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Autore: Padme Undomiel    27/04/2011    3 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Purity 22
22.


Coraggio






“Vieni qui, Iori-kun, guarda che bello!”

Una bambina, coi capelli viola al vento, che volteggia e corre, la gonna rossa che si solleva lievemente per il vento. Sorride, raggiante, e si solleva sulle punte dei piedi per prendere un fiore rosa pallido e mostrarlo al bambino più piccolo, dai corti capelli castani e due grandi occhi verdi.

“Fiori di ciliegio!” Dice, e cerca di metterlo tra i capelli come ornamento, senza riuscirci. Si imbroncia. “Uffa. Vorrei una coroncina di fiori di ciliegio, sembrerei una principessa!”

“Perché vuoi sembrare una principessa?” Chiede Iori, senza capire, e Miyako alza le spalle.

“Perché il mio fidanzato deve trovarmi bella”, afferma semplicemente, e poi si siede sotto il ciliegio più grande. “Il periodo dell’Hanami è così romantico! Il mio fidanzato deve portarmi qui, quando vuole chiedermi di sposarlo.”

Iori la guarda, ancora più sorpreso, e poi sospira. “Miyako-san corre troppo, come sempre”, commenta.

Ma lei è troppo piena delle sue fantasie per prendersela. Gli prende le mani, raggiante. “Saremo circondati da petali di fiori, come tanti coriandoli. E lui mi guarderà negli occhi, e mi dirà: Sei bellissima, come un fiore. E poi mi farà la proposta … E io, ovviamente dirò di sì, e ci scambieremo un bacio! Come vorrei che fosse vero!”

“E se al tuo fidanzato non piace l’Hanami?” Chiede ancora lui. “E se trova brutti i fiori di ciliegio?”

Miyako si mette il fiore dietro l’orecchio, sentendosi bella ed importante anche solo per i due soli secondi in cui quella postazione regge; il fiore le cade in grembo. “Allora ne troverò un altro! Il mio fidanzato deve essere romantico, altrimenti non lo sposerò mai.”

E poi ride, guardandolo con un ghignetto. “E tu non la baceresti la tua fidanzata, sotto questi ciliegi? Come dovrà essere la tua principessa?”

Iori scuote la testa, tranquillo. “Non so. Non so nemmeno se mi sposerò. Ma adesso non mi va di pensarci. E poi sono troppo piccolo!”

“E allora? L’amore viene ad ogni età, Iori-kun! Potresti innamorarti anche adesso! E’ per questo che devi sempre stare attento a quando verrà a farti battere il cuore.”

.

Sollevò il capo dal cuscino, sentendo gli occhi bruciare, e la prima cosa che notò fu il buio pressoché totale della sua camera da letto.

Miyako si puntellò su un gomito, strofinandosi gli occhi gonfi –doveva essere la sua malattia, perché non ricordava affatto di aver pianto-. Le persiane erano semichiuse. Non ricordava di averle mai sollevate da quando era tornata a casa la sera prima.

Poteva darsi che fosse semplicemente caduta a peso morto su quel letto, senza fare, pensare ad altro?

Si sforzò di ricordare, mettendosi seduta e lottando contro il senso di nausea. C’era un calore insopportabile sulla fronte, un peso insostenibile nella fronte e nel petto, e le mani che le tremavano. E poi … e poi …

Doveva essere stata semi incosciente per tutta la notte. Finché non c’era stata quella telefonata alla signora Sato … quanto tempo fa?

La testa le scoppiava. Doveva essere quel maledetto buio, che le lasciava solo intravedere quei flebili raggi di sole attraverso le persiane abbassate.

Miyako prese un gran respiro, per poi aggrapparsi spasmodicamente al materasso e drizzarsi in piedi. Le forze quasi le vennero meno: il mondo le vorticò attorno per un attimo troppo lungo, e lei ricadde con forza a sedere, le mani premute sugli occhi.

Da quanto tempo non mi alzo più da questo maledetto letto? Sono diventata un vegetale?

Non si diede per vinta. Riprovò ancora, la presa sul letto tremante ma decisa, e infine mosse qualche passo barcollante verso la finestra chiusa. E allora la aprì di scatto, e altrettanto rapidamente cominciò ad alzare le persiane, lasciando che la luce la invadesse sempre più, e si diffondesse in tutta la sua camera.

Una folata di aria fresca la fece rabbrividire violentemente, ma sul momento non se ne interessò minimamente. Si affacciò, mentre uno strano, incredulo sorriso le affiorava sul viso.

Aveva mai visto Tokyo come le appariva quel giorno? Così luminosa, così piena di vita, così perfetta?

La luce brillava sulle finestre dei palazzi davanti a sé, creando strani giochi di riflessi dalla quale la giovane si vide incantata. Il cielo sembrava quasi puro, terso, con solo qualche nuvola a renderlo meno perfetto e irraggiungibile. E quel viavai di gente lì sotto, davanti a quel bar che si trovava di fronte a casa sua … Lavoratori che si prendevano una pausa prima di tornare alle proprie occupazioni, uomini col giornale, donne al telefono.

Vita. Tokyo sprizzava vita da ogni luogo, quel giorno.

E poi scorse quella coppia di ragazzi, sempre lì davanti a quel cancello, che ogni giorno erano sempre nella stessa posizione e alla stessa vicinanza, e che non facevano che parlarsi l’un l’altro incessantemente e a bassa voce. Come se il loro amore fosse così speciale da essere perfetto solo se esso li isolava dagli altri.

Fu quella visione a rompere qualcosa, nel suo strano equilibrio interiore. Il sorriso le morì sulle labbra.

Quel ragazzo stringeva e sfiorava incessantemente la sua ragazza, come se fosse un gesto vitale, indispensabile. E il respiro le si mozzò in gola, mentre sentiva una sgradevole sensazione di amarezza avvelenarle la serenità.

Perdersi tra le braccia dell’uomo che amava non le era stato mai concesso, dopotutto. Ma questa consapevolezza non le faceva più male da anni …

E poi un soffio di vento la schiaffeggiò con una realtà che aveva momentaneamente scordato. Una ciocca di capelli viola le passò davanti al viso, e Miyako impallidì.

La parrucca. Lei si era tolta la parrucca, chissà quando, chissà perché.

La finestra. Mi vedranno!

Miyako strillò brevemente, il terrore a deformarle il viso, e guardò per un istante i passanti sotto di lei, la vita frenetica dalla quale lei si era estraniata da troppo tempo, e vide che tutto continuava ad andare avanti senza di lei. Vide che nessuno aveva scorto Inoue Miyako nascondersi nell’appartamento di Miyazawa Rumiko.

E chiuse di scatto la finestra, tirò selvaggiamente le tende, le mani che tremavano convulsamente, e la nausea fu tanto forte da costringerla ad accasciarsi a terra, a raggomitolarsi su se stessa e a nascondere il capo tra le mani.

Avventata, e stupida. Come aveva potuto dimenticare un dettaglio tanto fondamentale? Perché, proprio ora che il pericolo era raddoppiato, triplicato …

Li sentì ancora. Quell’insopportabile angoscia, quel peso insostenibile all’altezza del petto, e quella voglia di gridare, di distruggere qualcosa, qualsiasi cosa, pur di placare quella sofferenza, e ricordò quando le aveva provate.

Era stata la sera prima.

