Mi manchi
Era mezzanotte passata ed ero
a casa Salvatore. Ero in piedi e, per la stanchezza, continuavo a
spostare il
peso da una gamba all’altra. Fissavo la luna che splendeva
nel cielo, bella e
luminosa nella notte chiara di stelle. E pensavo alla mia vita,
riflettevo fino
a sentire dolore al cervello sul perché proprio quella vita
fosse stata data a
me.
Ma pensavo anche a un’altra
cosa…
Chi fosse passato davanti
alla finestra avrebbe visto Elena Gilbert che guardava incantata la
luna nella
speranza che tutte le persone che era stata costretta a perdere
cadessero dal
cielo. Ma non era così; non credevo nei miracoli. Un morto
è morto, non c’è
nulla da fare.
Ricordavo i giorni successivi
al sacrificio e alla fuga di Klaus: il funerale era stato molto intimo
e quasi
nessuno vi aveva partecipato. La morte di Jenna Sommers e di John
Gilbert aveva
un che di inquietante, visto che due membri della stessa travagliata
famiglia
erano morti circa alla stessa ora e nessuno sapeva la ragione. Beh,
tranne chi doveva sapere.
Decine di persone mi avevano
incontrata per caso e non avevano fatto altro che sussurrare alle mie
spalle:
“Povera Elena”, “come sarà
successo?”, “e il fratello?”,
“senza nessuno…”.
Avevo alzato la testa,
trattenuto i singhiozzi e accelerato il passo. La gente non faceva che
ricordarmi con quegli sguardi falsamente compassionevoli che non avevo
un
parente che non fosse mio fratello. E che la probabilità di
perdere anche lui
non fosse esattamente lo 0%.
Chiusi gli occhi e sbuffai,
come se quel soffio potesse contenere tutto il mio dolore e potessi
scacciarlo via
così velocemente. Come se con un semplice sbadiglio potessi
allontanare i miei
pensieri.
Dietro di me, un singulto. Mi
voltai e con passo affrettato corsi verso il divano, dove sdraiato e
senza
forze stava Damon.
Lo vidi mugolare di dolore;
sapevo che si stava trattenendo per non spaventarmi, ma era inutile.
Sentivo
grida colme di sofferenza nei miei pensieri; immagini scorrevano alla
velocità
della luce nella mia mente. Rose e le sue grida riempivano la mia
testa.
“Damon” sussurrai
all’orecchio del vampiro. Gli accarezzai il volto dolcemente,
nel vano
tentativo di infondergli tranquillità e sollievo. Con mio
stupore, forse un po’
ci riuscii.
“Elena” disse lui con una
smorfia. Per quanto stesse male non poteva fare a meno del suo solito
tono, il
che mi fece scappare un sorriso appena accennato. Vederlo
così sudato e
malaticcio, più pallido del solito e sofferente, mi
stordiva. Se lui soffriva,
mi pareva di soffrire anch’io. Forse non solo mi pareva, ma era davvero così.
“La morte fa schifo, Elena”
borbottò, tirandosi la coperta fino al mento. Batteva i
denti, come un bambino
infreddolito.
Scossi la testa: “Non stai
morendo, Damon” lo tranquillizzai. In realtà
quella frase aveva un doppio scopo:
non far perdere le speranze a lui, ma soprattutto non farle perdere a me. Sì, perché
negli ultimi tempi mi ero
resa conto quanto mi avrebbe fatto male veder andare via Damon e non
avere quel
potere per trattenerlo in vita.
Perché chi ero io contro la natura?
Semplice: io non ero nessuno.
“Elena, non mentire a te
stessa. Ma soprattutto, non mentire a me”
rispose Damon sprezzante. I miei occhi si riempivano di lacrime; non
poteva
essere lui stesso così pessimista riguardo alla sua vita.
