine pubblica di Harry Potter, 23 anni.
Infatti, secondo l’esimio Magizoologo Rolf Scamandro, 29
anni:
<< Non era un Molliccio, ma un rarissimo esemplare di Mutaforma.
[…] Di sicuro al Mercato Nero queste creature oscure non mancano, ma secondo le
mie recenti indagini, quello di ieri era spurio.
>>
L. L.: << Può spiegare meglio ai nostri lettori cosa intende per
“Mutaforma spurio”? >>
R. S.: << È un essere che si auto-genera vicino a un’immensa quanto
agghiacciante matrice di magia nera. […] Quando si trova allo stato Zero non è
che un ammasso limaccioso, poi appena si scontra con una fonte di magia oscura,
ne assume la Forma. >>
Gli studi di Rolf Scamandro sui Mutaforma spuri sono ancora sperimentali.
Dalle parole del Magizoologo si evince che Harry Potter possa benissimo essere
la causa delle creature come non esserlo.
L’ipotesi più accredita è che sia stato un gruppo di Asticelli ribelli ad
aver originato tale fonte di magia nera. Come sappiamo, per costruire le nostre
bacchette abbattiamo il loro habitat naturale, […]
Intervista di Luna Lovegood per “Il Cavillo”,
16/07/2003
Studio
privato della dott.ssa Psyche W. Ephrain – Psicomaga, High
Wycombe.
Il ticchettio molesto di
un vecchio orologio a pendolo batteva da poco le tre del pomeriggio. La seduta
era terminata, ma Harry Potter era rimasto sdraiato sul triclinio in pelle nera.
Era un ottimo espediente per defluire l’ansia che lo attanagliava da quasi venti
ore, durante le quali erano stati inutili i tentativi di mangiare o
dormire.
La sua peggiore paura era se
stesso.
Dunque era arrivato a
detestarsi. Se si fosse concentrato di più, avrebbe quasi sentito quella
tremenda verità con la voce di Hermione. Ma perché mai? Dopotutto era felice: stava per costruirsi una
famiglia con Ginny.
Non poteva permettersi
tentennamenti, anche per Teddy Lupin, il suo adorato figlioccio. E poi c’era il
lavoro che tanto amava; era finito pure nella squadra del vecchio amico Kingsley Shacklebolt, più entusiasta
che mai dopo aver momentaneamente rifiutato la carica di Ministro della
Magia.
Per Harry non era la sua
vita a essere incompleta; aveva pur sempre ventitré anni, avrebbe avuto tempo
sufficiente per riempirla ancora e ancora. Ciononostante, era lui a non sentirsi in
pace.
Dopo la vittoria, cene,
feste ed eventi mondani erano presto diventati ottime occasioni per distrarsi in
chiacchiericci. Era stato proprio frequentando quegli ambienti che aveva
involontariamente incominciato ad alzare il gomito. Non era il sapore dell’alcol
a soddisfarlo, quanto la leggerezza dei pensieri in grado di scacciare la sua
paranoia.
Harry si sentiva in
qualche modo giustificato a bere un bicchierino di troppo, e Ginny non aveva mai
aperto bocca a riguardo. In realtà, nessuno aveva mai osato fargli notare che
forse ci stava andando troppo pesante: non avrebbe sentito ragioni, in ogni
caso.
L’unica che aveva
provato, con molta delicatezza, era stata
Hermione.
La pozione Rigenerante
offertagli dalla Psicomaga incominciò finalmente a entrare in circolo. Eppure,
ora che Hermione era stata rievocata alla mente, rabbia e dolore si aggrapparono
al cuore di Harry. Lui l’aveva accusata di cospirargli contro, di sbarrargli la strada. Non avrebbe
potuto sapere cosa lo tormentasse già
da allora: quella maledetta sensazione di non essere mai sufficientemente
abbastanza, neanche per fingersi
spensierato.
Dopo la Battaglia
Finale, Hermione era volata a Hogwarts per ultimare gli studi: quell’anno si
erano visti solo per le vacanze di Natale. Non avevano mai passato tanto tempo
senza vedersi da quando erano diventati amici. Poi, tra lavoro e corsi
d’aggiornamento, anche in seguito le occasioni per ritrovarsi erano diventate
sempre più rare.
