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Autore: Elle Douglas    30/05/2011    0 recensioni
Questo manoscritto nasce dall'amore profondo che provo per la saga di Twilight, e grazie alla saga di Stephenie Meyer se questa storia è nata in me, mi ha dato l'ispirazione giusta per far nascere il mio romanzo. E' così che Giselle è nata in me...
Prefazione
Giselle Hall è una vampira riluttante nei confronti della sua nuova natura, non perdona ancora a Peter, di essere stata trasformata. Nonostante abbia più di 100 anni ricorda ancora distintamente la sua vita da umana: ricorda i suoi genitori, a cui il pensiero percorre la maggior parte delle sue giornate, e sua sorella Sharon, della quale ha perso le tracce da quando lei aveva 15 anni. Non riesce ad accettare la sua immortalità, il fatto di aver recato sofferenze e dolori ai suoi genitori a causa della sua scomparsa. Ma in questa sua nuova vita, ci sarà un ragazzo che l’aiuterà, anche lui immortale e vampiro. Un ragazzo con la quale lei inizierà ad affrontare la “vita”, e un ragazzo della quale, non si sa quanto consapevole lei si innamorerà.
Genere: Fantasy, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Ma, quella sera per volere del destino, forse, decisi di tornare a piedi pur essendo molto tardi. In giro non c’era più nessuno, tutti i locali erano ormai chiusi e non si udiva null’altro che il mio respiro e i miei passi che rimbombavano sempre di più, ma non me ne curavo, non avevo paura perché mancavano pochi passi fino casa. Tutti in città dormivano profondamente, poi ad un tratto, quando girai l’angolo, sentii uno sparo che squarciò il cielo e mi fece sobbalzare, un colpo che fece rimbombare l’intero quartiere, e dopo quello più nulla. Ricordo di non aver più visto nulla, persi la vista per un attimo e quando riaprii gli occhi non so come ma mi ritrovai a terra senza sapere come, cercai di alzarmi ma non ce la feci, sentivo una fitta enorme nel petto, come se qualcuno me lo avesse lacerato, d’istinto mi ci portai una mano sopra e quando la ritirai la trovai tutta macchiata di sangue, alzai la testa e vidi che intorno non c’era altro che sangue, dappertutto sotto di me vi era una pozzanghera rossa, di quel rosso scuro simile al sangue, ed era il mio che sgorgava inesorabile dal mio petto.
Allora capii: quello sparo aveva colpito me.
Mi trascinai a terra per cercare aiuto, lasciando dietro di me una scia rossa che indicava il mio tragitto, ma nonostante lo sparo, nessuno si era affacciato alle finestre, nessuno aveva degnato di uno sguardo la situazione, nessuno era sceso in strada per vedere cos’era successo. Ero in preda al panico: Ero sola. Feci per gridare in modo che qualcuno, magari, ancora in casa, si affacciasse, rinvenisse dal suo sonno profondo e mi aiutasse, chiamasse soccorsi, ma niente, non avevo più voce, le mie corde vocali non emisero alcun suono confortante, non mi sentivo più neanche io, come avrei fatto? intanto stavo perdendo molto sangue e a poco a poco non mi sentivo neanche più le gambe, a poco a poco il mio corpo mi stava lasciando, stava diventando pesante e ponderante come un macigno . Stavo morendo, ne ero consapevole, e nessuno mi avrebbe visto quella sera, forse mi avrebbero ritrovato il mattino dopo, ma sarebbe stato troppo tardi poi.
