Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: _Shantel    20/05/2011    15 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Buonasera a tutti!
Il pensiero di tutti in questo momento sarà: ma questa ha due storie da portare avanti e una raccolta ed è ancora qui a rompere le scatole? Ebbene sì.
Ma questa volta non sono da sola. E no miei cari e mie care. Questa storia non è nata solo dalla mia immaginazione, ma anche da quella della mia adorata Marty, ossia IoNarrante. Infatti è una storia scritta a quattro mani. Avevamo in progetto di scrivere qualcosa insieme, abbiamo scoperto di essere complementari come gli angoli. Quindi è nata questa storia spensierata e senza pretese, se non quella di strapparvi qualche sorriso.
Eccomi! Beh, sinceramente sono io che ho traviato quella poveraccia di Manu per questa storielluccia senza pretese, però quando due menti pazzerelle come le nostre entrano in contatto, il risultato può essere solo che un’immensa, gigantesca, esplosione nucleare!
Sarà dal punto di vista dei due protagonisti. Leonardo è affidato alla cara Martina, mente io mi occuperò di Celeste.



CAPITOLO 1
Come in un sogno



Il boato della folla era inebriante e talmente potente da ovattare qualsiasi altro suono raggiungesse il mio udito. C’era un tempo in cui gli uomini morivano in questi stadi, solo per l’intrattenimento del popolo, uccidevano e squartavano per udire le grida della gente perché sentirsi acclamati in quella maniera era quasi come essere considerati dei.
Quegli uomini erano gladiatori ed io mi sentivo uno di essi.
In tutt’altro luogo e quasi duemila anni dopo, non era cambiato nulla. Le grida di adorazione e di rispetto, il sangue e l’anima che veniva data sul campo, e ogni singola partita che segnava la vita anche del più lontano spettatore.
Questo era il calcio e quello era il mio mondo.
Davanti a me c’era la porta e nient’altro. Riuscivo a vedere solamente i pali verniciati di bianco e la rete alle spalle del portiere.
Eravamo sul risultato di parità ormai da 85 minuti. Entrambe le squadre avevano tentato più volte di andare in vantaggio, ma per bravura o per semplice culo, nessuno aveva ancora segnato un goal, facendo innervosire tremendamente i tifosi.
I cori della Sud si facevano sentire, mentre il Capo Ultras incitava il popolo giallorosso a sostenere a gran voce la sua squadra, e i tamburi battevano violenti creando un rombo di suoni simile a quello di un campo di battaglia.
Ormai il mister continuava a darci istruzioni confuse, mentre l’intera squadra aveva quasi perso la speranza di riuscire a vincere quella dannata partita che avrebbe risollevato, almeno in parte, l’andazzo della classifica. All’ottantaseiesimo, Marco era scattato sulla fascia destra, riuscendo a smarcarsi quasi tutti gli avversari, per poi passarla a Francesco. Il Capitano era avanzato palla al piede, mentre io mi ero subito proposto correndo verso il centro dell’area avversaria, ma la difesa del Napoli si era subito schierata come un muro di cinta davanti a noi.
Cercai di sbracciarmi pur di ottenere l’attenzione del nostro capitano, ma ero coperto e non voleva sprecare un’occasione. Cazzo! Ero il capocannoniere del campionato e ancora non si fidava a lasciarmi fare?
Se avessimo pareggiato la partita miseramente, sapevo a chi dare la colpa. D’altronde, ogni volta che avevamo perso una partita, il mister non mi aveva fatto giocare ed io avevo preso quel segnale come un avvertimento del destino.
Leonardo Sogno stabiliva le sorti della partita.
Alla fine, Francesco Totti aveva optato per passare la palla nuovamente a Marco che era scattato sulla fascia destra come un fulmine. Intercettato il passaggio, però, subito Cannavaro gli fu addosso, e la nostra ala destra fu costretta a ripiegare verso l’interno, cercando un fallo al limite dell’area.
Intanto ero scattato al centro, quasi tra le braccia del portiere, in modo da aspettare un cross che mi avrebbe permesso di sfruttare i miei 185 centimetri per provare un colpo di testa da maestro, ma Marco non aveva spazio libero per tirare. Gli restava un’unica soluzione.
Palla al piede, cominciò a correre verso l’area, dribblando il difensore, ma ben presto fu fermato da un intervento piuttosto duro da parte di un interno destro e l’arbitro fischiò.
Il boato di disapprovazione del pubblico fece quasi tremare lo stadio Olimpico ed io scattai subito in direzione del guardalinee per dirgliene quattro.
«È il quarto fallo che fa quel coglione!» ringhiai, seguito dai miei compagni di squadra.