Quando aveva scagliato lontano quella parrucca, detestandola come mai nella sua vita, per la prima volta considerandola una prigione e non una salvezza. E il motivo, il motivo …

“Lui non mi ha vista davvero … Lui non mi ha mai vista coi capelli viola, con gli occhiali …”

Non aveva fatto altro che ripeterlo, come impazzita, il dolore che la costringeva a buttarsi sul letto, e a cadere nell’incoscienza per non pensare più.

Con gli occhi gonfi e brucianti era molto più semplice lasciar scorrere le lacrime, si rese conto Miyako, tremando per il freddo che sentiva tutto intorno a lei e rannicchiandosi come una bambina indifesa.

Pianse disperatamente, troppo stanca perfino per arrabbiarsi con se stessa, con il suo destino, con il suo esilio volontario dalla vita e dagli altri.

Cosa fare, ora che era al capolinea? Ora che persino il suo corpo si ribellava, stanco di vessazioni, di finzioni, di bugie, di dolori?

Cosa fare, ora che nemmeno l’incoscienza poteva aiutarla a cancellare il ricordo dell’appuntamento della sera prima?

Si era arresa. Colpa di quegli occhi, che avevano confuso, stravolto tutto.

Erano stati gli occhi di Ken –di Ichijouji Ken - , lì ad aspettarla con impazienza e desiderio di vederla, sotto quegli alberi di ciliegio nel periodo dell’Hanami.

Sembrava una beffa. La storia più importante della sua vita fino a quel momento non aveva mai avuto come sfondo i ciliegi: l’altro non l’aveva mai portata lì, sebbene fosse uno dei suoi più grandi sogni romantici. E lei era stata cieca, e aveva rinunciato alla sua vena sentimentale per venirgli incontro, credendo scioccamente di non star prescindendo dalla propria personalità.

Ma perché quello, perché? Perché proprio lui, proprio lì? Perché lei aveva accettato, perché Ken l’aveva guardata in quel modo, perché le sue dita erano state così delicate nello sfiorarla, perché aveva desiderato che non si fermasse? Perché il suo dannato, dannatissimo amore per l’indagine lo aveva reso così speciale e allo stesso tempo così temibile ai suoi occhi? Perché si era sentita morire quando le aveva detto di starla cercando anche lui, ma aveva sentito vibrarle il cuore al pensiero di come il cuore di lui avesse accelerato i battiti nel parlare della sua smisurata passione?

Ken aveva detto a Rumiko di star cercando Inoue Miyako. Le aveva raccontato della sofferenza dei suoi cari, che ancora non si rassegnavano a cercarla, le aveva spiegato di non sopportare tutto quel dolore; e poi le aveva parlato di suo fratello, di come sperava che, trovando Miyako, le cose tra loro si sarebbero aggiustate.

Ma Rumiko non è mai esistita. Hai rivelato di star cercando Miyako a Miyako stessa, Ken-kun.

Non sapeva che Miyako non poteva ricomparire, ed aggiustare tutto. Non poteva fare niente per Ken. E lui era stato stupido a dirle tutte quelle cose.

Perché loro erano nemici, in qualche modo.

Per quanto fosse orribile, per quanto i sensi di colpa la stessero distruggendo dall’interno, non poteva essere altrimenti.

Miyako stava ancora piangendo tutte le sue lacrime, quando il campanello di casa suonò.

I suoi singhiozzi cessarono, e lei rimase immobile, chiedendosi se non fosse il caso di fingere di non esserci. D’altronde, il suo corpo era pesantissimo: dubitava che avrebbe potuto anche solo sollevare il capo.

Ma poi il campanello suonò un’altra volta, e un’altra ancora.

E allora Miyako sollevò il capo, le lacrime che si asciugavano fastidiosamente lungo le sue guance. Strisciò verso il suo letto, e fu lì accanto, per terra, che trovò la sua parrucca, scomposta, disordinata, odiata, eppure l’unica sua difesa, in quel momento.

Non pensò a nulla indossandola, non ne ebbe il tempo. Il campanello aveva suonato un’altra volta, e Miyako si affannò per coprirsi con una vestaglia, mentre si avviava barcollante verso la porta d’ingresso.

La aprì, aggrappandosi alla maniglia e preparandosi ad una folata di vento freddo, la cosa meno indicata per la sua pelle accaldata.

E chiunque, chiunque si sarebbe aspettata su quella porta fuorché lei.

Satsu sorrideva semplicemente, il dito ancora sul campanello come in procinto di suonare di nuovo. “Scusa la scampanellata insistente. Pensavo che stessi dormendo, e avevo paura che  non mi avessi sentito. Non che sia un male, ovvio: con la febbre è sempre meglio riposare.”

C’era qualcosa di incredibilmente sbagliato nel suo essere tanto sorpresa di non sentirsi sola: non era affatto normale, né sano. Eppure, il sollievo di vedere Satsu la sopraffece a tal punto che si sentì mancare le forze, e fu costretta ad appoggiarsi contro il muro.

“Rumiko-chan? Ti senti male?” Satsu le si era avvicinata d’un tratto, chiudendo la porta d’ingresso con un rumore forse troppo forte. Miyako vide la sua espressione preoccupata, e seppe che la sua sofferenza solitaria era finita.

“Aiutami”, riuscì a dirle a fatica, prima di chiudere gli occhi.

***

“Certo che qui a Osaka ve la passate proprio bene, eh?”

Yamato lo osservò con uno strano sguardo, le bacchette strette nella mano. “Che intendi?”

Takeru si strinse nelle spalle, prendendo un altro boccone dalla sua ciotola prima di rispondergli. “Beh”, disse lentamente, mentre un sorriso affiorava sul suo viso. “Non so se ricordi, ma gli udon di Tokyo hanno un sapore completamente diverso da questi.”

Dal modo in cui le spalle di Yamato si rilassarono dopo la spiegazione, Takeru comprese che suo fratello si aspettava, con tutte le probabilità, un altro tipo di commento da parte sua. Forse si aspettava che questa fosse la premessa per supplicarlo –ancora- di tenerlo con sé a Osaka, per aiutarli.

Il ricordo lo fece scuotere la testa, e dedicarsi di nuovo al suo pranzo. Sembrava passata un’eternità da quando si era sentito così sperduto.

“Credi che non ricordi più la cucina di Tokyo? Non è tanto tempo che vivo qui”, obiettò Yamato tranquillo, prendendo un sorso d’acqua.

Il minore dei due ghignò. “Dipende da quante volte i ragazzi della band ti hanno lasciato ai fornelli, Yamato”, rispose, e trattenne a stento una risata mentre parlava. “Se l’hanno fatto spesso, e se tu hai … sperimentato altre vecchie ricette della nonna, mi sembra logico che la conseguenza sia stata venire più spesso ai ristoranti di Osaka, e quindi dimenticarti dei sapori di Tokyo.”

“La tua scarsa fiducia nelle mie abilità culinarie mi ferisce, Takeru.”

Yamato ridacchiò, e Takeru lo osservò con la coda nell’occhio, curioso di vederlo così rilassato. Se lo ricordava cupo, un po’ pallido, magro e stressato: lo ricordava bene, perché in quel momento ogni tratto del suo viso gli aveva suggerito che avesse bisogno d’aiuto. Ma adesso sembrava non esserci più nulla del genere in lui.

C’era stato un dubbio che si era annidato come un tarlo nel suo cervello, durante tutto il viaggio da Tokyo a Osaka. Se Yamato dovesse aver trovato una soluzione al suo problema, che effetto mi farà? Se dovessi capire che non ha più bisogno di nessuno, perderò interesse a vederlo?