Le loro lettere avevano
cominciato a farsi strane, insofferenti. Avevano litigato spesso per
incomprensioni ed erano rimasti delusi dall’errata interpretazione che avevano
dato alle parole che leggevano. Avevano preteso di saziare la loro amicizia, la
fiducia e la reciproca devozione in quei rotoli di pergamena; e così, di tacito
accordo, la corrispondenza era diventata solo una cronaca apparentemente
tranquilla della loro settimana. Agli occhi dell’altro continuavano ad apparire
sereni e felici.
Per questo motivo quando
erano riusciti a incontrarsi a stento si erano riconosciuti. Avevano fatto
fatica ad associare il volto che si erano ritrovati davanti, segnato da una
silenziosa sofferenza, a quello ideale che si erano fatti leggendo le missive.
Ma avevano fatto finta di niente, seguendo la china della
facilità.
Questo era stato un vero
delitto commesso a discapito della loro amicizia. Si stavano perdendo a poco a
poco. Solo che Harry in cuor suo l’aveva preventivato già da molto tempo,
Hermione no.
Proprio lei, pungolata
dalla costernazione per aver trovato l’anima di Harry contaminata da comportamenti che proprio
non sopportava, gli aveva azzardato una
critica.
- Harry, devi risalire
in qualche modo, – lo aveva supplicato, quando erano rimasti soli dopo una cena
alla Tana. Aveva appena finito di abbracciarlo con quel suo modo materno e un
po’ possessivo.
A tavola, Harry non
aveva che rievocato osceni aspetti della guerra, come per farsi compatire a
tutti i costi. Non era mai successo prima con i Weasley, che cinque anni prima
avevano perso quanto lui. Molly Weasley per poco non era scoppiata in lacrime al
nome di Fred.
– Ti vedo sofferente e
mi preoccupo. C’è qualcosa di cui vorresti parlarmi? Non so, magari il nuovo
lavoro… oppure la tua relazione con Ginny, – aveva ripreso massaggiandogli il
palmo della mano, che al suono di quelle parole si era richiusa di scatto
intrappolandole le dita. L’aveva guardato un po’ confusa, ma era rimasta
immobile.
Harry aveva reclinato
leggermente capo, dando segno di nervosismo con la speranza che Hermione capisse
che lui non aveva voglia di proseguire quella conversazione. Ma la sua migliore
amica non era di certo una che lasciava un argomento così delicato a
metà.
Solo quando le aveva
liberato le dita, si era reso conto di avergliele strette con troppa forza: si
erano arrossate. Aveva bofonchiato delle scuse e aveva fatto per andarsene, ma
Hermione aveva ricominciato come un fiume in
piena:
- Non è normale che te
ne esca con frasi sconsiderate davanti ad Andromeda Tonks, – il tono di voce
era dimesso, quasi si vergognasse a stoccargli un rimprovero del genere. – È
normale che poi sia restia a lasciarti il nipote, e questo non va bene. Teddy ha
bisogno di te. Ma se ti ritrovi in questo stato…
–
Harry si era ritratto
furente, strabuzzando gli occhi per l’incredulità. Aveva scandagliato
attentamente la migliore amica da capo a piedi, come convinto che non fosse
realmente lei.
- Non credi di
esagerare, Hermione? Vuoi sempre vedere mille problematiche anche dove non ci
sono. Io non sono in nessuno stato,
– l’aveva aggredita puntandole un dito contro. L’ultima frase poi era stata
scandita con maggiore enfasi, in modo che non si potesse equivocare nessuna
parola. – Andromeda non ha ancora accettato la morte di Tonks, ha il terrore che
pure Teddy possa svanirgli tra le mani da un momento all’altro; ma lo sta
opprimendo a forza di tenerlo segregato in casa.
–
- È semplicemente una
nonna possessiva, Harry, – aveva ripreso Hermione. – Questo non ti dà comunque
il diritto di mortificarla in casa sua. Così facendo non l’aiuti a mollare la
presa su Teddy. Lo so che ti rivedi molto in lui. Ma Andromeda Tonks non è tua
zia Petunia né Vernon Dursley. –
L’insofferenza aveva
punto talmente tanto Harry da costringerlo a torturarsi le maniche del
mantello. – Non è di me che si sta parlando! Non sono così egocentrico! – aveva
esclamato in propria difesa. – Teddy non può vivere con una donna del genere: lo
cresce proprio come un bambino senza
genitori. Ha quasi quattro anni e non spiccica che poche parole.