Non poteva solamente pensare
alla possibilità di una vita separata da un confine
invisibile e intangibile,
ma allo stesso tempo così marcato e solido. Non avevo idea
di quello che c’era
dopo la morte e non ci avevo mai neanche pensato seriamente. Nemmeno
quando mi
trovavo all’interno del cerchio di fuoco di Klaus: ero
più preoccupata per
Stefan, per Jeremy e per Damon. La mia vita contava fino a un certo
punto.
“Stefan troverà una soluzione”
lo rassicurai non smettendo di accarezzare il suo volto tutto coperto
di sudore
e scosso da brividi continui.
Stefan era andato da un clan
di streghe in Inghilterra, nel tentativo di trovare una soluzione.
Speravo con
tutto il cuore che sarebbe riuscito a trovarla in tempo,
perché davvero non
avrei sopportato di perdere un amico come Damon.
“Stefan la troverà anche… ma
quando tornerà io sarò già morto
decrepito” sospirò Damon, con un tono
né
triste né contento. Avrei detto il tono di uno che si
arrende, di uno che si è
stancato di combattere. “No” dissi solamente io.
“Tu devi farcela, hai capito?
Tu devi farlo per me”
scandii bene,
obbligandolo a capire.
Lui mi fissò un attimo, poi
esplose: “Per che cosa, Elena? Per soffrire ogni nuovo giorno
che sorge? Per
vedere la donna che amo baciare mio fratello, senza nemmeno vederla
sforzarsi di
capire come io possa sentirmi in quei momenti? Dimmi per che cosa
dovrei
sopportare il resto dell’eternità che ho davanti,
quando la possibilità di
porre fine al dolore è qui davanti a me. Non la devo nemmeno
andare a cercare,
devo solamente attendere. E poi tutto finirà,
finalmente” disse rabbioso Damon.
Cosa? Aveva davvero detto che
mi amava? In un certo senso aveva detto proprio questo, anche se con
altre
dolorose parole. Faceva male, molto male. Ma aveva ragione: mi aveva
fatto
capire che me ne ero altamente fregata dei suoi sentimenti.
“Come hai detto?” chiesi
sussurrando così piano che per un attimo pensai che non mi
avesse nemmeno
sentita. Poi vidi il suo viso contrarsi in una smorfia di
disapprovazione,
scettica e di nuovo quello sguardo… arrendevole.
“Davvero lo capisci solamente
ora?” domandò urlando.
“Davvero non hai mai capito
che ti amo ti amo ti amo?” sbottò infine
esasperato.
Avevo le lacrime agli occhi e
non sapevo nemmeno bene il perché. Non ero la classica
ragazza che scoppiava in
lacrime alla prima romantica dichiarazione, anche se questa non era
proprio
definibile romantica, ed ero una che teneva duro. Non mi lasciavo mai
trasportare troppo dalle emozioni, perché quando accadeva mi
sentivo troppo
vulnerabile.
E ora là, davanti a me, Damon
in lacrime. “Scusa” sussurrò lui poi.
Afferrò la coperta e si rimise sul divano
a dormire, stanco dopo uno sforzo emotivo e fisico come quello che lo
avevo
appena involontariamente costretto a fare.
La mia mente frullava,
fondeva. Stavo pensando così intensamente sul da farsi che
sentivo male al
cervello. “Ascolta il tuo cuore” mi dissi. E mi
lasciai andare, feci quello che
sentivo che dovevo fare. Lentamente mi avvicinai al volto di Damon. Lo
vidi
leggermente disorientato, ma quando capì quali erano le mie
reali intenzioni
non esitò a venirmi incontro.
Dieci centimetri, cinque,
tre, due, uno. Zero. Dopo mesi, anni di inespresso desiderio,
finalmente le
nostre labbra si toccarono. Inizialmente fui sul punto di tornare
indietro e
l’immagine si Stefan occupò la mia mente. Damon
però non era d’accordo e cercò
avidamente la mia lingua. Con un gemito cedetti alle sue provocazioni e
mi
lasciai andare, perché in fondo sapevo che era quello che
volevo. Non avevo mai
pensato a come fosse baciare Damon. Avevo conosciuto la timidezza del
primo
bacio con Matt, la dolcezza con Stefan e mai l’audacia di
Damon. Avrei dovuto
immaginare che morto o vivo, lui era sempre pronto per questo genere di
cose.
