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Autore: minimelania    31/05/2011    7 recensioni
Quando la notte scivola sui muri e le cortine di damasco del letto, niente è più al sicuro, neppure la più ferma virtù. E se a decidere di infrangere la strana tregua esiziale è il sogno proibito dell'uomo più casto, non c'è delitto che non possa avvenire. Non c'è virtù che non si possa perdere. Non c'è ossessione che non possa avverarsi.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

 

*

2.

 

Il Giudice passò due giorni d'inferno. Non aveva il coraggio di scendere nelle segrete a chiedere al carceriere se la ragazza si era mossa, la notte. Se fosse fuggita l'avrebbero avvertito, e d'altra parte era impossibile che fosse riuscita a liberarsi da sola: aveva dato disposizione affinché fossero prese tutte le precauzioni del caso.
E allora come era riuscita ad arrivare fino a lui? Questo pensiero tormentava il Giudice, mentre andava avanti e indietro nel suo studio, lo tormentava mentre restava immobile ad ascoltare le trite sciocchezze burocratiche di cui erano gonfie le sue giornate, lo tormentava infine anche mentre cercava di mangiare qualcosa. Ma ogni boccone che portava alla bocca era intriso del pensiero di lei. Era veleno.
Passò un giorno e non seppe niente di lei. La notte si tormentò in vano nella stanza, sveglio fino alle luci dell'alba. Con gli occhi incollati alla porta era riuscito solo a captare il vagare di un ragno per chissà dove.
Il giorno dopo passò come un incubo, non credeva che la notte successiva potesse essere ancora peggio. Ma  fu così.
Tormentato dal desiderio di rivederla, andò a rinchiudersi in camera all'ora in cui di solito cominciava a cenare. Poi pensò che era una cosa ridicola, uscì di nuovo, andò in biblioteca. Lì afferrò un qualunque manoscritto e provò a leggerlo. Niente da fare. Si versò un bicchiere di vino, tanto per farsi coraggio.
Le ore passavano e lui non sapeva cosa fare. Una parte del suo cuore sinceramente sperava che fosse stato solo un sogno - doveva esserlo stato perché non poteva essere altrimenti. Eppure c'era una parte di lui che sperava, desiderava, moriva perché quella non fosse solo un'allucinazione, il parto della sua mente riscaldata da ormai troppo notti insonni. Con il pensiero tornava alla visione di lei contro la porta, e al biancore della sua pelle contro le cortine. Tornava agli anelli di fumo dei suoi boccoli portentosi, alle mani e alla carezza sottile contro il suo piede. Pensava a lei, ai suoi fianchi, alla pelle e a quel respiro - ahi, quanto malvagio! - che gli aveva istillato nelle ossa striscianti fremiti di cui non sospettava neppure l'esistenza.
- Sta veramente facendo tutto questo a me? E perché poi?
Lo ricordava, lo ricordava bene quel brivido che lo prendeva ogni volta che lei era vicina. Come se non esistesse più che lei, terribile, perfetta immagine di una dea guerriera. E lui cos'era in grado di fare?
Con un gesto nervoso della mano vuotò il bicchiere. Si alzò in piedi ricominciò a passeggiare. In fin dei conti, da qualche parte era ancora un uomo molto morigerato, e la logica gli dava un gran conforto.
- Vediamo, perché è venuta proprio da me? Che cosa vuole?
Ma più ci pensava più tutto gli sembrava assurdo. Talmente che ormai non credeva neanche più di dover distinguere tra la realtà di quell'apparizione e la menzogna.
- Che cosa può volere da me? Non certo la libertà, perché sa che mi farei uccidere, prima di rendergliela. Ho messo a fuoco mezza Parigi solo per avere il supremo piacere di vedermi sputare in faccia. Ho distrutto tutto quel che passava tra me e lei, e solamente per costringerla a morire di freddo e torturare me con lei, nell'agonia. Sa bene che preferirei vederla morta prima che fuori di qui, che posso tutto e tutto farò perché la mia Esmeralda non veda più la luce del sole, perché rimanga per sempre mia, nelle segrete. Fin tanto almeno che non sceglie me. Sa anche che potrei essere magnanimo, ma a una condizione irrimediabile che non penso sia pronta ad accettare. E allora cosa vuole da me? Perché è comparsa in tutta la sua gloria, solo per torturarmi?
E davvero questi erano pensieri di tortura, per il povero Giudice. Forse per la prima volta nella vita non riusciva a percepire nient'altro che gli ansiti confusi del suo cuore. La ragione si smarriva in quei meandri, e non vedeva che la danza di lei, non vedeva che le sue braccia magnifiche, la robusta consistenza del suo respiro vicino a suo.
- Che cosa ho fatto di male? - si chiese. E in quel momento suonò la mezzanotte lungo le oscure mura di pietra. Il Giudice, come se fosse un lugubre avvertimento, tirò indietro la veste di velluto, e si avviò alla sua camera da letto.