«Ammoniscilo, che aspetti?» si aggiunse Daniele, spuntandomi dalle spalle.
«Se non indietreggiate, il giallo lo do a voi» minacciò quello in risposta e, immediatamente, arretrammo con le braccia alzate.
L’arbitro, intanto, comunicava col quarto uomo e si consultava anche con gli altri. Avevo il cuore che batteva a mille ed era come se sapessi che da quell’intervento dipendessero le sorti della partita.
Alla fine indicò il centro dell’area e quel gesto voleva dire solo una cosa: rigore.
«Lo batto io!» gridai subito, correndo incontro al pallone. Era da secoli che volevo farlo, ma nessuno aveva mai rubato il posto che spettava di diritto al Capitano.
Totti mi guardò con aria di superiorità, pensando ‘guarda questo ragazzino che puzza ancora di latte’, ma a me non me ne fregava un cazzo, volevo battere quel dannato rigore e lo avrei fatto, anche a costo di giocarmi la panchina.
«Allora?» ci domandò l’arbitro, sperando di velocizzare i tempi.
Mancavano due minuti al novantesimo e il quarto uomo ci guardava con insistenza. A quel punto presi il pallone direttamente dalle mani dell’arbitro e lo posizionai sul dischetto. C’erano solo undici metri a dividermi dalla gloria.
Sapevo di aver esagerato comportandomi in quel modo irrispettoso nei confronti del Capitano, ma poco me ne importava. Ormai lui era finito. Aveva avuto una carriera invidiabile ma adesso era il mio momento e non avrei permesso a nessuno di mettersi in mezzo.
Ora la folla era in trepida attesa. I rumori intorno a me cominciarono a divenire man mano più soffusi, insieme alle voci dei miei compagni che si spintonavano con gli avversari per arrivare prima sulla respinta del portiere, nel caso avessi sbagliato.
Tu non sbaglierai, mi dissi auto-convincendomi. Sei Leonardo Sogno, il calciatore più forte e più bello che l’intero calcio italiano abbia mai avuto, sei un astro nascente, un fiore all’occhiello che tutti gli osservatori hanno già preso in considerazione per i club più importanti. Devi solo segnare.. va e fai goal, cazzo!
Presi un bel respiro e cercai di immaginarmi nell’antica Roma, indossando un’armatura e brandendo una spada. Ero un gladiatore: il portiere era il mio avversario, la palla era l’arma con cui avrei potuto ucciderlo, mentre il mio sinistro era direttamente la mano di Dio.
La folla gridava a gran voce il mio nome, urlando slogan e cori che soltanto il più acclamato degli imperatori avrebbe potuto udire ed io percepivo nelle mie mani un potere immenso. Ogni uomo avrebbe dato tutto pur di potermi stringere la mano, ogni ragazzo avrebbe avuto più rispetto dagli altri se fosse riuscito a farsi fare una foto in mia compagnia e le ragazze, beh, ognuna di loro sarebbe andata contro ogni principio pur di passare anche solo una notte con me.
Mi trovavo faccia a faccia con il portiere, di cui non ricordavo nemmeno il nome, ma tanto non m’importava perché di lì a pochi secondi sarebbe passato dalla Serie A al campetto di calcio di Scampia.
Il tempo ormai si era dilatato, diventando quasi un concetto astratto. Avrei potuto tirare di collo pieno, sulla destra, oppure di piatto a sinistra, spiazzando il portiere. Il cucchiaio non lo avrei mai fatto, non potevo sfidare ancor più la sorte con il Capitano, ma la tentazione di incitare maggiormente il pubblico era troppo allettante.
I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli
Seguendo gli insegnamenti del ‘Pibe de Oro’, inspirai profondamente e presi la rincorsa per poi guardare negli occhi l’avversario che avevo davanti. Mi sembrò che tutto accadesse a rallentatore, quasi come se avessero legalizzato la moviola in campo.
I compagni cominciarono a spingersi nel momento esatto in cui iniziai a correre verso la palla, mentre il portiere allargò le braccia, pronto ad accogliere la mia cannonata. Puntai il piede sinistro sul terreno, affondando i tacchetti nell’erba del campo, poi alzai la gamba e la fermai a mezz’aria, caricando il colpo. I muscoli erano tesi e la tensione al massimo.
Abbassai la destra e arcuai il piede, facendo aderire perfettamente la linguetta degli scarpini alla semisfera del pallone dell’Olimpico. Collo pieno, l’avrei spiazzato.
Una volta che lasciai partire il colpo, il mio sguardo andò fisso verso il punto tra l’incrocio dei pali che avevo scelto per piazzare quella bomba. Avrei dovuto soltanto attendere, mentre il battito del mio cuore era l’unica cosa che riuscivo ad udire nelle mie orecchie ormai completamente isolate dal resto del mondo.