Le nostre lingue si
toccavano, danzavano e si rincorrevano.
Ma dovevo chiedergli una
cosa: “Mi ami, Damon?”.
Aprii gli occhi in quel
momento e incontrai i suoi, bramosi di riprendere il nostro piccolo
momento di
passione. Il nostro primo momento
di
passione. “Sì che ti amo, Elena”
dichiarò lui, sicuro di sé.
“Te?” aggiunse
poi, accarezzandomi il volto.
Lo fissai intensamente,
vogliosa di comunicargli ogni mio sentimento nei suoi confronti in
tutti i modi
possibili. Perché finalmente lo avevo capito. Avevo capito
che lo amavo e che
in un certo senso avevo sempre amato lui, ma non avevo mai avuto il
coraggio di
ammetterlo. E mi vergognavo di questo, a dirla tutta.
“Sì, ti amo anch’io. Da
sempre. E ti chiedo scusa per averlo capito solo
adesso…” cominciai, ma lui mi
interruppe con un bacio.
“I discorsi seri li lasciamo
a domani. Lasciami vivere la mia ultima sera con chi ho sempre
desiderato negli
ultimi cinque mesi” sussurrò lui. E cedetti alla
sua frase, triste ma dolce,
dolorosa ma felice. Perché ero felice di aver trovato la mia
via.
*
“La soluzione
c’è, Elena”
annunciò serio Damon. Aveva lo sguardo corrucciato, cupo.
Non capivo il perché:
aveva appena trovato una soluzione ai nostri problemi.
A differenza sua, sorrisi
apertamente: “Cosa c’è da essere
così di malumore, Damon? Guarirai, abbiamo la
cura!” esclamai trionfante, contenta che Bonnie fosse
riuscita a scovare il
sistema giusto nei suoi numerosi libri di incantesimi. Eravamo insieme
da
qualche ora, ci eravamo baciati. Quella mattina lo avevo detto a
Stefan, appena
tornato dall’Inghilterra con un’importante
novità, e tutto era andato a
meraviglia, dato che lui mi aveva confessato di volere ritornare da
Katherine.
Ore prima mi sarei arrabbiata all’inverosimile, ma ora no.
Ero solamente
contenta di aver sistemato tutto per il meglio.
Non capivo però che avesse Damon.
Lo vidi sorridere appena. Lo guardai, tentando di capire cosa non
funzionasse:
“Che c’è?” chiesi sospettosa.
Non lo sentii rispondere e i
miei occhi cominciarono a inondarsi di lacrime. Perché tutto
era così triste se
poteva sopravvivere? “Damon, che c’è?
Cosa non mi stai dicendo?” chiesi in
lacrime, esasperata. Aveva paura che lo facessi soffrire ancora?
“Damon se hai paura per noi,
che non possa funzionare e tutte
cose del genere, ti giuro che non succederà.
Funzionerà. Non ti farò più
soffrire, mai più. Non potrei tollerare da parte mia un
comportamento così
crudele nei tuoi confronti!” lo tranquillizzai. Ma non ebbe
l’effetto
desiderato: anzi, tutto il contrario. Il che mi fece scoppiare a
piangere
ancora più ininterrottamente e sommessamente.
“Damon?” chiamai con un tono
stridulo.
Alzò improvvisamente lo
sguardo e vidi i suoi occhi, tristi e gelidi: “Dieci
anni” mi disse con tono
lugubre. Dieci anni? Che intendeva per dieci anni?