Non era stato così. Lo vedeva più sereno, e in cuor suo ne era felice. Forse era cambiato davvero, forse non sarebbe successo nemmeno due mesi prima, ma la sostanza restava quella: non godeva della sofferenza altrui. Di quella di Yamato in primis.

Non c’era nulla che avrebbe potuto renderlo più felice. O quasi.

“Ho come l’impressione che sia cambiato tutto, in questi due mesi in cui sono stato a Tokyo”, gli rivelò semplicemente. Yamato sembrò tornare all’istante serio, mentre per qualche motivo i suoi occhi azzurri, dissimili dai suoi solo per la forma, sembravano essere diventati più penetranti che mai. “Guardati: l’ultima volta che ti ho visto ancora non eri riuscito a rimediare, neanche in parte, all’improvvisa perdita degli strumenti musicali. E adesso? Hai un basso di seconda mano, stai per acquistare una chitarra e chissà quanto presto potrai tornare a fare il mestiere che ti piace, invece di lavorare part-time con i ragazzi.”

Poggiò le bacchette sulla sua ciotola ormai vuota, sorridendogli. “E’ bello che tu ce la stia facendo anche senza l’aiuto di nessuno, Yamato.”

“La stessa cosa potrei dire io di te.”

Takeru si irrigidì, sorpreso. “Perché?”

Gli sembrò all’improvviso che suo fratello maggiore stesse rivelando i pensieri che aveva avuto da quando aveva saputo della sua prossima visita a Osaka: non esitò nemmeno un istante, prima di parlargli schiettamente. “Sei diverso. E non è solo il fatto che tu sia qui a ridere e scherzare come non facevi più da un sacco … è che sembri assente, come troppo preso da un qualche tipo di pensiero. E l’ultima volta che ti ho visto eri così terrorizzato dalla tua mancanza di scopi che non osavi nemmeno perderti nei tuoi pensieri. Cos’è cambiato?”

E a Takeru non restò che chiedersi se fosse lui troppo chiaro in ciò che pensava, Yamato troppo arguto o la sua situazione troppo speciale per essere nascosta.

Eppure, era tutta lì la questione. Anche lui si sentiva diverso, forse troppo.

Forse non si era mai sentito così diverso.

Si fece serio, e annuì piano. “Credo di essere io”, rispose.

La preoccupazione di Yamato non era mai troppo palese, eppure socchiudeva lievemente gli occhi quando succedeva. Come accadde in quel momento. “Di cosa vuoi parlarmi, Takeru?”

Non poteva biasimarlo, se la sua chiamata lo aveva messo sull’attenti. Visto il suo atteggiamento passivo degli ultimi tempi, cosa ci si poteva aspettare dall’irrequieto, frustrato Takaishi Takeru, che aveva visto da sé di essersi perduto e non aveva fatto nulla per cambiare le cose?

Sorrise, perché non si trattava più soltanto dei capricci di un bambino egocentrico. C’era molto di più in ballo.

Prese un respiro profondo, per farsi forza. “L’orfanotrofio Yagami”, dichiarò in fretta, sentendosi inspiegabilmente avvinto dalla sua stessa emozione. “Ne hai mai sentito parlare?”

E mai aveva sorpreso Yamato più di quel momento. Spiazzato, rimase a fissarlo a bocca semiaperta, come volesse comprendere dove voleva arrivare. “Yagami, dici?”, fece dubbioso, preferendo seguire il filo del discorso per lasciare che fosse lui a spiegargli tutto in seguito. “Non era quella famiglia che si sottopose a maldicenze di ogni genere pur di aprire quell’orfanotrofio quasi fuori città?”

Maldicenze di ogni genere.

Quel pensiero gli fece abbassare il capo, imbarazzato. Aveva passato gli ultimi anni a cercare qualcosa che non esisteva né sarebbe mai esistito, mentre Hikari e la sua famiglia venivano tacciati di moralismo, talvolta accusati di empietà irripetibili, talvolta semplicemente ignorati.

Quanto poteva essere impari il paragone tra loro? Quale ingiustizia aveva dato tanto a lui, e poco a loro, quando lui non aveva saputo vedere ciò che aveva e loro avrebbero dato chissà quanto per ricevere tutto ciò in dono?

“Allora lo conosci”, disse, giocherellando con il suo tovagliolo, e lo sguardo di Yamato ancora cercava di sondare le sue emozioni. “Io non ne sapevo niente, invece. Ed è buffo, davvero buffo, dato che adesso non riesco a pensare ad altro.”

“Davvero?”

Interdetto, e confuso, Yamato sembrava aver perso l’uso della parola, che già lui usava abbastanza raramente. Appariva come una scena comica, ad occhio esterno.

I dubbi che lo stavano assillando resero impetuoso il suo parlare, spingendolo a condividere la sua incertezza con la persona che più gli era stato vicino in tutti quegli anni. “E’ che ho conosciuto la figlia minore della famiglia, che sta mandando avanti il progetto con poche altre persone … Yagami Hikari. E’ una mia coetanea, sai? Ci si aspetterebbe che studi, o almeno che lavori, invece vive in totale funzione dei suoi orfani. E’ assolutamente instancabile, ed è assurdo, ma il suo sorriso è davvero capace di … scuoterti dentro, ecco. Non credo ci sia nessuna capace di fare una cosa del genere.”

Probabilmente avrebbe continuato ancora a sproloquiare senza nesso logico, se Yamato non lo avesse interrotto. “E come mai è importante che tu l’abbia conosciuta?”

E quella singola frase fu capace di mandarlo in confusione per un istante.

Già, perché?

Restò smarrito a fissare gli occhi di suo fratello, immobile, finché lo stupore non fu passato, e la piena consapevolezza di cosa sentisse da qualche giorno non lo spinse a parlare di nuovo.

Si passò una mano tra i capelli, incapace di reggere lo sguardo dell’altro in quel momento.

“Che tu ci creda o no, il suo sorriso mi ha davvero … scosso. E, non so come, sono così scosso che da solo non riesco a capire come comportarmi adesso.”

***

“Sei la solita esibizionista, Rumiko-chan. Svenire in corridoio è stato davvero un tocco di genio, devo riconoscerlo.”

Infagottata nelle le coperte, dietro la schiena due cuscini a sorreggerla, Miyako si accigliò, pur troppo stremata per sollevarsi almeno un po’e riconoscere ciò che Satsu le aveva appena portato dalla cucina. “Non sono affatto svenuta. Ho avuto solo un momento di vertigine, tutto qui!”

“Una vertigine esibizionista, allora.”

Satsu rise, prendendo una sedia e accomodandosi accanto al letto. Tra le mani reggeva una ciotola fumante, che aveva tutta l’aria di essere una porzione di riso. “Avanti, malatina. Ti fa bene mangiare qualcosa, no? Sei a stomaco vuoto da un giorno intero.”

Miyako osservò il riso –era davvero tutto per lei?-, e un moto di nausea la scosse. Voltò la testa, intestardendosi. “Non ne ho voglia, Satsu-chan. Mangio più tardi, ok?”

Satsu la osservò pazientemente. “Sapevo che lo avresti detto”, puntualizzò con un sorrisetto. “Ma sappi che continuerò a porgerti questo boccone finché non deciderai di mangiarlo.”

“Quindi, fino a domani mattina”, la provocò Miyako, osservandola con aria di sfida.