 
Sapeva di trovarla lì, ma si bloccò sulla porta, quando la vide. Il cuore in gola, le labbra confuse, nessuna forza nelle gambe.

La sua stanza era lunga e stretta, col grande letto dalle cortine nere al centro e poco altro. Una brocca, un panno di tela e qualche libro sparso sul pavimento. Lei era lì, in mezzo a quella roba mezzo macchiata dalla polvere dei secoli, e si lavava.

- Oh, meno male che sei arrivato, ecco. Mi aiuti a insaponarmi la schiena?
Lui si bloccò, come se avesse appena ricevuto un colpo in mezzo al petto. Lei era lì, tra il catino e il letto, semi affondata in una specie di tinozza che lui non ricordava neanche di avere. Era servita, anni prima, a lavarsi, ma ormai lui ne aveva perso memoria. Da lungo tempo aveva preso l'abitudine di farlo da solo, in uno stagno freddo poco distante da casa, e in piena notte. Estate e inverno.
- Allora? Mi aiuti o devo fare da sola? - tubò con la sua voce di colomba. Meno male che era distante. Meno male che era un sogno, si disse lui.
E' necessario descrivere quanto era incredibilmente bella? No, ovviamente. Era talmente abbagliato che appena notò le spalle scure e lucide, bagnate da un sottile strato di sapone. Poco più su i riccioli, grevi, le si incollavano al collo in larghe ciocche.
- Che cosa vuoi? - fu l'unica cosa che riuscì a dire, deglutendo. Con una mano si era aggrappato allo stipite e non riusciva a staccarsi dalla porta. Le gambe non riuscivano a muoversi. A sentire quella risposta lei rise, agitò i soliti campanelli d'argento.
- Non voglio niente, te l'ho detto. Solo che tu mi aiuti a lavarmi, se vuoi. Le carceri sono talmente sporche …
Solo allora lui trovò il coraggio di muovere una gamba, poi l'altra. Fu necessaria parecchia abnegazione, e tutto il suo autocontrollo. Si avvicinò, e con la mano prese la spugna che lei di schiena gli porgeva.
- Che cosa vuoi? - sussurrò di nuovo. Lei rise e poi fece un cenno con la testa. Incurvò la cervice quel tanto che bastava a protenderla a lui. Lui capì, chiuse gli occhi, e immerse la mano nell'acqua nera come il petrolio. Era tiepida, e le misteriose fiamme del fuoco si rifrangevano come animali danzanti in superficie.
Quando la spugna toccò la sua schiena, la gitana sussultò appena. Poi sospirò di piacere.
- Così va bene? - chiese lui, con una voce che non sapeva neanche di avere. Era cedevole, e incredibilmente esitante. Lei sorrise, scosse il capo e poi si abbandonò completamente all'acqua. Spuntò un ginocchio perfetto da quel nero.
- Che cosa vuoi? - chiese di nuovo lui, mentre la spugna percorreva le spalle con la perizia trattenuta dei miracoli o delle grandi esitazioni.
- Se tu continui a fare quello che fai, io ti dirò che cosa voglio. Ma devi farlo bene, come adesso. Non devi smettere neanche un secondo.
- No. Non smetto - annuì lui. In quel momento neanche il Re, neanche la tortura, neppure tutti i diavoli dell'inferno sarebbero riusciti nel proposito di farlo smettere. Fosse stato per lui avrebbe continuato in eterno.
- Bene - fece lei, allungandosi ancora un poco. La sua pelle profumava di mandorla e animale - Sono qui per proporti un affare.
- Prima non vuoi dirmi perché ti sei liberata? Come ci sei riuscita?
- No - rise lei - Ti basi sapere che anche le tue sbarre di ferro e i catenacci e i lucchetti possiedono chiavi che possono aprirli. O sistemi per essere aggirati. Io li conosco, io li conosco e non ho paura di usarli  - poi proseguì - Ma adesso torniamo a noi. Sono venuta perché da qualche notte faccio un sogno, un sogno strano, e voglio parlartene.
- Non sono mica un astrologo - mormorò lui, perso nella contemplazione della meccanica lentezza con cui lei dondolava il collo mentre parlava. Su quella gola perfetta avrebbe voluto marchiare ogni centimetro di fuoco, lasciare impressa la sua voce, annusare il suo stesso desiderio.
- Mi stai ascoltando?
- Cosa? Sì. Certo che sì.
- Bene. Ti dicevo che facci un sogno. Ci siamo io e te davanti a un grande prato di neve. Tutto intorno è campagna, sommersa da uno strato bianco e pesante. Io e te siamo davanti a tutto questo fermi dentro una carrozza. Tu mi tieni la mano destra, e io a te la sinistra. Tu sei vestito normalmente, con la tua lunga tunica scura. Sono io che sono diversa. Sono vestita come se andassi ad una festa, a un matrimonio. Ho un vestito rosso porpora indosso, e una corona di fiori sulla testa. Al collo porto un monile di rubino incastonato in due mani d'argento. Le mani sono come la mia e la tua. E poi, intorno a noi, che siamo immobili, comincia ad alzarsi una tempesta. Prima è solo vento, ma presto diventa così forte che tutto intorno trema, e si sconquassa e geme. Tutto tranne la nostra carrozza che resta immobile nella furia degli elementi. E poi arriva come una colonna d'aria che turbina in cielo, e ci solleva. E noi andiamo lontanissimo, e voliamo, e ogni cosa sotto di noi si allontana. Dalla tua bocca a quel punto escono delle parole che io non capisco. Poi io provo a avvicinarmi a te, ho paura. Voglio gettarmi tra le tue braccia, tremo. E tu mi guardi, le allarghi, ma in quell'attimo un fulmine colpisce la carrozza e la divide. Io precipito nel vuoto, e urlo, urlo. Ma tu ormai sei lontano. Mi sveglio pensando di essere morta. E ho la faccia inondata di lacrime.
Sorpreso dalle parole di lei, lui arrestò il moto della spugna per un istante.
- Cosa significa? - chiese.
Lei si voltò.
- Sono venuta a chiederlo a te.
- Ma … tu sei la gitana, non io. Non sono i sogni, le fantasie, le sciocchezze le vostre prime occupazioni? Non siete voi che siete soliti annebbiare la mente e il corpo con le strane dell'immaginazione?
Mentre faceva questo lungo discorso, lei scivolò dalle sue mani. Per sbaglio la spugna cadde in acqua, e per riprenderla, lui immerse il braccio. Trovò invece un corpo, e lei che gli sorrise.
- Non vorresti prima lavati anche tu? E' ancora tiepida.
Lui la guardò  allibito, ma prima che fosse in grado di dire qualcos'altro lei si era già alzata. Era nuda, nuda e splendente in tutta la sua gloria.
- Mi passeresti quell'asciugamano? - poi uscì senza dire una parola, sgocciolando dovunque. Il Giudice non sapeva se stava sognando. Atrocemente stordito dal fugace sogno di quella visione folgorante, non seppe fare altro che allungare meccanicamente un braccio alla tela che giaceva ai suoi piedi. La prese e la porse alla gitana.
- Oh, grazie - sorrise lei, cominciando a sfregarsi e a stropicciarsi davanti al fuoco - Fai pure. Quando hai finito riprenderemo il discorso.