“Ho ancora dieci anni” chiarì
lui. La realtà fu per la prima volta qui davanti a noi,
penzolante sopra le
nostre teste. E sembrò che dirla ad alta voce avesse
permesso a Damon di
afferrarla, perché solo ora cedette alle lacrime.
“Elena, che me ne faccio di
dieci anni?” domandò in preda ai singhiozzi.
“Sono solamente dieci, e questi
schifosi 150 anni che ho già vissuto sono passati alla
velocità della luce,
nonostante abbia sofferto ogni singolo dannato giorno. Se tu prometti
di
rendermi felice, questi merdosi dieci anni passeranno ancora
più veloci di un
solo giorno” esclamò lui.
Non era possibile: allora
perché Stefan aveva chiamato quella cura una cura?
Non lo era! Dieci anni non erano una cura! Dieci anni non
erano un rimedio.
“Non c’è un’altra soluzione?
Non potresti rinnovare la cura fra dieci anni?” suggerii io,
abbracciandolo per
dargli conforto. In realtà, anch’io avevo un
estremo bisogno di sostegno.
Lo sentii scuotere la testa:
“La polvere che Stefan ha portato non è salutare
per i vampiri, ma guarisce i
morsi di lupo mannaro. In genere lo usano gli umani per guarire
più in fretta
ma noi vampiri non possiamo ingoiarne una quantità troppo
grossa, perché il
nostro corpo non riesce a smaltirla e riesce a tollerarne la presenza
solo di
una certa dose. Se ingoiassi troppa polvere, morirei sul colpo,
soffocato. In
poche parole, più polvere prendi, più vivi. Ma
visto che io non posso prenderne
tanta, vivo sì, ma per dieci anni al massimo”
spiegò Damon. Quello che mi stava
dicendo con così tanta triste e tragica
tranquillità mi faceva sentire un buco
nello stomaco. Non poteva essere. Che cavolo di cura era? In pochi
secondi
sarei esplosa, mi sarei buttata sul divano e avrei pianto, fino a
quando dai
miei occhi non sarebbe uscito il sangue.
“Elena. Dimmi, vuoi che io
viva ancora dieci anni? O vuoi porre fine a tutto ora? Il per sempre
non è più
un’alternativa. Mi dispiace” mormorò
Damon. Era incredibile come riuscisse a
nascondere la sua paura, il suo dolore. Perché ero certa che
ne fosse invaso.
Riflettei attentamente.
“Scelgo i dieci anni. Saranno i dieci anni più
belli della nostra vita, faremo
in modo che siano così. Non baderemo al tempo che passa. E
quando arriverà il
giorno, beh… se non c’è
un’alternativa…” sussurrai.
“No. Non esiste” spiegò
tristemente lui.
“Allora…” proseguii ma le
parole mi morirono in gola, troppo terrorizzata dal seguito della
frase. Come
si poteva chiedere a una persona di scegliere fra dieci anni di
felicità, in
cui si rischiava di innamorarsi ancora di più, oppure di
porre fine a tutto
all’istante.
“… morirò” concluse lui per
me.
Ci guardammo negli occhi e ci
abbracciammo, bagnandoci le rispettive maglie di lacrime amare.
*
Fissai Damon che mi guardava
con la tipica occhiata di chi sta sulle spine: “Allora,
Elena?” domandò
nervoso. Abbassai lo sguardo, non sapendo neanche da dove cominciare.
“Elena, lo sai che ho gli
anni contati?” mi informò con pessima ironia lui.
Gli lanciai un’occhiataccia
per fargli capire quanto poco avevo apprezzato quella battuta.
“Cattiva,
scusami. Ma davvero, che succede? È tutto il giorno che mi
guardi in questo
modo come se tu mi volessi dire qualcosa ma non hai il coraggio
sufficiente per
farlo. Non ti mangerò, qualsiasi cosa sia”
parlò rapidamente Damon.
Mi decisi finalmente a
spiccicare una parola: “Io…”. Avevo
cominciato, ora dovevo andare avanti.