Il portiere, però, con uno slancio improvviso, riuscì ad intuire la direzione del colpo, smanacciando nel tentativo di deviare il mio destro. Forse per semplice fortuna o per la mia convinzione che mi diceva di essere, in qualche modo, guidato da qualche entità superiore, la palla passò proprio tra le braccia del portiere, bucando la sua presa, e s’infranse nella rete.
Il boato della folla che seguì le mie gesta fu assordante, soprattutto perché riacquistai i sensi in quel preciso istante. Trombe, tamburi, sbandieratori, tutti i tifosi si ammassarono sulle scale per scendere verso le palizzate di plastica che li separavano dal campo ed erano tutti per me.
A quel punto afferrai il pallone e cominciai a correre in direzione della mia curva, mentre i miei compagni cercavano in tutti i modi di placcarmi per un abbraccio di gruppo. Volevo condividere la mia felicità con tutti, ma le urla dei tifosi erano il mio carburante, la benzina che mi permetteva di correre.
‘Pittore! Pittore! Pittore!’ gridavano inferociti, tamburellando ferocemente contro la plastica mentre gli stewart cercavano di assicurarsi che ne uscissi incolume.
«E con il numero 23» gracchiò la voce dell’altoparlante. «Il nuovo bomber della Magica, capo classifica dei cannonieri con 15 goal, prossimo sulla lista per vincere il pallone d’oro, Leonardo...Pittore».
«SOGNO!» la folla sbraitò in risposta.
«Leonardo...».
«SOGNO!».
Ed io, preso dall’euforia del momento, presi il pallone che tenevo ancora stretto nelle mani per poi stendere il braccio e tenerlo teso davanti a me, mentre con la destra imitavo il gesto di un pittore, dando pennellate sulla palla.
Perché io ero nato per quel mondo, per far impazzire la folla e per essere adorato. Sapevo dribblare, tirare, marcare e mi reputavano un genio del calcio. Ovviamente il mio soprannome non poteva che essere attribuito ad uno dei più grandi italiani di tutti i tempi: Leonardo Da Vinci.





Esistono un numero imprecisato di dubbi senza risposta che affliggono la mente umana. Cos'è la vita? Qual è il suo senso? Dio esiste o è solo un'invenzione dell'uomo per colmare la paura dell'irrazionale? Gli uomini cosa trovano di così divertente nel seguire una partita di calcio?
Ebbene, quelle erano le domande a cui non riuscivo proprio a trovare una risposta, soprattutto l'ultima era un dubbio esistenziale che martellava nella mia testa in cerca di una spiegazione che non avrei trovato nemmeno tra un milione di anni.
Era più forte di me, non riuscivo a trovare nulla di stimolante in 22 imbecilli con i bermuda che rincorrevano come rinoceronti impazziti una palla rotolante con l'unico scopo di metterla in rete. E per giunta prendevano un sacco di soldi, qualcosa come milioni e milioni di euro per non lavorare e farsi Veline e Letterine della tv alla ricerca del gossip. Invece di correre su un prato verde e spintonarsi per una palla, avrebbero fatto meglio a tornare sui banchi di scuola, almeno per imparare i verbi ausiliari e riuscire a formulare una frase di senso compiuto. Le rare volte che vedevo le interviste dei calciatori, le mie povere orecchie da studentessa di lettere sanguinavano per i tentativi di omicidio nei confronti della povera lingua italiana.
Non sopportavo il calcio, né tanto meno i calciatori e maledicevo quando la mattina mi svegliavo e realizzavo che era domenica. Questo significava, oltre a noia totale per la mancanza di negozi aperti, una stupida partita di pallone. L'immagine del mio coinquilino Romeo, che del romantico protagonista di Shakespeare aveva solo il nome, sbracato sul divano con birra alla mano e urla da cornacchia assatanata, era ben peggiore di una scena di un terribile film horror. Da semplice ragazzo sfigato e smidollato, si trasformava in una specie di animale quando vedeva la Roma in televisione, un babbuino in cattività che saltava da una parte all'altra della stanza, sbraitando contro il televisore come se, quelli dall'altra parte, potessero sentirlo. Ogni santissima domenica maledicevo il giorno in cui avevo accettato di fare l'abbonamento con Sky per lo sport. Mi ero lasciata abbindolare dagli occhioni verdi di Romeo. Però, in fondo, se lo meritava, con tutto quello che doveva affrontare una volta messo piede fuori casa. Di certo non passava inosservato, con quei capelli posticci e rossi.