E Satsu alzò le spalle, prendendo un po’ di riso con le bacchette e porgendoglielo. “Splendido. Ma se mi cadrà il riso sul copriletto, qui ci dormi tu, sai?”

Questo era un ricatto bello e buono.

In altri tempi, probabilmente Miyako avrebbe protestato, si sarebbe alzata barcollando dal letto sostenendo che avrebbe dormito sul tappeto piuttosto che sottostare alla sua tirannia.

Eppure, non aveva la forza per opporsi, non stavolta.

Sbuffò, rassegnandosi, e aprì la bocca. Satsu la imboccò, soddisfatta, e Miyako dovette lottare contro la ribellione del suo stomaco, prendendo a masticare piano.

Non le era mai piaciuto il riso in bianco: non aveva alcun sapore. E siccome non le piaceva, ed era costretta a mangiarne quando non stava bene, quel piatto le aveva sempre ricordato la quantità di cose che non avrebbe potuto fare perché costretta a letto.

Strano come le cose fossero cambiate. Ora alcune cose le erano precluse anche quando era sana come un pesce.

Eppure ora riusciva a vedere con maggiore chiarezza quanto gli altri facessero per lei.

Mentre Satsu continuava silenziosamente ad imboccarla –come una bambina, come quel bambino che avrebbe voluto imboccare lei-, Miyako si concentrava su quanto le sembrasse più buono, quel riso in bianco, perché significava cura, e attenzione, e il fatto che non era sola. Era sorpresa di sentirsi fortunata, in momenti come quello.

Ingoiando un boccone tiepido, Miyako sorrise, tremendamente grata. “Sei un tesoro, Satsu-chan”, le disse, cogliendo il suo sguardo perplesso. “Non fossi una ragazza e la mia migliore amica, ti sposerei seduta stante.”

“Oh. Beh, onorata, ma mi dispiace deluderti: sono una ragazza e sono la tua migliore amica”, fece lei, alzando gli occhi al cielo con espressione serena. “E ho già un futuro come single che alleva gatti … ovvero Haku e i suoi futuri cuccioli, se mai ce ne saranno.”

Sul punto di prendere, controvoglia, un altro boccone, Miyako si fermò, colta di nuovo dalla stranezza della sua vicenda.

Possibile che non avesse mai analizzato la sua vita sotto quell’ottica, che l’aveva illuminata e gettata nello sconforto più nero all’improvviso?

Osservò Satsu, lucida abbastanza dalla febbre per fare un discorso più o meno logico. “Satsu-chan, se avessi voluto anche io un futuro come single che alleva gattini, sarebbe stato mille volte migliore, la mia vita. E anche quella degli altri.”

E, tanto per cambiare, lei non la prese sul serio.

“Deliri? Eppure non mi sembrava che avessi tanta febbre!”, esclamò con le sopracciglia aggrottate, tastandole la fronte. “Infatti, non scotti molto …”

Miyako sospirò, disperata, allontanando la mano di Satsu. “Sono seria! Giuro!” Dovette fissare negli occhi scettici della sua amica per qualche minuto buono, prima di riuscire a convincerla. “Guarda, mi sono sempre messa nei guai, ogni volta che sono stata innamorata. Cosa credi sarebbe successo se lo avessi rifiutato perché non interessata? Non sarei stata madre ed egoista, tanto per cominciare. E non avrei avuto un figlio che mi manca a tal punto che a volte mi sembra di sentire il suo pianto nelle orecchie …”

Il ricordo la fece ammutolire per qualche istante, senza fiato. Keiji-chan. Mio Keiji-chan …

“E Keiji-chan non sarebbe stato abbandonato dalla sottoscritta!” Riprese, fuori di sé. “E non dimentichiamoci che avrei la mia famiglia, i miei amici … la mia vita ancora qui. E tu e Iori-kun non sareste costretti a sacrificarvi fino al limite imposto dalla legge. Lo vedi, Satsu-chan? E’ uno strazio. Sono uno strazio. E io credo di essere malata d’amore.”

Si appoggiò pesantemente contro i cuscini, con una smorfia di dolore per la sua testa, che lamentava l’impatto. “E ci voleva proprio anche la malattia fisica. Dannazione! Non ne posso più, davvero non ne posso più.”

“Frena, frena”, la interruppe Satsu, interdetta. “Che intendi per malata d’amore?”

L’amore, la mia rovina.

 “Credo sia questo: m’innamoro sempre nel modo sbagliato, nel momento sbagliato, della persona sbagliata.” Esclamò Miyako, gesticolando per la frustrazione. “E le conseguenze sono sempre sbagliate. Ma sai qual è la cosa più triste? Che non riesco mai ad uscirne del tutto. Sto ancora vivendo le conseguenze della mia fuga sconsiderata con quel ragazzo indegno, e chissà quali conseguenze ci saranno adesso se …”

Si interruppe, e come un lampo rivide quegli occhi azzurri così strani nella mente. Il senso di colpa quasi esplose dentro di lei.

“Non è necessario che tu mi spieghi ogni cosa, se non vuoi. Te l’ho detto, non voglio forzarti.”

Non sei tu a forzarmi. Sono io a farlo, per impedirmi di dirti di sì ogni volta.

Abbassò il capo, come sconfitta, e ascoltò il ticchettio dell’orologio affisso alla parete.

“Mi dispiace tantissimo, Ken-kun.”

“Grazie e basta, Rumiko-san.”

Che incontro impari, il nostro.

Finché Satsu non le prese la mano gelida, e non la strinse. “Ha un nome, il motivo del tuo turbamento?” Le chiese, sorridendole ammiccante. “Deve essere davvero un genio, se, dopo la tua scorsa esperienza, è riuscito di nuovo a scombussolarti tanto.”

E Miyako vide, sorpresa, che Satsu non vedeva quest’angoscia come un sintomo di una malattia. Ne era quasi sollevata, sembrava appoggiarla.

Forse era la prima volta che accadeva una cosa del genere. Con lui, nessuno aveva mai approvato la sua scelta. Nessuno, tranne lui stesso, e lei.

Miyako sentì un groppo in gola quasi soffocarla, e sentì che qualcosa si era sbloccato.

Sentì che si fidava di lei.

“Ken”, disse, a voce malferma. “Si chiama Ken.”

***

Yamato non lo interruppe mai, mentre ascoltava il suo racconto.

Nemmeno quando, a disagio, gli parlò dei primi giorni in cui li spiava come un parassita, desiderando di essere come loro. Nemmeno quando, in imbarazzo profondo, balbettava del primo incontro con Hikari, del fatto che l’avesse subito fatto sentire a suo agio, quasi a casa.

Nemmeno quando Takeru fu costretto a tacere, dopo qualche frammentario tentativo di spiegargli cosa sentisse per quella ragazza, cos’avesse provato quando l’aveva vista piangere in quella stanza buia, cosa quando gli aveva raccontato dell’orfanotrofio. Nemmeno quando ammise che non sapeva cosa lo avesse spinto, in quel momento e dopo quel discorso, a parlare con Yamato.

“Credo sia questione di … ricambiare quello che hanno fatto per me”, tentò, passandosi una mano tra i capelli. “Non ho mai fatto nulla per loro, mentre loro mi vogliono bene, e mi sembra inammissibile. Credo sia questo.”

Solo allora, alzando le sopracciglia, Yamato si decise a parlare. “Se fosse così, la situazione non sarebbe diversa da quella di quest’inverno, Takeru”, replicò, appoggiando il peso della testa sulla mano. “Sarebbe solo un’altra fuga dalla tua insoddisfazione.”