Forza, Elena! “Io… sono incinta,
Damon” confessai.
Chiusi gli occhi preparandomi
a tutto il possibile immaginabile: divani rovesciati, tavolini
dall’altra parte
del salotto, sacche si sangue spalmate sulle pareti. Ma, contro le mie
aspettative, solamente uno scettico ma leggermente entusiasta:
“che cosa?”.
Annuii leggermente: “Sono
incinta” ripetei.
Vidi il suo volto cambiare
espressione ogni cinque millesimi di secondo. Infine sembrò
optare per quella contenta:
“Elena! È meraviglioso!”
strillò, correndo verso di me abbracciandomi.
“Lo so!” risposi io urlando,
saltellando come una bambina.
Ci ritrovammo con i volti
vicinissimi. In quel momento vidi balenare un lampo di luce sinistro
nei suoi
occhi e capii a cosa stava pensando: i nostri figli avrebbero visto il
padre
solo per meno di dieci anni. E poi fine, nessuna possibilità
di rivederlo. Se
non attraverso una lapide.
“Non dobbiamo abbatterci per
questo” sussurrai, nel tentativo di consolarlo.
“No, non dobbiamo” concordò
lui con un sospiro. Si staccò da me e si lasciò
cadere sul divano, sconsolato
dalla piega che quel momento aveva preso.
*
Erano nate le due bambine
gemelle più belle del mondo. Avevamo deciso di chiamarle
Lily e Jenna. Lily
semplicemente perché ci piaceva molto come nome: era dolce,
semplice e breve.
Jenna, invece, in memoria della mia amata zia, morta con onore durante
il
sacrificio per Klaus: aveva cercato di salvare la situazione, senza
successo,
ma ci aveva provato.
Stefan era diventato il
padrino di entrambe e Katherine la loro madrina. Su di lei non ero
d’accordo,
inizialmente, ma quando mi garantì che avrebbe svolto il suo
compito con
dignità e lo avrebbe preso sul serio, acconsentii.
Gli anni passarono alla
velocità della luce, come Damon aveva previsto. La giornata
maledetta incombeva
su di noi: ogni giorno che passava, significava un giorno in meno da
vivere per
Damon. Alcune volte ignoravamo la dura verità
perché con le nostre bambine ci
divertivamo troppo, altre volte non potevamo fare a meno di volgerle il
pensiero anche solamente per un secondo.
“Jenna!” urlai io un giorno,
abbracciando la bimba che era appena tornata da scuola. A suo seguito
arrivò Lily,
che corse incontro al papà. Lei era particolarmente legata a
Damon, il quale
sapeva perfettamente che questo legame aveva lati sia positivi che
negativi. Quando
lui sarebbe morto, Lily sarebbe stata malissimo per molto tempo. Si
sarebbe
depressa, probabilmente.
“Com’è andata a scuola?”
domandò Damon, facendo salire Lily sulle sue spalle. Si
divertiva un mondo ad
aggrovigliarsi sulla schiena del papà.
“Bene! Abbiamo preso tutte e
due ottimo della verifica di matematica!” urlarono in coro le
due. Erano belle,
intelligenti e piccole donne in tutto e per tutto. Avevano gli occhi di
Damon e
i miei capelli. Lily aveva il dono di averli mossi, come quelli di
Katherine,
ed era stupenda.
“Bravissime!” urlammo in coro
io e Damon.
Poi ci abbracciammo tutti
quanti, come un’unica e inseparabile famiglia.
Perché quei momenti dovevamo
goderli fino in fondo, finché sarebbero durati.
*
Il giorno era arrivato: Damon
sarebbe morto da un momento all’altro. Le bambine erano
andate a scuola non
molto tranquille: avevano visto di sfuggita il braccio del
papà che aveva
ricominciato a pulsare e a tingersi di rosso.
“Cos’è, papà?”
aveva
domandato preoccupata Lily.