Ero intenta a scrivere sul mio Acer portatile il mio primo romanzo d'amore, fatto di sogni e principi azzurri inesistenti, senza però la minima speranza di vederlo un giorno pubblicato, se non su un sito di fan fiction, seduta al tavolo in soggiorno con l'irritante voce di Federica Panicucci in sottofondo. Odiavo la televisione, la trovavo trash e assolutamente ignorante, fatta di frivolezze distorcenti per le poveri menti adolescenziali, ma avevo bisogno di sentire qualcuno parlare, chiunque fosse, sennò mi prendeva l'angoscia della solitudine. Per cui mi accontentavo anche della stupidità di quel talk show.
Romeo mi sfrecciò accanto, indossando una maglietta rossa dai brodi gialli con un Totti scritto sulle spalle, reggendo in una mano una bottiglia di birra e nell'altra una specie di trombetta, ricordo dei mondiali. Si sbracò sul divano e senza chiedere nulla, cambiò canale, fermandosi sulla partita Roma-Napoli che stava per consumarsi sotto i suoi occhi.
Sbuffai, appoggiando il mento sulle mani. Non sapevo se essere felice perché Romeo mi aveva salvata da Domenica Cinque o dannarmi per l'ennesima partita di calcio.
«Alza in cielo la bandiera» cominciò a sbraitare come un corvo spennato Romeo, battendo ritmicamente le mani sulle cosce «e grida forte as Roma vinci insieme a noi. Per innamorarsi ancora sosterrò sempre la mia Roma, lo sai perché, tutta la mia vita è giallorossa...»
«Robbeo!» esplosi d'improvviso «Puoi smetterla di cantare?! E già abbastanza subirsi 22 deficienti che corrono, il tuo incitamento è inutile!»
Romeo, al secolo Robbeo, fusione tra il suo nome e il dolce epiteto babbeo, una specie di ibrido tra Pippicalzelunghe e un gabinetto ecologico, mi guardò di traverso, zittendosi.
Guardai il cielo, ringraziandolo per quel momento di pace, distrutto però dai cori da stadio e dai tamburi che emetteva la televisione. Strinsi i pugni, respirando a fondo e mettendo in pratica quelle poche lezioni di yoga che avevo frequentato qualche mese prima, ma che avevo abbandonato dopo poco per la noia totale di quel corso e per le contorsioni che doveva subire il mio corpo ben poco elastico.
Presi a digitare velocemente i tasti, vedendo le parole nere nascere sul foglio bianco di Word e venendo catturata da esse in un momento di pura ispirazione estatica. Vedevo i miei personaggi materializzarsi davanti ai miei occhi, con le loro emozioni che mi trascinavano in quel mondo utopico e a dir poco fantasioso. Mi sembrava di far parte io stessa della storia, potevo sentire le loro voci e i loro dialoghi sovrastare il fracasso della televisione. Le parole e la fantasia erano il mio rifugio, il mio modo di vedere l'amore, ancora stilizzato, ancora con quell'ingenuità con cui lo vedevo da adolescente, etereo e romantico. Tutto il contrario di quello che era in realtà e la colpa era degli uomini. Loro avevano rovinato l'amore, usandolo solo come pretesto per portarsi a letto qualsiasi ragazza. Avevo imparato a capire che il Ti amo detto da un uomo voleva dire O me la dai o ti mollo. Peccato che l'avevo compreso un po' troppo tardi. Certo, non tutti gli uomini erano decerebrati, alcuni si distinguevano, come Robbeo. Ma lui era un caso problematico. Privo di qualsiasi coraggio attribuibile ad un principe azzurro, ormai era diventato il mio peluche personale, da coccolare e proteggere.
E poi c'era lui, J, bello quanto inarrivabile per una come me, nei confronti del quale nutrivo solo una smisurata cotta silente.
«No!» urlò disperato Romeo, inginocchiandosi e sbattendo la testa contro il pavimento.
Il suo sbraitare mi distolse dai miei pensieri romantici e mi fece sobbalzare sulla sedia.
«Romeo, ma sei scemo?!» sbottai, con una mano sul cuore martellante «Mi fai spaventare così!»
«Avevi la porta lì davanti. Perché non l'hai tirata?! Perché?!» continuò, senza aver dato ascolto alle mie lamentele, alzando una mano al cielo e disperandosi solo come poteva fare il suo collega Amleto.