–
Era così sensibile
sull’argomento che aveva messo in bocca a Hermione accuse mai dette. Lei gli
aveva afferrato una spalla costringendolo a girarsi per guardarla in faccia,
visto che aveva già fatto dietrofront per
andarsene:
- Diamine, Harry! E tu
pensi di sapere come si fa il padre, invece? Con te crescerebbe meglio? Ti
ammazzi di lavoro e quando hai del tempo libero ami circondarti di maghi ottusi
e adulatori. Credevo detestassi persone del genere!
–
Per quanto addolorata e
prostrata, Hermione aveva dovuto rinfacciargli quella situazione. Le guance del
suo migliore amico erano diventate rosse per lo sforzo di trattenersi forse
dall’insultarla. Poche volte lo aveva visto così
arrabbiato.
Gli aveva lasciato
subito la spalla e aveva abbandonato le proprie braccia lungo il corpo. Quando
Harry aveva aperto la bocca per controbattere, era stata sicura che quelle
parole l’avrebbero ferita più di un Cruciatus e allora, istintivamente, aveva
trattenuto il fiato sperando che poi si sarebbe rimangiato tutto in fretta. Ma
non era andata così, purtroppo.
- Sinceramente? Detesto
più le persone come te che non fanno che bacchettarmi. Ti senti sempre l’unica
che capisce cosa è giusto e cosa no, vero? Ma sai che c’è? Se non sono
abbastanza irreprensibile per i tuoi morbosi criteri: pace. Sto bene lo stesso. Sto bene anche
senza i tuoi rimproveri e i tuoi stramaledetti consigli, Hermione! – aveva
terminato quella sfuriata in affanno, poi era rimasto a guardarla. Sembrava
preso da una follia improvvisa.
Le membra di Hermione
erano state colte da un abbattimento infinito. Il suo cuore era stato ferito, ma
la mente aveva continuato a lavorare frenetica: si stava appropriando con
lucidità infallibile di quell’agghiacciante conversazione. Si era ripromessa che
nulla le avrebbe portato via quel ricordo negli anni a venire. Sarebbe stato un
monito, le avrebbe rammentato fino a che punto Harry fosse
arrivato.
Hermione aveva taciuto
ancora un poco e aspettato che il rumore di una vettura si fosse sciupato in
lontananza. – Sei un’enorme
delusione. –
Qualche anno prima
sarebbe scoppiata in lacrime, ma in quell’occasione si era dimostrata più forte
di quanto Harry e lei stessa avevano pensato possibile. Gli angoli della bocca
si erano stirati leggermente verso l’alto con l’intenzione di abbozzare un
sorriso, poi aveva ruotato una mano nell’aria, a metà tra un saluto e un gesto
di noncuranza, e si era Smaterializzata.
Sempre qualche anno
prima, Harry si sarebbe morso la lingua a sangue e avrebbe guardato con dolore
la schiena di Hermione che si allontanava sussultando per un pianto silenzioso.
In quella circostanza era stato il proprio corpo a essere scosso da piccoli
sobbalzi, eppure le lacrime non erano riuscite a scendere. Giusto una era
scappata, ma gli era rimasta intrappolata tra le lunghe ciglia
nere.
- Signor Potter, – la
voce profonda della dottoressa Ephrain riscosse Harry dai suoi spiacevoli
ricordi, – si sente meglio? Deve fare quanto accordato o dovrò congedarla per un
po’. –
La Psicomaga designata
dal Dipartimento Auror aveva appena finito di scartabellare un quadernino e in
quel momento cercava di nascondere la propria preoccupazione guardando gli occhi
umidi del paziente.
- Farò il possibile, –
assicurò Harry, rimanendo sempre sdraiato e nascondendosi la faccia tra le mani
per asciugare di nascosto il proprio dolore.
- No, signor Potter.
Dovrà fare di più per evitare l’allontanamento dal Ministero, – lo ammonì
seriamente la dottoressa Ephrain raccattando piuma e calamaio e
andandosene.
Sentendo il vociare
indistinto di due o più persone, Harry comprese con sconforto che qualcuno della
squadra dovesse essere rimasto ad attendere la fine del
colloquio.
- La dottoressa è stata chiara al riguardo. Meglio che
gli effetti della pozione siano entrati in circolo prima che lasci lo studio.
Ora, se vuole aspettare, – aveva detto
la segretaria della Psicomaga.
- Dovrò disattendere gli ordini. Io e il
signor Potter siamo stati convocati dal nostro superiore. Massima priorità, lei
capisce. –
Harry riconobbe subito
quella voce fremente: aveva imparato a detestarla ancor prima di presentarsi,
gli era impossibile dimenticarla.