“Nulla, tesoro” aveva risposto
Damon, tirando velocemente giù la manica della camicia nera.
Poi aveva parlato
con entrambe; voleva che lo vedessero per l’ultima volta con
un aspetto sano il
più possibile. “Promettetemi che farete le brave
sempre. Non farete arrabbiare
la mamma e le vorrete bene in ogni momento. Non deludetela e non fate
cose
stupide. E promettetemi che lotterete per realizzare i vostri sogni e
per
essere felici, chiaro?” aveva detto Damon.
Le bimbe avevano annuito ad
ogni frase che il papà aveva detto. Dopo il suo lungo
discorso avevano
solennemente detto in coro: “Promesso”. Lui aveva
sorriso e le aveva
abbracciate forte. Quando furono uscite, lasciò una lettera
a ciascuna di loro.
Le diede a me, in modo che io potessi darle loro quando sarebbero
cresciute. E
lasciò un orso di peluche a ognuna, teneramente sepolto fino
al collo sotto le coperte
del letto.
“Mi mancherai” sussurrai,
quando ormai mancava poco.
“Anche te. Ti aspetto, un
giorno ci ritroveremo” rispose lui baciandomi la fronte.
“Promettimi che anche
tu farai la brava. E che aiuterai le nostre piccole, ok?”
disse lui.
Annuii: “Promesso”.
“Ti amerò per sempre”
sussurrò, baciandomi per l’ultima volta.
“Anch’io” risposi.
Poi sentii
la presa della sua mano affievolirsi e poi capii che non
c’era più,
davvero. Se ne era andato. Questa volta per sempre. E io sentii per la
prima volta
di non potermi opporre a ciò che è già
scritto.
*
“Venite. Jenna,
Lily” chiamai
io. Avevamo comprato il giorno prima degli eleganti vestiti neri, in
occasione
di quel giorno.
“Mamma, dov’è il cimitero?”
chiese Lily. Era normale che lo chiedesse, visto che avevo sempre con
cura
evitato che entrassero in quel luogo, per la tristezza e i ricordi che
conteneva.
“Da questa parte” risposi io
solamente. Non avevo la forza di aggiungere altro. Afferrai il mazzo di
fiori
che avevo comprato il giorno prima e avevo appoggiato davanti allo
specchio
nell’ingresso della casa dove ormai vivevo da anni. La stessa
casa che io e
Damon avevamo comprato quindici anni fa. Erano passati cinque anni
dalla sua
morte.
Camminammo lente e non usammo
la macchina. Ci dovevamo preparare a quel luogo e arrivarci troppo in
fretta
non sarebbe stato d’aiuto.
Dopo una mezz’ora di
camminata arrivammo al cimitero; spinsi il cancello in ferro battuto
che cigolò
sinistramente. Lily e Jenna si scambiarono uno sguardo ansioso, ma io
proseguii
decisa per infondere loro coraggio.
Le vidi seguirmi anche se leggermente
indugianti. Percorsi altri dieci metri e svoltai a sinistra e la vidi:
la tomba
dove Damon era stato sepolto.
“Papà” sussurrò Lily,
sorpresa e triste alla vista della sua foto migliore. Sentii la sua
voce
incrinarsi leggermente, come se le lacrime stessero per esplodere.
Udire il singhiozzare delle
mie, delle nostre figlie fece
cedere
pure me: scoppiai in un pianto di nostalgia, di dolore e che mi fece
inevitabilmente ricordare quanto la vita fosse più dura,
vuota senza Damon
Salvatore. E il sentimento peggiore che mi assaliva era il senso di
colpa:
forse se non avessi aspettato così a lungo per ammettere il
mio amore per lui
tutto questo non sarebbe successo. Sicuramente se io non fossi quella
che sono,
Damon Salvatore non sarebbe mai morto e continuerebbe a vivere la sua
eternità
nel migliore dei modi. Probabilmente avrebbe trovato un’altra
donna che lo
avrebbe meritato davvero, non come me. O l’altra
possibilità è che avrebbe
vissuto di strip club e spogliarelliste. Damon era imprevedibile,
pensai con
tristezza.