Rimasi lì per lì perplessa da quel discorso con una persona che primo non poteva sentirlo e secondo, non sapeva nemmeno che esistesse. Scossi la testa, tornando a leggere l'ultima frase partorita dalla mia fantasia, rimasta sospesa a metà senza una conclusione che era si era dissolta con l'urlo di Robbeo. L'ispirazione era scomparsa, spazzata via come una nuvola leggera, lasciandosi dietro solo una flebile scia. Mi misi le mani nei capelli biondi, osservando lo schermo e rischiando di diventare cieca, ma dovevo ritrovare il filo del discorso se non volevo dire per sempre addio alla mia sanità mentale.
Picchiettai l'indice sul tavolo, rivolgendo la sguardo verso la televisione e a quel continuo e noioso rimbalzare di una palla tra 22 omini con magliette colorate che sembravano tutti uguali. La palla va a quello, che la passa a quest'altro, che corre e corre e corre come un forsennato come se volesse farsi venire un infarto; arriva poi l'omino con la maglietta diversa, che ruba la palla e corre nella direzione opposta. Davvero emozionante, quasi più di un film giapponese in lingua originale.
Mi soffermai a guardare Romeo, che tracannava birra come se fosse all'Oktober Fest ondeggiando a destra e a sinistra sul divano, seguendo i movimenti dei giocatori.
«E De Rossi, supera tutti» commentò la partita, alzandosi dal divano e correndo sul posto, dribblando l'aria «Si trova faccia a faccia con l'avversario e la passa a Totti, che va verso l'area di rigore, tira e...No!» urlò di nuovo con le mani tra i capelli «Parata! Un'altra occasione perduta!»
«Sei sicuro di non essere caduto dal seggiolone quando eri piccolo?» domandai, perplessa e sconcertata.
«Celeste, come puoi non comprendere la bellezza del calcio? Fatti invadere da questa emozione»
«Non vedi, straripo di emozioni» ribattei, alzando un sopracciglio.
«Non senti il roboante richiamo del pallone?» continuò Romeo, mettendosi dietro di me, appoggiato alle mie spalle.
«Forte e chiaro» risposi ironica.
«Cel, sei l'unica a cui non piace il calcio!» piagnucolò, strattonandomi, dandomi la sensazione di stare su una nave guidata da un ubriaco.
«Empio demone, esci da questo corpo!» cantilenai esasperata, rivolta a me stessa «Comunque, ci sono migliaia di persone a cui il calcio non piace»
«Sei la prima che conosco che lo detesta in questo modo» ribatté, incrociando le braccia e annuendo.
«Hai sniffato ancora il pennarello indelebile?» domandai, dubbiosa «Sai che ti fa un brutto effetto!» ridacchiai, guadagnandomi un'occhiata che avrebbe dovuto intimorirmi, da parte di Robbeo.
Avevo promesso al mio peluche personale che non avrei più nominato quella storia, ma lui mi aveva offerto l'occasione su un piatto dorato, nemmeno d'argento.
L'episodio risaliva a molti, troppi anni prima, ma le immagini erano ancora nitide nella mia mente. Eravamo in prima superiore, l'anno in cui iniziò l'incubo di Romeo e in cui fu coniato il soprannome di Robbeo. Un mio stupido compagno di classe lo aveva sfidato ad annusare per più di cinque minuti il pennarello indelebile e Romeo, che era ancora più imbecille del soggetto sopracitato, accettò, spavaldo, sicuro di vincere e di mettere fine alle prese in giro. Ma non accadde, anzi la situazione peggiorò e Robbeo divenne lo zimbello di tutta la scuola. Dopo quattro minuti con il pennarello sotto il naso, era svenuto, cadendo come un sacco di patate davanti a tutta la classe. Da quel giorno, per lui, gli indelebili erano un taboo, appena ne vedeva uno lo trattava come se fosse un oggetto demoniaco.
«Non sei divertente, Fiore» mi fece una linguaccia.
«Non chiamarmi per cognome» scandii, indicandolo minacciosa «Sai che mi dà fastidio»
«E anche tu sai che non sopporto gli indelebili» sibilò.
«Mi sembravi un po' troppo sopra le righe, ecco perché l'ho detto. Non è di certo colpa mia se ti fanno uno strano effetto» mi giustificai, leggermente irritata.
«Non è colpa mia» mi fece il verso «Bè, che colpa ne ho io, invece, se ti chiami Fiore Celeste?!»
Contrassi la mascella e boccheggiai in cerca di una controbattuta, che non arrivò mai. Romeo mi sorrise sornione e tornò a guardare la partita, soddisfatto di avermi fatto tacere, cosa rara, dato che l'ultima parola doveva appartenere a me di diritto. E non sopportavo che mi venisse sottratta, così come non sopportavo il mio nome. Era una sorta di maledizione, per me. Suvvia, come si può chiamare una bambina Celeste sapendo che il suo cognome sarebbe stato Fiore? Con tutti i nomi belli presenti nella lingua italiana e in una qualsiasi altra lingua, proprio un colore doveva scegliere quella squinternata di mia madre?