Come succede in questi casi: mi passò tutta la vita davanti, ma più di tutti i miei ultimi pensieri andavano ai miei. In tutta la mia breve vita non avevo mai voluto vederli soffrire, avevo cercato in tutti i modi di non recarli alcun dolore e adesso inconsapevolmente lo stavo facendo. Immaginavo i loro volti, straziati e distrutti dal dolore e solo per colpa mia. “Perché avevo deciso di ritornare a piedi quella sera?”, mi chiedevo in preda al panico. Immaginavo cosa sarebbe successo il giorno dopo, più che immaginarlo vedevo la scena in modo molto nitido, come una premonizione, la vedevo in anticipo. Quando mi avrebbero ritrovato ai piedi di quel marciapiede, avrebbero trovato i miei documenti che erano ancora nella borsa, forse, non lo sapevo più, la vista mi si era offuscata e a poco a poco stavo cadendo nell’oblio. I miei sarebbero arrivati e mi avrebbero visto in quell’ultimo ricordo. Mentre i miei occhi erano sul punto di chiudersi da lontano un cellulare iniziò a squillare insistentemente con una suoneria familiare, sicuramente era mia madre che come al solito quando uscivo mi chiamava preoccupata per chiedermi dov’ero e se stavo tornando, ma purtroppo ne quella sera ne in altre sere sarei più tornata. Non avrei risposto a quel telefono dicendo in tono scocciato: “Sì mamma, sto arrivando!”. Quella preoccupazione avrebbe continuato per mesi a ucciderla, più che preoccupazione sarebbe diventato dolore e da dolore a morte. “Addio mamma”, fu il mio ultimo pensiero mentre pian piano mi allontanavo da quella vita a soli sedici anni. Stavo morendo e avrei preferito mille volte morire quella notte in mezzo a quella via, piuttosto che essere salvata da quello sconosciuto che mi si avvicinò in maniera impercettibile e invisibile e con gli occhi bramosi e assetati del mio essere affondò i suoi denti nella mia carne infondendomi il suo veleno, dando il via, così, alla mia seconda vita. Passai non so quanto tempo in balia di un vero e proprio inferno, mentre il mio corpo cambiava diventando duro come la roccia e bianco come il gesso. Non vedevo ne sentivo più nulla, chissà se ero già morta, se avevo ancora un corpo dato che non lo sentivo neanche più, esso sembrava vuoto, se nel momento dello sparo non sentivo più le gambe, adesso non sentivo più niente di “lui”, tutto era scomparso insieme alla vista e a tutto il resto, non sapevo cosa mi stava accadendo. Poi un dolore acuto e lancinante si ridestò dentro di me. Mi sembrava di essere morta e pensavo di essere finita all’inferno per non so quale reale peccato, visto che mi sentivo divorare dal fuoco, era una sensazione bruttissima, incredibilmente e assolutamente dolorosissima, desideravo poter morire, solo questo desideravo, era ciò che volevo per placare quel dolore acuto. Era come se stessi bruciando viva, “Ma dov’ero?”. Cercavo di resistere a quel dolore insopportabile, ma era difficile, prima o poi mi avrebbe annientata, non ero in grado di reggere un dolore simile, troppo forte e straziante per poterlo sopportare. Lo ricordo perfettamente, era un ricordo scomodo che non potevo cancellare, esso era rimasto perfettamente impresso nella mia mente come un tatuaggio che una volta fatto non puoi più togliere. Ricordo la sua intensità e le mie grida soffocate in cui chiedevo solo che la morte arrivasse più in fretta possibile. “Davvero la morte era così? Avrei ancora dovuto patire dolore in questo nuovo mondo?”. Mi chiedevo mentre le fiamme mi divorarono l’anima facendola cadere nell’abisso più eterno. In quel frangente di tempo indeterminato cercavo di pensare ai miei genitori, a mia sorella, ai miei nonni … cercavo di occupare la mia mente con qualunque pensiero, cercavo di fare di tutto per non pensare a quel dolore atroce ma niente, esso si impadroniva della mia mente in maniera totale e assoluta, non riuscivo a pensare a niente tranne che al dolore. Non riuscivo a visualizzarli, era come se fossero scomparsi, dileguati, dissolti, volatilizzati, nessun volto riaffiorò nella mia mente. Ne fui terrorizzata.
Il fuoco in cui stavo bruciando crebbe in modo smisurato come se qualcuno avesse buttato altra legna, raggiunse il suo apice mentre si impossessava di ogni mia sensazione rimasta. Avrei voluto finirla lì già da quando era iniziata, volevo morire, decedere, spegnermi, perire … qualsiasi cosa mi levasse di dosso quel fuoco maledetto. Ma questo non successe anzi esso continuava a crescere a dismisura, quando sarebbe mai finita quell’agonia? Ma soprattutto l’avrebbe avuta mai una fine? Desideravo gridare, piangere, urlare di fronte a quel dolore, ma non ci riuscivo, le mie labbra non ubbidivano più al mio cervello, come tutto il resto del corpo d’altronde, non si muovevano, restavano al loro posto silenziose e inermi. Questa era la fine che dovevo fare, “vivere” quell’inferno per l’eternità? Non ce l’avrei fatta, anzi in quei momenti desideravo ardentemente che qualcuno mettesse