Nonostante tutto, però, io lo
amavo. Lo avevo amato e, per come potevo, lo amavo ancora.
Perché quando perdi
una persona provi un dolore pulsante al cuore, come una ferita che non
smette
mai di bruciare. E poi, quando finalmente riesci a trovare la
felicità che
allieva il taglio, si cicatrizza, lasciando per sempre un segno della
tua
sofferenza nel cuore. La felicità l’avevo trovata
in Lily e in Jenna. Loro avevano
cicatrizzato la mia ferita che, nonostante tutto, a volte ritornava ad
aprirsi.
Potevo solamente dire che i
dieci anni d’amore che Damon mi aveva regalato erano stati i
più luminosi che avessi
mai vissuto. Aveva dato alla luce insieme a me due gemelle belle come
lui che
amavo da impazzire, mi aveva fatto dimenticare persino che avevamo gli
anni
contati. Lui proseguiva il suo conto alla rovescia, io invecchiavo,
così un
giorno lo avrei raggiunto sotto terra.
La vita è dura, lo sanno
tutti. Eppure io mi chiedevo: perché a me tutto questo? Non
lo sapevo, sapevo
solo che la felicità nel dolore si trova nelle cose
più visibili della tua
vita, così chiare e presenti che a volte non ci fai nemmeno
caso. Guardavo le
nostre figlie e vedevo lui.
Fissai l’incisione sulla sua
lapide e vidi lui.
Vidi lui e vidi Lily e Jenna.
Vidi un amore che aveva creato
magie che non cessarono mai di vivere.
Tirai fuori dalla tasca la
lettera che avevo scritto in modo simbolico e l’appoggiai
accanto al mazzo di
fiori. Jenna lasciò una rosa e Lily baciò
semplicemente la foto del padre. Notai
che una lacrima la bagnò.
Mi commossi talmente tanto
che le abbracciai, tirandole indietro per allontanarle da
là. Diedi l’ultima
occhiata alla tomba e mandai un bacio con la mano. “Ti amo,
Damon” sussurrai
impercettibilmente.
*
Sono passati
quarant’anni;
sono Lily Salvatore e sto fissando il mio riflesso nello specchio da
ore. Ho
due enormi occhi azzurro chiaro, la pelle pallida e i capelli castano
scuro e
mossi. Finisco di guardare la me nel vetro e abbasso lo sguardo sulle
mie mani.
Comincio a fissarle insistentemente, come se volessi distinguere ogni
cellula
l’una dall’altra.
Mia sorella Jenna non è qui a
Mystic Falls; ha trovato un lavoro ottimo in Europa. È
diventata una
ricercatrice contro il cancro.
Sospiro e afferro una lettera
che il giorno prima ho scritto per papà: sono passati
quarant’anni dalla sua
morte e voglio essere lì vicino a lui. So che non
può sentirmi, non può
percepire la mia presenza, non ha la minima forza per captare il mio
odore e il
mio respiro. E, probabilmente, non può nemmeno udire i miei
singhiozzi.
Vado a piedi verso il
cimitero passando per la strada principale, quella dove ogni giorno
centinaia
di macchine passano e ignorano quanto per altre sconosciute persone
può essere
triste passeggiare lungo quel viale.
Papà,
mi manchi. Tanto. Io e
Jenna pensiamo tutti i giorni a te, a come sarebbe con te intorno.
Perché se tu
fossi intorno a noi, siamo certe che ci sarebbe anche la mamma.
Se n’è andata qualche
anno fa; era malata, oltre che molto triste per la tua mancanza. Ma sai
una
cosa, papà? Lei ci ha raccontato perché ora non
sei qui con noi. Sappiamo che
avevi tutte le buone intenzioni del mondo, volevi semplicemente aiutare
Tyler
Lockwood e ci sei riuscito, ma a un caro prezzo.