Takeru sgranò gli occhi, stupefatto. Quella spiegazione lo aveva accompagnato per tutto il giorno, e gli era sembrata sensata, assolutamente priva di pecche. Non era logico cercare di ricambiare il favore, visto che ogni volta che pensava all’orfanotrofio e ai suoi abitanti provava un enorme senso di gratitudine?

Eppure, effettivamente non aveva senso. Messa così sembrava ciò che lo spingeva a seguire Daisuke nelle sue bravate: quella era una cosa che faceva solo per gratitudine nei suoi confronti, perché gli voleva bene.

Ma non poteva paragonare l’orfanotrofio, Hikari, a Daisuke. Non sarebbe tornato a Osaka se fosse stato così, non con tanto bisogno di decidere della sua vita.

Aggrottò le sopracciglia, cercando di spiegarsi. “No, non è così. E’ … “ Ripensò ai visi dei bambini, agli abbracci di Naoko ogni volta che lo vedeva, agli occhi brillanti di Hikari mentre lo osservava parlare con loro. “E’ che mi sento sempre pieno di calore, ogni volta che vado lì. Sembra quasi sul punto di scoppiare dentro di me, ad un certo punto, ma … non scoppia, resta come bloccato lì senza trovare vie di fuga. Loro non ricevono calore da me, e sarebbe bellissimo che lo facessero. Perché tutti lì mi vogliono bene … Perché voglio bene loro anche io. Sto bene con loro a prescindere della mia insoddisfazione. E vorrei che io e Hikari-chan fossimo alla pari, vorrei … donarle calore. Come lei ne dona a me.”

Tacque, agitandosi a disagio sulla sedia. Era strano, davvero strano parlare di Hikari davanti a Yamato, sentirsi così esposto nel rivelargli quei sentimenti confusi.

E attese, trepidante, un commento a ciò che sentiva mettere radici sempre più dentro di lui, ogni ora che passava.

“Beh, questo è inaspettato.” Disse infine Yamato.

Takeru sollevò il capo, cogliendo il sorrisetto di suo fratello. “Inaspettato … cosa?”

Lui alzò le spalle, mentre il sorriso si allargava. “Sei in imbarazzo.”

L’averlo messo in risalto non fece che incrementare l’imbarazzo. Takeru sbuffò, rifuggendo il suo sguardo per non mostrargli il rossore. “Piantala di prendermi in giro, lo so anch’io che è una situazione strana.”

Yamato ridacchiò, osservandolo con aria curiosa. “Io credo di aver svelato il mistero, invece.” Fece, ma non gli lasciò il tempo di chiedergli, provocatoriamente, di cosa si trattasse: alzò una mano, chiedendogli di aspettare. “Ti sei mai chiesto cosa sarebbe successo se non l’avessi vista piangere? Se non avessi saputo della crisi dell’orfanotrofio? Ti saresti interessato così tanto alla loro situazione?”

Takeru annuì, serio. Si aspettava la domanda, era stata la prima cosa a cui aveva pensato.

“Me lo sono chiesto. E mi sono risposto, anche. Esattamente non lo so: probabilmente avrei sperperato il dono che mi era stato fatto, non avrei dato importanza a Hikari-chan e agli altri. Chissà, magari non avrei aperto gli occhi su quanto mi abbiano cambiato. Eppure … quelle lacrime mi hanno mostrato una realtà tremenda: loro rischiano di chiudere tutto e di abbandonare i bambini. Chi reggerebbe un peso simile?”

E quando ebbe fissato Yamato negli occhi, pieno di forza, si rese conto di star rivelando quelle cose prima a se stesso, come se le ascoltasse per la prima volta. “Io, stanco di tutto com’ero, non ce l’avrei fatta di certo. Loro sì. E sai perché? Perché hanno scoperto la bellezza dell’amare, dell’aiutare, della vita stessa. Vedono speranza in ogni cosa che li circonda, e confidano nelle loro forze. Hanno il coraggio di osare credendo nella luce dei bambini. Non è l’invidia a farmi parlare, quando penso e dico che io avrei ceduto, perché io ho vissuto da codardo fino ad ora. Ho passato questi anni a guardare con pessimismo ciò che avevo davanti agli occhi. E ho rischiato di non vedere mai la bellezza di queste persone.”

“Il loro coraggio ti ha scosso, quindi.” Commentò l’altro, e gli sembrò che lo osservasse con occhi nuovi, pieni di consapevolezza. Gli sembrò che fosse soddisfatto.

“Sì. Mi è parso, ad un tratto, di risvegliarmi da un sogno. La mia malinconia ha rischiato di portarmi alla deriva, il mio egoismo mi ha stressato abbastanza. Voglio vivere davvero, e voglio lottare per un sogno con loro … con lei. Stare loro accanto è tutto ciò che voglio.”

Yamato gli mise una mano sulla spalla, stringendogliela pieno di calore. “Sai da quanto non desideri più qualcosa, Takeru?” Gli chiese, e il lampo d’affetto nei suoi occhi fu così contagioso che Takeru ricambiò il sorriso.

“Merito di Hikari-chan”, rispose semplicemente. Poi fece una smorfia, con aria colpevole. “Scusa per essere stato un idiota fino ad ora.”

Yamato scosse la testa, e, con suo stupore, vide il suo viso incupirsi. “Sono io a dovermi scusare con te”, ammise. “Avrei dovuto essere più presente, avrei dovuto farmi sentire più spesso. Avrei dovuto essere più chiaro nei miei consigli. Ma volevo che tu capissi da solo che strada prendere, perché se ti avessi guidato io forse non avresti trovato qualcosa in cui credere davvero.”

E, ancora più sorpreso, Takeru comprese di averlo perdonato da tanto, perché in fondo aveva sempre saputo che le cose non avrebbero potuto essere altrimenti. “Ehi, va tutto bene. Davvero.”

E gli sorrise, rassicurante, finché Yamato, incerto, non ricambiò.

“Piuttosto, cos’hai intenzione di fare con l’orfanotrofio?” Chiese infine il maggiore, versandosi ancora un po’ d’acqua nel bicchiere e sorseggiandola. “Come vuoi lottare?”

Takeru sbuffò, mettendo da parte il tovagliolo di carta. “Qui sta il punto. Non ne ho la minima idea. Certo, Hikari-chan e gli altri lavorano a turno, anche duramente, ma non basta. I bambini aumentano sempre più, le risorse diminuiscono … se mi mettessi a lavorare anche io la situazione non cambierebbe poi di molto.”

Yamato annuì, pensieroso. “Effettivamente non hai nemmeno una laurea … i lavori a cui potresti aspirare renderebbero poco.”

Eppure dev’esserci un modo. Si massaggiò le tempie, tentando disperatamente di riflettere. Era pronto a scommettere che ormai le avessero provate tutte: ragazzi come loro non si sarebbero lasciati abbattere da una sciocchezza, il problema doveva essere davvero serio. Come si poteva dare un contributo cospicuo, e al contempo crescere i bambini al meglio?

Stava ancora riflettendo disperatamente, quando il cameriere arrivò e portò via le ciotole vuote, che Takeru stava osservando con aria vacua da un po’. Distolta l’attenzione dai suoi pensieri, non fu piacevole scoprire che non era arrivato a nessuna soluzione.