fine a quella lenta agonia. Non volevo vivere neanche un minuto di più in quel macabro modo. Il mio desiderio rimaneva sempre lo stesso: desideravo morire, perché nessuno fuori da quelle tenebre lo capiva? Perché nessuno voleva darmi il colpo di grazia tanto sperato? Cosa facevano i dottori? Mi chiedevo isterica tra un urlo e l'altro. In quel frangente desiderai di non essere mai nata, di non essere mai venuta a questo mondo, di non essere mai esistita, di non aver mai vissuto. Il fuoco dentro di me si ridestò in maniera più violenta raddoppiando, anzi quadruplicando i suoi passi e avvicinandosi sempre più al mio cuore che a poco a poco stava diventando pesante come un macigno. Stavo bruciando come legna da ardere. L’incendio mi voleva e non potevo farci nulla, prima o poi sarei diventata sua in non molto tempo. Passarono non so quanti giorni mentre quel fuoco non mi abbandonava, anzi diventava sempre più insistente e agonizzante. Non accennava a diminuire, solo negli ultimi momenti il dolore si calmò e il fuoco a piano a piano andava affievolendo. Aprii gli occhi per la prima volta solo dopo, non so quanto tempo in realtà, potevano essere passati minuti, secondi, ore, o addirittura mesi o anni per quanto mi riguarda. Durante quell’agonia avevo perso il senso del tempo. Quando mi risvegliai rimasi sorpresa. Dopo tutto quel dolore pensavo di essere morta e invece mi ritrovavo in una stanza, una stanza non familiare, e quando vidi meglio mi accorsi anche che non era nemmeno la mia. Dovevo essere sopravvissuta, pensai, ritrovandomi tutta intera. La stanza era uno studio vecchio e opaco, nessuna luce penetrava dalle finestre coperte dalle spesse tende nere di velluto, mi accorsi alzandomi di aver dormito fino ad allora su una scrivania, di legno scuro, liscio e laccato. Le pareti erano di un colore verde scolorito e di fronte a me una grande libreria mi fissava con le sue grandi vetrate. “Dov’ero?” pensai subito. Feci per alzarmi e mi accorsi di avere solo una camicia blu addosso, grande e lunga. “Dov’erano i miei genitori” avevo voglia di abbracciarli e di dirgli che stavo bene, poi d’un tratto, guardando di fronte a me il mio sguardo cadde su una vetrata della grande camera, mi vidi riflessa nella superficie di vetro della grande libreria lì accanto, lanciai un urlo acuto. Vidi un volto riflesso nello specchio che non era il mio, non poteva essere il mio. La creatura riflessa mi fissava imitando i miei stessi movimenti. La ragazza riflessa aveva un corpo sinuoso ed elegante, anche con una semplice camicia addosso. Sembrava un aliena. Il suo corpo era senza dubbio mozzafiato e flessuoso anche da immobile, avrebbe attratto chiunque a sé, sembrava una donna venuta da un altro pianeta, aveva una bellezza impressionante, il suo viso, tracciato da tratti leggeri e fini era incorniciato da dei lunghi capelli color dell’oro, e la sua bocca carnosa era piena e tinta di un rosso acceso, sembrava uscita da chissà quale quadro. Tutto sembrava tranne che una persona umana. Ma non fu la sua bellezza a impressionarmi e a farmi paura, piuttosto il suo pallore. Sembrava un fantasma, era tutta bianchissima, la sua pelle anche in quel buio risplendeva come la luna nelle notti migliori. Sembrava una statua greca e forse lo era. Ma non fu l’unico tratto a farmi orrore, anche i suoi occhi colpirono il mio interesse terrorizzandomi del tutto. Gli occhi di quella ragazza, che sembrava una dea scesa in terra, erano rossi, rossi come il fuoco che avevo vissuto nei giorni passati, rossi come i rubini che aveva al posto degli occhi, rossi come il sangue che circola nelle vene, e fu a quella parola “sangue”, che fino a prima non riuscivo neanche a pronunciare per il disgusto che mi provocava, rimbombò nella mia mente accentuando una sete improvvisa e pungente in quella gola riarsa che ora bruciava dentro me, la sentivo ardere violentemente, ma mai come quell’incendio, che significava? Forse era da tanto che dovevo bere dell’acqua e per questo che la mia gola era secca, doveva essere uno scherzo, ma sì, era uno scherzo. Erano due le possibilità: o quella ragazza dalla pelle bianchissima e dagli occhi sanguigni non ero io, o stavo ancora sognando, eventualità molto probabile. Ma poi mi guardai le mani notando che erano uguali a quelli della ragazza che si muoveva in sincronia con me, allora intesi che ero io. Fu uno shock terribile.
I giorni seguenti furono tragici e dolorosi, se così si può dire, volevo piangere, ma non potevo più farlo. Le lacrime non uscivano più, nessun liquido usciva più dal mio corpo, nessuna lacrima, niente.
Ero morta, se così si può dire, ma non nel modo in cui lo intendono gli altri … gli esseri umani, ecco.
Lo ero davvero. Ero Morta e se non fossi stata condannata avrei potuto dire di aver raggiunto quasi la luce. E invece no, ero tornata indietro sì, ma ora ero un vampiro…

   
 
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