Qualche secondo più
tardi l’uomo, che aveva liquidato l’assistente, s’intrufolò nella stanza di
Harry, sigillandone la porta.
- Potter, – lo apostrofò
raggiungendolo a passi veloci. Rimase in piedi e sul volto un’espressione
indecifrabile. Soffiò tra i denti e aprì bocca come se stesse per dire qualcosa
di davvero indecente, ma all’ultimo preferì non aggiungere altro. Eppure,
qualcosa suggeriva a Harry che solo un grande autocontrollo stesse impedendo al
suo collega Draco Malfoy di arpionargli il colletto della camicia e scuoterlo
con ira fino a rompergli l’osso del collo.
Dopo un silenzio
imbarazzante, Malfoy tirò fuori apparentemente dal nulla un brandello di
pergamena e recitò con voce spazientita: – Messaggio della squadra: evita di
farci vedere gli Ippogrifi blu. Romilda Vane aggiunge con affetto: sono disposta
ad avvelenarti il tuo schifosissimo pudding.
–
Poi Draco Malfoy restò
nuovamente in attesa, avviluppato nel mantello blu pervinca da Auror. Lanciò
un’occhiata svogliata all’orologio da taschino prima di cominciare a far roteare
tra le dita l’antico bastone di famiglia, in cui custodiva la bacchetta. La sua
consueta impazienza era palpabile, sapeva farla percepire benissimo pur senza
parlare.
Con Harry in particolare
sembrava avere assunto quell’atteggiamento: pochissime parole, se non
monosillabi e solo se necessario. Per il resto, modi di fare ed espressioni del
viso erano più che eloquenti.
A lui d’altra parte
andava benissimo così. Non si era illuso che con Draco Malfoy sarebbe mai nata
un’amicizia, benché fossero colleghi. Dopotutto in più di un’occasione avevano
provato a uccidersi reciprocamente; anzi, il loro rapporto si sarebbe concluso
in tragedia, se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Piton, al
sesto anno.
In ogni caso l’intera
famiglia Malfoy si era più o meno
riscattata nei confronti di Harry e della comunità magica qualche ora prima
che Voldemort morisse. Motivo per cui, dopo la Battaglia di Hogwarts, nessun
membro dei Malfoy era stato processato: sulla carta risultava come pentito.
Harry si portò una mano
alle tempie, iniziando a massaggiarle. Quasi sicuramente le parole di Draco
Malfoy l’avrebbero innervosito ulteriormente, quindi gli fu grato per il
silenzio.
- Metropolvere? –
azzardò pulendosi gli occhiali che non ne avevano per niente bisogno. Viaggiare
con la Passaporta o la Smaterializzazione gli avrebbe rimesso sottosopra lo
stomaco.
Senza che ebbe il tempo
di accorgersene, si trovò una bacchetta quasi infilata nella
narice.
- Non so cosa mi
trattenga dal fracassarti questi occhialini di merda che porti da quando eri uno
spermatozoo, ma ti avviso: risolvi i tuoi problemi mentali, – Draco Malfoy gli
si era avvicinato a un palmo di naso, minacciandolo tra i denti. Era
maledettamente serio e la vena sulla tempia si era ingrossata. Da come impugnava
la bacchetta, avrebbe volentieri venduto un parente pur di potergli sferrare un
pugno.
– Abbiamo una Passaporta
speciale che parte tra dodici minuti. Sbrigati, – soggiunse sprezzante come se
nulla fosse stato, mentre tornava col busto
eretto.
- Sapevo che non ti
saresti trattenuto dal commentare, – sospirò Harry alzandosi dal divanetto e
aggiustandosi la mantella. Lanciò uno sguardo attorno alla stanza per
controllare che non avesse poggiato nulla da qualche parte. – Non ti nego che mi
diverte terribilmente vederti così sostenuto nei miei confronti, Malfoy. Lo
percepisco dai tuoi muscoli tesi che vorresti picchiarmi. Dunque, questa farsa
di deferenza durerà a lungo? –
Harry andò verso il
camino per prendere la scopa con cui era volato fino allo studio della
dottoressa Ephrain. La coda della Firebolt Deluxe vibrò impercettibilmente, il
manico era scattato tra le mani del proprietario non appena queste si stesero
nella sua direzione.
- La pozione che ti ha
dato la Psicomaga era evidentemente scaduta. Be’, hai letto i giornali? –
tagliò corto Draco Malfoy. In quel momento sembrò improvvisamente divertito. Gli
regalò pure un sorriso sardonico, mentre si spostava verso la
finestra.