“Ci vorrebbe un miracolo, Yamato. Davvero, non so che proporre.” Si arrese, alzando le spalle rassegnato. “Ci dovrò riflettere con calma. Magari nel viaggio di ritorno, o …”

“… O magari dovresti discuterne prima con Hikari e gli altri.”

Takeru lo guardò con aria vacua. “Che potrei dire loro? Non ho alcuna soluzione. Contavo di parlare con loro se avessi avuto qualcosa da suggerire, qualcosa di utile.”

Yamato stette in silenzio per qualche istante, e il minore ebbe la sensazione che chiamare ancora il cameriere e chiedere il conto fosse solo un pretesto per riflettere bene su ciò che desiderava dirgli. Fremette, in attesa.

Infine, Yamato si rilassò sulla sedia, guardandolo di sfuggita. Un sorriso storto comparve sulle sue labbra. “Non ti capisco, Takeru. Mi hai detto fino a questo momento in che modo ti senti cambiato, e ciò che potresti dire loro, con una precisione quasi totale … tranne quando parlavi di Hikari.” Disse, incurante dell’occhiata quasi stralunata del suo interlocutore. “Credi davvero di aver bisogno che io ti suggerisca il copione, quando lo conosci meglio di me?”

Fece uno strano effetto, afferrare il senso delle parole del maggiore. Come se non si fosse mai osservato a fondo, come se avesse sempre cercato le risposte altrove senza provare a leggere il suo animo, cosa vi si nascondeva all’interno.

Perché era andato a Osaka? Credeva davvero avrebbe seguito ciecamente le parole di Yamato? Credeva davvero che, per prendere una decisione, fosse necessario l’appoggio di qualcuno?

Lui, le risposte, ce le aveva già. Non c’era niente e nessuno che potesse impedirgli di seguire la strada che voleva.

Nessuno, nemmeno Yamato, avrebbe potuto dirgli cosa fare. Se anche Yamato gli avesse consigliato di abbandonare l’orfanotrofio – di non vedere più Hikari-, lui ci sarebbe tornato ugualmente. Doveva. Lo voleva.

Era solo lui a decidere, e se l’era dimenticato.

“Lo credevo”, ammise, turbato dalla coscienza di sé che aveva appena avuto. “E l’ho creduto per tanto tempo … non ricordo nemmeno da quanto.”

Un sollievo immenso lo invase, così, senza motivo. Si sentiva più libero. Si sentiva bene.

Rise. “Se non me l’avessi detto tu, chissà quanto ci avrei messo a capire. Ma hai ragione … loro si meritano sincerità, non battute prestabilite. E …”

Si interruppe, ma non per osservare il  viso di Yamato. Per ripetere tra sé, come un mantra, la fine della frase.

“E coraggio. Coraggio di trarre più bene possibile da se stessi.”

Yamato ridacchiò. “Bentornato tra noi, vecchio Takeru.”

Vecchio Takeru.

Che strano. Eppure si sentiva anche un Nuovo Takeru.

“Grazie”, fece lui, e probabilmente la sua occhiata lo ringraziava mille volte di più.

Pagarono il conto, accompagnati dalla sua emozione, da un improvviso accesso di adrenalina che rendeva irrequieti i suoi movimenti. Andarono via dal ristorante, e Takeru seppe che doveva andar via da Osaka: doveva tornare, e subito, perché doveva sistemare le cose.

Tornare da loro, dai sorrisi, da lei, da se stesso.

“Bentornato tra noi.”

Camminavano ancora, persi nei propri pensieri, finché Yamato non parlò ancora.

“Non m’illudo che resterai ancora qui”, fece, e si fermò. “Quando partirai?”

Era straordinario quanto per gli altri fosse semplice comprenderlo. Lui, e Hikari, ci riuscivano in un istante.

“Al più presto. Domani mattina, credo.” Sorrise, con aria di scusa, ma Yamato non sembrava arrabbiato. Tutt’altro: anche lui era tornato ad essere quel Yamato che conosceva, tutto d’un colpo. “Torna tu a Tokyo appena puoi, magari. Mi piacerebbe presentarti a tutti.”

Yamato gli scompigliò i capelli, e solo quando Takeru si ritrasse con un Ehi! di protesta, in imbarazzo, si ricordò che era da quando era piccolo che non vedeva più certi gesti. Troppo tempo che non siamo più bambini. “Naturale. Ci tengo a vedere quanto coraggio avrai, e quanto bene da te stesso tirerai fuori.”

Un modo come un altro, quello, per mostrargli che approvava.

Rise, alzando gli occhi al cielo, e distrattamente ne osservò l’azzurro intenso, e le nuvole che lo attraversavano. La sicurezza e la gioia rendevano tutto più speciale, più bello.

“Non per rovinarti la sorpresa, Yamato, ma posso anticiparti una cosa”, replicò. “Darò niente di più di ciò che ho. Tutto ciò che ho.”

***

“Allora, vediamo se ho capito.”

Miyako era tornata a seppellirsi quasi completamente sotto le coperte, stremata dal racconto quasi sconnesso che aveva appena finito di sciorinare. Si era sentita meglio dopo aver condiviso quel flusso confuso di pensieri e timori con la sua amica, ma adesso non era sicura di aver totalmente abbandonato la preoccupazione, non con Satsu ancora accanto al tavolino, e ancora intenta a rigirarsi tra le mani quel post-it.

“C’è un certo Ken –di cui non vuoi dirmi il cognome- che ti stressa, che pare vivere in libreria e per il quale hai sviluppato una sorta di sentimento di attrazione-repulsione”, iniziò ad enunciare la giovane dai capelli castani, con un sorriso furbo che non faceva che allargarsi mentre parlava. Miyako fece una smorfia. Disgraziata, ridi pure delle mie sofferenze. “Eppure i suoi modi ti piacciono. Ti piacciono così tanto che hai accettato di uscire con lui, cosa che, se ben ricordo, non era successa con quell’altro ragazzo … Come si chiamava?”

 “Oh … Hiroyuki”, rispose Miyako sorpresa, rendendosi conto di aver quasi dimenticato quell’episodio della sua vita, presa com’era da altro. Poi sbuffò. “Ma non c’entra nulla, Satsu-chan. Lui aveva uno sguardo che non mi piaceva, sembrava fosse sicuro che lo avrei amato alla follia.”

Satsu scosse la testa, in totale disapprovazione. “Ora sei ingiusta. Aveva solo lo sguardo di chi è cotto di te e spera di essere ricambiato da una sciocca che si ritiene malata d’amore.”

 “Io non mi ritengo malata, io lo sono. Ne ho le prove!” Replicò Miyako testarda, ma non poté contestare le parole dell’amica: in cuor suo sapeva che aveva ragione.

Se lo ricordava, Hiroyuki. Era uno studente universitario dall’aria spontanea che veniva spesso a comprare volumi nella sua libreria. E ricordava anche i suoi impacciati approcci sentimentali nei suoi confronti. Parlare con lui era piacevole, anche molto, ma Miyako non aveva mai sentito –né voluto sentire- il bisogno di approfondire il loro rapporto.

Glielo aveva detto dopo qualche tempo, il più diretta possibile: non aveva mai sopportato i luoghi comuni. Mi dispiace, e credimi, mi dispiace davvero –non mi va di impegnarmi sentimentalmente. So che dovrei darti una spiegazione plausibile, ma non ne ho … e non riesco a trovarne. Ho solo bisogno di tranquillità, adesso. E aveva persino reclinato l’offerta di provarci: da quel punto di vista era sempre stata categorica. Per lei contava tantissimo il primo approccio con la persona, e se non accadeva niente allora, il rapporto era solo d’amicizia. Non le andava di confondere la passione con il rispetto e il timore di ferire, non faceva per lei.