Ma perché tesoro, quando sei nata avevi due splendidi occhi celesti!, era la motivazione. Poteva andarmi peggio, però. Se avessi avuto gli occhi verdi mi sarei chiamata Verdiana e se fossero stati castani, non oso immaginare che nome mi sarei potuta ritrovare. Con una motivazione del genere, Celeste era il male minore. Certo, mi fossi chiamata Giulia o Chiara non mi sarei dovuta subire le prese in giro che derivavano da quel nome singolare. Tuttavia, sempre meglio di Romeo che, purtroppo, oltre all'aspetto non proprio da adone greco, ma piuttosto da hobbit della Terra di Mezzo, doveva portare sulle spalle il peso di un cognome come Ciuccio.
Scossi la testa, sospirando e tornando a concentrarmi sulla mia opera letteraria, nonostante l'ormai dispersa ispirazione. Se mantenevo quel ritmo di scrittura, non sarei mai riuscita a concludere nulla e avrei terminato quello pseudo-romanzo ultra-ottantenne.
Mi persi a guardare le pareti attorno a me, il lampadario e le tendine di pizzo bianco alla finestra, perdendomi in congetture mentali, in cerca di un filo da seguire. Ma tutto ciò che creava la mia mente era solo un garbuglio intricato che non sapevo come sciogliere. Forse era troppo ambizioso da parte mia credere di riuscire a scrivere un romanzo, magari avrei dovuto accantonare l'idea, se non addirittura cestinarla. Ma, ogni volta che ci pensavo, mi dicevo, se ce l'ha fatta Moccia, ci puoi riuscire anche tu. Per cui il mio subconscio si ribellava al mio cervello, impedendomi di rinunciare a quel bizzarro sogno che avevo nel cassetto.
«Dai cazzo, che sono ottantacinque minuti che non toccate quella palla! Svegliatevi!» urlava Romeo come un matto, lanciando cuscini alla televisione.
Mi ridestai dai miei pensieri, sgomenta e incredula. Erano già passati più di 85 minuti da quando quella partita era cominciata?! Controllai sul monitor del PC, constatando che fossero le 16.45 e me ne rallegrai. Altri cinque minuti abbondanti e quell'obbrobrio sarebbe finito e arrivederci alla prossima domenica!
«È rigore. Quello è un rigore!» sbraitò nuovamente Romeo, sempre più arrabbiato «Arbitro venduto!»
Rimanevo sempre più sconcertata da tali atteggiamenti figli di una rabbia repressa preoccupante. Anche il più tranquillo e pacato degli uomini, di fronte ad un pallone e un arbitro, si trasformava nel più feroce degli animali, e questo non mi era affatto di conforto. Anzi, mi spaventava assai.
«E dai cazzo! Rigore» riprese Romeno quel discorso con il televisore, d'un tratto rallegrato, stringendo i pugni come a darsi la carica.
Forse avevo sbagliato facoltà, magari sarebbe stato meglio fare psicologia, almeno per riuscire a capire maggiormente questi episodi di crisi di personalità che attraversava Romeo durante una partita.
Era seduto sul bordo del divano, talmente teso che se gli avessi tolto da sotto il sedere il sofà sarebbe rimasto in quella stessa posizione. Aveva i pugni serrati, uno sulla coscia e l'altro davanti alla bocca per mordicchiarlo e, ci avrei giurato, stava sudando freddo, come se quel rigore fosse stata una questione di vita o di morte.
«Vai Sogno, vai Sogno» borbottò, lasciandomi sempre più sgomenta.
Appoggiai il mento sulla mano, in attesa di un'altra esilarante reazione da parte di Robbeo che commentava qualsiasi movimento facesse il calciatore.
«Posiziona la palla sul dischetto e si guarda intorno. Momento d'attesa, questa potrebbe essere l'ultima occasione per la Magica di segnare ed è tutto nelle mani, anzi nei piedi, di Sogno, il capocannoniere. Avanti, non mi deludere amico, so che puoi farcela, sei il migliore. Ed eccolo che prende la rincorsa» si sporse maggiormente in avanti sul divano, mentre il suo tono di voce si faceva più partecipe in quel momento «Va di collo pieno, cazzo!» soffocò l'urlo con il pugno «Il portiere intercetta la palla...» istante di silenzio prima dell'esplosione di gioia «E fa goal! Goal!» urlò, precipitandosi sul televisore e scuotendolo.
«Robbeo, così lo rompi!» mi lamentai, ma lui non mi udì, troppo intento a idolatrare quel baccalà di giocatore il cui unico merito era quello di aver segnato un rigore.