Fuori dallo studio, un
cielo in cenere li aspettava. In alto una torma di corvi gracchiava quasi stesse
piangendo.
- Ammetto che Lunatica Lovegood se ne inventa una più
di Morgana per difenderti. Mutaforma spuri? Patetico, – Draco continuò, lasciandosi
sprofondare nella poltrona della dottoressa Ephrain, sotto il finestrone
centrale dello studio.
- Mi spaventa di più la
tua amica Astoria, che a vent’anni vuole passare come una strega bigotta di
cinquanta, – controbatté Harry, appoggiandosi sul bracciolo del triclinio. Si
picchettò la cicatrice con le dita, come se improvvisamente si fosse ricordato
una cosa molto importante. – Ah, encomiabile il pezzo sulla purezza del sangue!
Un po’ incoerente per una ex Serperverde. E peccato che non c’entrasse un cazzo.
Diciamo che se l’era scritto da qualche tempo e voleva usarlo a tutti i costi
per un articolo importante. – Alzò
torvo le sopracciglia e raccolse da terra la copia della Gazzetta del Profeta
che stava leggendo poco prima di iniziare la
seduta.
- Ti ascolti? Sarebbe importante perché si parla di te? – lo
accusò prontamente Draco Malfoy, stupendosi di quanto fosse tronfio l’ego di
Harry Potter. – Comunque chiariamo che: primo si chiama A-ste-ria e secondo non siamo amici. Ah, e
terzo: è estremamente bigotta.
–
Harry lo guardò con
l’espressione fa’ un po’ come ti pare
prima di rituffarsi nella lettura del Cavillo, questa
volta.
- Che schifo di tempo, –
si lagnò poco dopo Draco, buttando l’occhio alla pioggia che iniziava a
scendere. Malfoy era solito aprire bocca per lamentarsi, ma stavolta Harry
dovette dargli ragione.
Palazzo notarile della F. Darrig,
Londra.
Pure a Brixton, nel
cuore della capitale, il sole era tenuto in ostaggio da una spessa coltre di
nuvoloni. Di lì a poco sarebbe scesa la pioggia, e chi era per strada affrettava
il passo. Anche Pansy Parkinson si mise preventivamente il cappuccio del
mantello sulla testa.
La via deserta
costeggiava prefabbricati in rovina e un deposito pieno di ferrame rubato o
abbandonato, in attesa che qualcuno andasse a rivendicare qualche pezzo indenne.
Quel cielo plumbeo rendeva ancor più tetro il malfamato distretto londinese:
Brixton era una sfasciacarrozze abusiva, che di giorno si popolava di ladri e di
notte di spacciatori e vampiri.
Svoltò all’angolo e
imboccò una strada costeggiata da bassi rovi. Poi passò per un capannone,
tagliato in due dalle rotaie della ferrovia, senza smettere un secondo di
guardarsi furtivamente alle spalle.
Non era certo un
comportamento degno di una Parkinson, ma da quando suo padre era stato trovato
impiccato nel loro maniero, Pansy aveva capito che i tempi patinati
dell’adolescenza erano terminati. Bruscamente, ma erano terminati. Quel giorno
era diretta a un appuntamento con i notai Goblin per discutere della bancarotta
ormai alle porte.
La sensazione di essere
seguita la stava facendo uscire di matto. Impugnò più saldamente la bacchetta
nella tasca del mantello mentre s’infiltrava in un vicolo cieco. Diede due
colpetti al muro di mattoni davanti a lei, e si allargò dal nulla un varco
sufficientemente grande per farla passare. Non fu la caotica Diagon Alley a
materializzarsi, ma una dissestata scala che s’inerpicava fino al palazzo
notarile della Far Darrig.
In lontananza
sopraggiungevano grida di piccoli e mostruosi Goblin, che scorrazzavano liberi
nel parchetto in mezzo alle sterpaglie. Mentre li superava, le venne in mente
quando dalla finestra della propria villa intravedeva i figli dei soci del padre
rincorrersi per le immense distese di viole. S’indignava a vederli calpestare
quei fiori da cui lei prendeva orgogliosamente il
nome.
A Pansy non era mai
stato permesso correre, perché non si addiceva alle bimbe Purosangue sbucciarsi le
ginocchia o sporcarsi le scarpette di
velluto.