Da allora, Hiroyuki si era cercato un’altra libreria. E Miyako non lo aveva mai biasimato per questa scelta: lo avrebbe fatto anche lei al suo posto.

Satsu rise, esasperata. “D’accordo, come preferisci. Dicevo, hai accettato di uscire con questo Ken, cercando fino all’ultimo di reprimere il tuo desiderio di incontrarlo … Ma tu che reprimi qualcosa è un’utopia. Comunque, lui è stato carino con te, non ha preteso troppo da te, ti ha raccontato qualcosa di sé come se non aspettasse altro, e tu, tuo malgrado, ti sei resa conto di essere più aperta con lui. Mi sbaglio?”

Miyako annuì vigorosamente, mentre un’espressione sconsolata tornava ad affiorare sul suo viso. Suo malgrado. Tutto quello succedeva suo malgrado, e lei non poteva evitarlo.

“Quindi ti ha riaccompagnata a casa –solo più tardi ti saresti pentita angosciosamente di avergli mostrato dove abiti-, e prima di andare, impacciato, ti ha dato questo bigliettino ...” Satsu lo sollevò, chiaramente dimenticandosi che a quella distanza le era impossibile scorgere la grafia di Ken senza lenti, già di per sé stretta e incomprensibile. “… dove c’è il suo numero di cellulare. Ti ha invitato a chiamarlo, se avevi bisogno, per qualsiasi motivo. E ha aggiunto che non voleva avere il tuo, perché sapeva che non glielo avresti dato, e in ogni caso voleva ancora darti la possibilità di scegliere se buttare il foglio o usarlo. Tutto questo lo ha detto balbettando adorabilmente.”

Miyako sussultò, finendo per tossire selvaggiamente, e arrossì di colpo. “Ehi, non lo conosci nemmeno: come fai a dire che è adorabile?” La riprese, fulminandola con lo sguardo.

Lei, da parte sua, fece spallucce. “Non ti sei accorta di aver commentato così la scena?” Disse candidamente. Miyako sgranò gli occhi, mordendosi l’interno guancia.

“… Mi sa che hai ragione”, disse, sconvolta. Tanto presa dal suo sproloquio che nemmeno se n’era accorta, eppure lo pensava sul serio. Lo pensava ogni volta che lo vedeva imbarazzato, che era adorabile. Si seppellì sotto le coperte, con aria disperata. “Voglio morire, Satsu-chan. Perché parlo senza accorgermene?”

“Perché la Rumiko-chan che conosco lo faceva sempre. E adesso vuole dimenticarlo.”

Miyako emerse dalla coperta, interdetta. Il tono di Satsu si era fatto serio all’improvviso, inspiegabilmente: era come se in quella frase fosse racchiuso un significato più profondo.

“Dici la Rumiko-chan che conosco” ripeté lentamente, aggrottando le sopracciglia. “Come se adesso non mi conoscessi più. Io sono sempre io, lo sai. Perché-”

“Certe volte stento a riconoscerti.”

Lo aveva detto tutto d’un fiato, osservandola negli occhi quasi con solennità. A Miyako mancò il fiato, per un istante. “C-cosa?” Balbettò, incredula.

Satsu sospirò, prendendo ad attorcigliarsi una ciocca di capelli castani intorno al dito. “Non so come spiegartelo. Se fosse solo un travestimento esterno –parrucca, nome diverso, lenti e tutto il resto-, potrebbe anche starmi bene, perché è quello che vuoi. Ma tu ti nascondi anche a te stessa, Rumiko-chan, e se tu non ti riconosci più non posso certo farlo io, che non sono nella tua testa.”

Le fece male, ascoltare quelle parole. Era una persona diversa, quella che vedevano Satsu, o Iori? Era da tempo che lei sospettava di essere cambiata, forse anche troppo, ma non aveva idea che la cosa fosse certa, e visibile. D’altronde, se poteva, preferiva evitare di esaminarsi. Finiva solo per andare in confusione.

Profondamente amareggiata, si voltò verso la finestra, e sospirò. “Non l’ho mai voluto”, mormorò. “Non lo voglio neanche ora. Eppure … mi sto perdendo davvero?”

Aveva paura, paura di non sapere cosa fare. Paura di cadere nel panico, come poco prima.

“Io credo che tu ti stia ritrovando, invece.”

Smarrita, Miyako si voltò di scatto verso Satsu, e vide che sorrideva ancora. “Come sarebbe? Se poco fa hai detto il contrario …”, obiettò.

Satsu si avvicinò al suo letto, sedendosi sul materasso ai piedi del letto. “Lo so, ma questo avveniva prima di conoscere questo Ken”, fece semplicemente, e la spiazzò. “Guarda: da quando lo conosci hai ripreso ad agire d’istinto, hai accettato un appuntamento, non riesci a reprimere questo sentimento con quella razionalità che ti sei imposta di avere quando hai indossato la parrucca nera di Rumiko. A me sembra che la mia amica stia cercando disperatamente di protestare, lì dietro.”

Ansia e turbamento si agitarono violentemente dentro di lei, e la nausea la sopraffece. “Non è un bene, riprendere ad agire d’istinto”, protestò rabbiosamente, il capo chino sul copriletto e la voce incrinata. Era una bambina sciocca: se Keiji fosse stata lì con lei, in quel momento, avrebbe riso di lei. Non era matura, non era nemmeno una mamma. “Ho perso tutto, agendo d’istinto. Sono andata contro tutti per amore, e l’amore è istinto. Io non posso, io – non posso.”

“Rumiko-chan, guardami.” La costrinse a sollevare il capo, e guardarla, mentre lei tratteneva le lacrime. “Puoi convincerti di poter sopprimere alcuni lati del tuo carattere, ma non puoi. Nessuno può: tu sei quella persona, e non puoi essere nessun’altra. Non vuoi esserlo.”

“Ma l’ultima volta, io …” Tentò Miyako, tremando, ma Satsu sbuffò.

“L’ultima volta, per istinto, hai rinunciato a te stessa. Stavolta sta accadendo il contrario. Non puoi prevedere come andrà a finire, ma temere il tuo istinto è inutile, e ti ucciderà. Se provi così intensamente questo sentimento, allora vivilo: ti sfido a impedire al tuo cuore di accelerare così tanto i battiti, ma so già come finirà.”

L’amore viene ad ogni età, Iori-kun! Potresti innamorarti anche adesso! E’ per questo che devi sempre stare attento a quando verrà a farti battere il cuore.

Miyako la guardò, straziata. Ascoltarla, crederci, sarebbe stato bellissimo … ma solo lei sapeva. Sapeva che il suo cuore batteva all’impazzata, e che non poteva farci nulla. Sapeva che lei si nascondeva, che lui la cercava, e sapeva che Rumiko non era mai esistita: conosceva il suo nome, quello vero. Sapeva che non poteva credere a quelle parole.

E Satsu, all’improvviso, le prese le mani, le tolse la coperta, e cominciò a tirarla piano. “Cerca di alzarti, per favore. Ti tengo io.”