«Il pittore c'è, il pittore c'è!» sbraitò ancora, impugnando la trombetta che aveva lasciato sul divano e suonandola, facendomi perdere per qualche minuto l'uso dell'udito.
«Romeo Ciuccio, ora smettila!» ringhiai, al limite della pazienza.
Lui mi guardò e sfiatò un'ultima volta prima di correre verso di me. Mi afferrò per il braccio, costringendomi ad alzarmi e mi strinse, saltando come una cavalletta impazzita.
«Il pittore c'è, il pittore c'è!» ripeté di nuovo.
«Stavi guardando una partita di calcio o Art Attack?!» domandai sarcastica.
«Ma quale Art Attack!» esclamò «Il pittore, il genio del calcio, come Da Vinci!»
«Che cosa?!» esplodi incredula «Tu vorresti paragonare un deficiente in calzoncini che non sa nemmeno la tabellina dell'uno ad uno dei più grandi geni che l'umanità abbia mai avuto?!»
«Non io» sorrise sornione «Tutti lo considerano un genio!»
«Ok, questo è troppo» lo spinsi via.
Compresi solo in quel momento come il calcio poteva davvero rincitrullire la mente umana. Addirittura definirlo genio perché tirava una palla di una rete da pesca mi sembrava davvero assurdo, rasente al ridicolo.
Tornai alla mia postazione di scrittura, incredula, mentre la gente inquadrata in tv era esplosa in un impeto incontrollato di gioia, suonando tamburi e sventolando striscioni.
Come in un Sogno era scritto a caratteri cubitali su un lenzuolo bianco, probabilmente rubato all'ignara nonna. Prima Romeo e il suo 'Vai sogno', poi quel cartellone, scritto, per giunta con la lettera maiuscola. Ma quanti pennarelli indelebili avevano sniffato prima di quella partita?!




«Che strizza quando hai tirato».
«Quello stava quasi per pararla, ci ho visto doppio!».
«Come al solito, tutta fortuna..».
Le voci dei compagni nello spogliatoio rimbombavano attraverso le pareti, proprio sotto lo stadio, ma ero troppo su di giri per prendermela.
«Fortuna un par di palle!» ridacchiai, tirando i calzini sporchi in faccia a Leandro. «Sono o non sono la mano destra di Dio?».
«Ma falla finita, montato!» urlò qualcuno, mentre gli altri ridevano a crepapelle.
«Sì, ridete, ridete pure! Intanto vincerò io il pallone d’oro quest’anno!» annunciai a gran voce, cominciando a fare la ruota come un pavone.
A quel punto, il Capitano entrò nello spogliatoio e l’euforia di aver vinto volò via come uno stormo di passeri dopo lo sparo di un cacciatore. Sapevo che avrei osato troppo battendo il rigore al posto del mitico Francesco Totti, ma non mi sentivo affatto turbato.
Morte tua, vita mia.
«Bella partita, Capità» disse Marco.
«Quel passaggio sulla sinistra è stato perfetto» si aggiunse Leandro.
«Se a quel calcio d’angolo non mi avessero preso per la maglia..».
Era un continuo di lamentele ed ovazioni, tanto che non riuscii ad ingoiare il rospo per intero. Sarei dovuto stare al mio posto, almeno fin quando il mio contratto non fosse salito a tre milioni e mezzo l’anno.
Francesco continuò la sua avanzata verso le docce, proprio come nella scena del Gladiatore, quando Massimo si fa strada verso l’arena, acclamato e rispettato da tutti gli altri. Mi sembrava di vivere un dejà vu, ma quando arrivò al sottoscritto si fermò.
I suoi occhi erano nei miei, ma non abbassai lo sguardo. Come Davide contro Golia, io dovevo tenergli testa, ne sarebbe valso il mio orgoglio maschile!
A quel punto mi alzai in piedi e lo fronteggiai, occhi negli occhi, a viso aperto.
Gli altri compagni di squadra si erano ammutoliti, così come i massaggiatori e l’intero staff della Roma. Quella sarebbe stata una sfida epica, che non avrebbe avuto eguali.
«Bella partita, ragazzino» disse, estremamente serio.
«Grazie» dissi sorpreso.
«Era difficile che il portiere non intuisse la traiettoria, perché te lo si leggeva in viso che avresti lanciato di collo pieno, ma sei riuscito comunque a segnare, questo è l’importante. La squadra prima di tutto».
Sì, la squadra, certo! Per me esisteva solo Leonardo e nessun altro.