Il pomeriggio moriva
assai velocemente. Il parco pieno di sterpaglie era tornato deserto e dalla
finestra della Darrig sembrava ancora più tetro. Ma Pansy Parkinson ormai non ci
faceva più caso, impegnata com’era a urlare contro i propri notai
Goblin.
- Arrogante massa
d’inetti! –
Cercando qualcosa da distruggere, rovesciò il servizio di porcellana
collocato sul tavolino davanti.
Il canuto Far Darring
osservò con una smorfia la teiera, costata quasi un occhio di Drago, frantumarsi
seccamente sulla pavimentazione.
- Signorina Parkinson,
questa non è la vostra villa, – le ricordò il Goblin, notaio di famiglia da oltre
quarant’anni.
- L’avevo notato, –
ribatté prontamente Pansy fulminandolo con lo sguardo, prima di concentrarsi
nell’inserire una sigaretta nel lungo bocchino antracite. Cominciò a fumare con
ardore, dando le spalle ai presenti e fissando un punto impreciso sulla parete
davanti.
Bran Vanastah, il socio
di Far Darring, si passò una mano sulle guance lanuginose, calibrando
mentalmente come presentarle la successiva cattiva
notizia.
- La Gringott vi ha
sigillato il conto. Siete in debito di oltre duemila galeoni: non so se vi
rendete conto della gravità della situazione, signorina Parkinson.
–
Pansy si voltò
spiritata, frenandosi dal pugnalarlo con il bocchino proprio in mezzo agli
occhi. Ci mancavano pure quegli altri taccagni dei Goblin a starle col fiato sul
collo.
- Venderò il Blinde Cove
e tutti gli appezzamenti di terra in Scozia –. Non si rese conto che la cenere
della sigaretta le stesse sporcando la punta degli stivali, perché aveva in
testa un solo, pregnante dilemma: chi Schiantare per primo tra quei due Goblin
deficienti.
- Sono proprietà dei
vostri nonni, non ne avete la potestà, – spiegò Far Darring, ipocritamente
mellifluo. – In realtà non siete neanche più la locatrice.
–
Quella verità fece più
male di uno schiaffo. Per Pansy era l’ennesima umiliazione nell’arco di due
anni.
Amava quella residenza
sperduta nel verde delle colline scozzesi, sotto un cielo da maiolica persiana,
e tra il selvaggio profumo dei cornioli in perenne sboccio. Bizzarro come avesse
subito pensato di venderla, equiparandola a un posto come tanti altri. Ma in
quel momento, sapendo del cambio d’eredità, sentì tutto il peso della
perdita.
Bran Vanastah ripose sul
tavolino voluminosi rotoli di pergamena con un gesto d’ineluttabile freddezza,
ma lei neppure ci fece caso, intenta com’era in un rimpianto che non avrebbe mai
superato. Con accanimento Pansy inspirò la coltre di fumo, ticchettando
nervosamente la punta degli stivali sul
pavimento.
- ‘Fanculo, – accompagnò la parolaccia con
lo sventolamento della mano.
Era troppo,
s’indispettì Far Darring che a petto gonfio prese la situazione in pugno.
Alzandosi in piedi le arrivava quasi all’altezza della pancia, ma se voleva,
sapeva incutere terrore come un Gigante.
- Vi avverto, signorina
Parkinson. Non tollereremo più il vostro linguaggio capriccioso, – incominciò,
additandola come si rimprovera il proprio elfo domestico. – Dalla lettera che ci
ha inviato la Corte del Magico Consumatore risulta una querela nei confronti
della nostra società. Voi avete accusato me e il mio socio Vanastah di sperpero
del patrimonio. –
Con la diplomazia di un
Troll, Pansy fece Levitare Far Darring fino a che i loro occhi non arrivarono
alla stessa altezza. Il suo tono divenne
lezioso.
- Voi due casualmente mi avete reso nota la
situazione giusto ieri. Non ho potuto neanche chiedere dei prestiti.
–
L’allusione piccata si
perse nella stanza, perché entrarono i due veri Troll a capo della sicurezza
d’ufficio, venuti a portarla via.
- Che trattamento, – la furia tornò a
impossessarsi della giovane, che passò direttamente alle minacce. – Quanto è
vero Merlino, vi farò sbattere ad Azkaban! –
Uno dei due Troll la
prese di peso bloccandole la bacchetta nella tasca.
Far Darring schioccò la
bocca. Detestava gli umani, soprattutto quelli poveri di animo e portafoglio.