Miyako obbedì, troppo sconvolta per poter protestare, la parrucca nera che, scomposta, le cadeva sugli occhi da ogni parte. Si appoggiò all’amica mentre la conduceva verso l’estremità opposta della stanza, e la vide aprire l’armadio, e porla davanti allo specchio.

E mentre Miyako stentava ancora a capire cosa fosse successo, osservando la sua immagine provata nello specchio, vide la sua parrucca venir sfilata via di colpo.

Una cascata di capelli viola le cadde sulle spalle, prepotente, e lei si ritrasse immediatamente, voltandosi verso Satsu.

“Cosa fai? La mia parrucca …” Esclamò, tentando di riprenderla dalle sue mani. Ma Satsu la lanciò sul letto, lontana da lei, e la guardò negli occhi.

“Non puoi specchiarti con quella, Rumiko-chan.” Fece.

La rabbia la invase all’istante. “Io non voglio specchiarmi senza quella!” Strillò, e il dolore alla gola fu così intenso che tossì fino a lacrimare. Sorretta da Satsu, piegata in due, Miyako si ritrovò scossa da nuovi singhiozzi. “Non voglio guardarmi …”

Satsu la abbracciò forte. “E’ per questo che quella copertura ti sta facendo male, lo vedi? Ti scordi di avere un dovere morale verso quella ragazza dai capelli viola che tu stai soffocando. Ma guardala negli occhi, per una volta.”

“Non voglio.”

“Ti prego, provaci. Ti prego.”

Continuò a pregarla, ignorò il fatto che continuasse a scuotere la testa, e a piangere, finché Miyako non fu costretta ad accontentarla. Tremò ancora, sollevò il busto, il capo, e tentò di fissare lo sguardo sulla sua figura.

Terribilmente colpevole, gli occhi rossi e gonfi, il pigiama troppo largo, i capelli viola spettinati e pieni di nodi, questa era l’immagine che la faceva avvampare, che le dava dolore. Era questa la Miyako che non voleva vedere: dilaniata da un passato che avrebbe voluto cambiare e un presente che non riusciva a dominare.

Pianse silenziosamente, provando pietà per quella visione.

“Ti fai del male, Miyako-chan”, le sussurrò Satsu, e Miyako sussultò, non abituata a sentirsi chiamare per nome. “Ti nascondi come una ladra, e ti fai del male. Ignori i tuoi bisogni, e ti fai del male. E quest’immagine non vuoi mai vederla, perché ti vuoi illudere di star bene così, lasciando che Rumiko prenda il sopravvento. Ma se Ken è riuscito a scuotere Miyako, allora lascia che ti veda. Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.”

Miyako smise di piangere, contemplando il suo viso arrossato e sorpreso. “Non vorrai che smetta i panni di Rumiko davanti a Ken-kun”, fece.

Satsu fece un sorriso. “Non ti nascondo che lo vorrei. Ma … No, se vuoi continuare a nasconderti”, rispose, schietta. “Voglio solo che tu faccia ciò che la più vera parte di te vorrebbe. Assecondala, quando sei con Ken. E poi decidi se hai voglia di tornare ad essere Miyako in tutto e per tutto.”

Non può dire sul serio.

“Satsu-chan, no. Non posso … non voglio. Non potrei  mai pensarci.”

“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”

La domanda la colpì violentemente, e la sua immagine riflessa sembrava boccheggiare. Perché lo faceva? Per gli altri, per Ken, per se stessa …?

Se gli Ichijouji l’avessero trovata, lei non sarebbe stata incarcerata: non aveva ucciso nessuno. Non era del carcere che aveva paura. Aveva paura di se stessa, del dolore che aveva inflitto agli altri, di non avere più un posto per lei, lontana da tutti, sola col suo passato e senza un futuro, senza un figlio.

Non ne aveva il coraggio.

Eppure …

Satsu le strinse le spalle, con affetto. “Pensaci, ok? E lasciati andare.” Poi la lasciò, e per qualche miracolo Miyako trovò la forza di reggersi in piedi. “Vado un attimo in cucina, ti aiuto a mettere a posto il pranzo e tutto il resto.”

E in un attimo, c’era solo lei nello specchio. Lei e il suo sguardo diffidente.

Aveva mentito a Satsu: ci aveva pensato eccome, al presentarsi a Ken così com’era.

Sarebbe stato bello sapere se i suoi occhi azzurri avrebbero trovato qualcosa di bello in Inoue Miyako, e non solo in Miyazawa Rumiko. Sarebbe stato bello non doversi sempre fermare la parrucca coi ferretti, per far sì che nemmeno il vento più impetuoso potesse rivelare ciocche viola. Sarebbe stato bello se la sua immagine, le sue azioni, fossero state altrettanto sincere, altrettanto spontanee, com’erano l’immagine e le azioni di Ken.

Se l’avesse fatto … Se solo avesse potuto …

Miyako si voltò, sfuggendo infine al riflesso nello specchio. Barcollando, si diresse verso la scrivania, verso quel post-it. Lo prese tra le mani, lesse e rilesse quelle cifre.

“Non farti nessun tipo di problema, se vorrai … beh, se deciderai di chiamarmi. Qualunque ora andrà bene.” Così le aveva detto, inchiodandola con l’intensità della sua richiesta.

Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.

Miyako afferrò il telefono, digitò quel numero, attese. Uno squillo, due squilli. E non aveva indossato la parrucca: i suoi capelli viola erano ancora in bella vista. Dominò il panico.

“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”

Non voleva più nascondersi. Voleva donargli Miyako, voleva essere Miyako: aveva deciso, e non sarebbe più …

“Pronto?”

Trasalì, e la sua mano tremò. La voce di Ken appariva neutra, stanca, forse anche un po’ seccata. Il suo cuore prese a battere furiosamente, e la voce le sparì.

Si voltò verso lo specchio, vide la sua espressione spaventata, la sua fragilità, quei dannati capelli viola, e tutto sembrò svanire di colpo.

Non posso.

Corse a prendere la parrucca, la indossò rapidamente, respirando il più piano che poté, mentre Ken, perplesso, ripeteva: “Pronto? Chi parla?”

E quando infine si guardò allo specchio e vide Rumiko, seppe che avrebbe fatto bene a chiudere la chiamata, se le fosse importato di essere Rumiko. Lei tendeva a rinunciare ai ragazzi, come aveva fatto con quel Hiroyuki …

Rumiko avrebbe rinunciato a Ken.

Ma Miyako non chiuse.

Abbi il coraggio di difendere Inoue Miyako.

L’avrebbe difesa indirettamente, ma non aveva intenzione di rinunciarvi.

Prese un respiro profondo e parlò.    

.

Ehm. E' praticamente un secolo che non aggiorno ._.

Mi dispiace un sacco di essere mancata per così tanto tempo ^^' purtroppo, questo capitolo ha avuto una gestazione praticamente immensa, sia per il tempo che mi manca sempre di più -dannata scuola-, sia perché alcune tematiche di questa parte della storia mi riuscivano abbastanza difficili da trattare. Forse perché in questi Takeru e Miyako mi ci sono ritrovata anche fin troppo, e come loro ho avuto bisogno di crescere un po' anche io.

Piuttosto, se non fosse ben chiaro, si tratta dello stesso giorno in cui vi ho lasciati lo scorso aggiornamento -secoli fa xD-, e il prossimo ne vedrà la conclusione :) cosa ne pensate di questi nuovi rivolgimenti?

Spero di poter finire presto il prossimo capitolo :) nell'attesa, un grande saluto a tutti!

Padme Undomiel

   
 
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