Gli sorrisi in risposta, poi fui ufficialmente ‘congedato’ da vostra maestà in persona. Ero sicuro che alla prima occasione, avrei fatto i bagagli e me ne sarei andato da lì perché non sopportavo di essere trattato come una volgare riserva che aveva avuto un po’ di fortuna.
Avrei dovuto telefonare a Ruben, il mio manager, e chiedergli se qualche squadra era interessata al sottoscritto, visto che il mio contratto sarebbe durato solo per altri due anni.
«Avete fatto tutti una buona partita!» ci comunicò il mister, entrando nello spogliatoio e dandoci una pacca sulle spalle.
«Marco, la prossima volta cerca di rientrare di più perché ho notato che la difesa era un po’ troppo scoperta e tu, Daniele, dà una mano a centrocampo e prova anche i tiri da lontano».
Fece il giro, complimentandosi con ognuno di noi e dando sempre nuovi consigli. Il mister Vincenzo faceva sempre così con tutti ed io mi sentivo parecchio a mio agio a parlare con lui. Se non fossi stato così competitivo con gli altri, sarei rimasto in quella società solo per lui e per quanto mi aveva aiutato a far decollare la mia carriera.
«Leo, prima o poi mi farai penare» mi disse, sedendomi accanto. «Quel tiro l’ho visto più tra le braccia del portiere che nella rete e nonostante ho solo 37 anni, sicuramente mi hai fatto venire più di tre infarti!».
«Ma mister, farla penare è la mia specialità!» sorrisi, cominciando a rivestirmi.
«Devo dire che stai ripagando pian piano tutta la fiducia che ti ho dato all’inizio. Insomma, conosco tuo padre da tanto tempo e mi aveva avvertito che eri un piccolo campione, ma addirittura capocannoniere nella seconda stagione che giochi con questa maglia... mi stai rendendo orgoglioso!» mormorò, fingendo di asciugarsi le lacrime.
«Mister, lei sta parlando con il nuovo Leonardo Da Vinci del calcio italiano.. un vero genio!» esultai pomposo.
«Eccolo che si pavoneggia, di nuovo!» fece Fabio.
«Ha un ego grosso quanto Plutone» continuò Saverio.
«Ma se non sai nemmeno in quale galassia sta!» lo rimbeccò Simone.
E di lì in poi seguirono solo continui battibecchi. Guardai il mio allenatore e lui mi restituì uno sguardo carico di emozioni. Certe volte ero un vero stronzo, dovevo ammetterlo, ma solo determinate persone riuscivano davvero a farmi abbassare le penne, almeno per qualche minuto.
Mi allacciai le Nike e afferrai il borsone, per poi uscire e seguire il resto della squadra sul pullman diretto a Trigoria. Scelsi il posto vicino al finestrino, altrimenti avrei vomitato anche la bile, e lo sguardo mi cadde su uno striscione trascinato da dei bambini.
Come in un Sogno, c’era scritto ed io non potei che sorridere fiero di portare un cognome come quello.

*********************************************************

Eccoci alla fine di questo primo capitolo. Complimenti a tutti quelli che sono arrivate fin quaggiù!
È un capitolo introduttivo, in cui abbiamo conosciuto i due protagonisti, totalmente diversi tra loro.
Celeste è cinica, anche troppo e molto sarcastica. Vede il mondo in modo disincantato e disilluzo, forse con un po' troppa razionalità.
Leo è un po' egocentrico.. (sostituite po' con moltissimo) ed è un tantinello sicuro di sé diciamo che nella sua vita non ha mai incontrato ostacoli e non si è mai sentito dire di no da nessuno, a cominciare da suo padre e per finire con l'allenatore chissà cosa accadrà quando per la prima volta, in tutta la sua vita, incontrerà un muro, di nome Celeste, contro cui il suo spropositato ego andrà a sbattere.
Eh già, perché, come avete notato, Celeste odia il calcio e i calciatori, quindi il nostro caro Sogno avrà un sacco di problemi. Vorrei fare i complimenti a Martina perché la parte calcistica è davvero perfetta! E anche per aver creato quella sagoma che è Leonardo.
Ed io devo fare una statua ad Emanuela perché Robbeo è da Oscar, così come Celeste e lo sniffa pennarello (ancora mi sto rotolando dal ridere).
Grazie a tutti quelli che hanno letto questo primo capitolo :)

Ora un po' di pubblicità:
IoNarrante, pagina Facebook.
Tutto per una scommessa, storia romantica di IoNarrante.
Clithia, pagina Facebook.
Il meraviglioso mondo di Alice e Red District, entrambe di genere romantico by Clithia.
Un bacio a tutti,
Manu e Marty



   
 
Leggi le 15 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: _Shantel