Papà, non hai idea cosa
significhi per noi la lontananza da te. Siamo grandi, cresciute e siamo
entrambe sposate. Ma non hai nemmeno idea di cosa significhi per noi
che tu sei
morto per aiutare il prossimo, quando sapevi sin dall’inizio
che era rischioso.
Papà, non sei un
codardo. Ricordo che i dieci anni che ti sono stati concessi dalla cura
sono
volati nella più grande serenità possibile, e io
non avevo la minima idea di
quello che c’era dietro l’angolo ad aspettarci.
Sei stato il migliore
papà del mondo, ci tengo a dirtelo perché sei
riuscito a darmi i più bei dieci
anni della mia vita. Grazie papà.
Jenna è diventata una
ricercatrice contro il cancro. Lei non mi dice il perché, ma
penso che lei
voglia aiutare le persone che per una malattia muoiono impotenti,
lasciando
famiglia e figli soli. Non esistono casi come te, papà.
Nessuno è mai morto per
un morso di licantropo dopo dieci anni che era successo. Sappiamo cosa
si prova
a perdere qualcuno e non potere fare niente per fermarlo. E sappiamo
anche cosa
significhi avere le ore contate.
Non meriti questo, papà.
Io sono una casalinga.
Ho due figli: Damon e John. Lo zio John ha salvato la vita di mamma e a
me e a Jacob
sembrava un’idea carina ricordarlo. E ricordare te,
soprattutto.
Jacob è il figlio di
Tyler e Caroline Lockwood. A dir la verità, è
stato Tyler ad insistere che
chiamassimo nostro figlio Damon. ti è eternamente
riconoscente, papà. Si prende
cura di me e di Jenna, quando è a casa, in un modo che non
hai idea.
Sono bravissimi i tuoi
nipoti: belli, con i tuoi stessi occhi, e intelligenti. Mi chiedono
spesso di
te e io rispondo che un giorno verranno qui e parleranno con te,
leggendo i
ricordi di Elena e i miei nelle nostre lettere. E loro ne lasceranno
una, e
andrà avanti così all’infinito.
Jenna ha una figlia
sulla sedie a rotelle. Si chiama Elena. È dolcissima, vorrei
tanto che la
conoscessi. Mi ha dato il suo orsacchiotto di peluche da lasciarti qui.
Voleva
che il nonno avesse qualcosa di lei.
Ora vado, papà.
Grazie per esserci
stato, grazie per avermi regalato quei momenti stupendi passati
assieme.
Grazie
Con affetto
Lily
Sento che lui può
sentirmi.
Sento che lui sa tutto di me.
Per la prima volta con quella
consapevolezza mi allontano, asciugandomi le lacrime, pronta a
raccontare la
storia di nonno Damon ai miei figli, in modo che l’uomo
più altruista che abbia
mai conosciuto possa essere ricordato. Per sempre.
Angolino
della Matta Fra
Ciao
gente!Non esiste una cura al lupo mannaro e si sa. Ora sappiamo che non è proprio così, ma questo è un finale alternativo. Tragico e molto drammatico.
Ma finalmente avrò una delle mie tante storie pazze “completa”! Così forse tornerò ad aggiornare il mio pazzo crossover Please Come Back e continuerò ovviamente con I Feel You . Vi segnalo anche la mia raccolta di pazze OS Delena, per chi avesse voglia di ridere. Qui: ♥Damon&Elena♥.
Presto tornerò ad aggiornare tutto, abbiate pazienza: sono gli ultimi giorni e devo darci dentro.
Ora vi lascio, spero che questa cacchetta che ho scritto vi piaccia! L’obiettivo che spero di raggiungere è quello di creare tanti nuovi fiumi di acqua salata. Io stessa mentre scrivevo la letterina di Lily ho pianto come una scema… detto questo,
Bacioni e recensite in tante!