 *

 

<Angolo Autrice: Carissimi tutti (in special modo gli affezionatissimi @marguerite90, @ClaudioFrollo, @Lhoss, @x_LucyLilSlytherin, @sawadee, @Ilien e la new entry @badge9136) che dire … sono contenta che il primo capitolo vi sia piaciuto! Mi fa sempre tantissimo piacere ricevere la vostre recensioni, soprattutto quando ci danno occasione di discutere su uno dei nostri pairing preferiti ^__^. Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento: il mistero si infittisce un pochino, continuiamo a non capire se Esmeralda sia un sogno oppure no, ma soprattutto continuano queste lunghissime scene-fiume in cui i Nostri si studiano da vicino/lontano come due strani animali selvatici. Personalmente, è sempre la parte che preferisco nelle FF dedicate a loro, e devo dire che ci rimango male quando non ci sono abbastanza parti descrittive come questa! Piuttosto spesso mi viene rimproverato di essere eccessivamente descrittiva, nelle mie storie, e molto poco narrativa. Temo che sia realmente un mio difetto, e sto tentando di correggerlo, sul serio … ma quando ho tra le mani questi due, personalmente, non capisco più niente. Così, come Tenerezza ha fatto forse sbadigliare tutti quelli a cui le lunghe riflessioni dell'Arcidiacono sembravano un po' troppo pesanti, così forse questa nuova FF risulterà un po' ostica a chi non è Frollo-holic come la sottoscritta. Ma tant'è: ogni tanto anche io mi prendo le mie piccole soddisfazioni! Insomma, tutto questo lungo preambolo per dirvi che, se ritenete che io stia esagerando con la lunghezza e i particolari di queste scene, magari non troppo funzionali alla trama, non avete che da farmi un fischio e io vedrò di accorciare. Se invece vi piacciono così come sono … beh, allora ancora meglio: Enjoy, e che Nostra Signora di Parigi abbia a proteggervi oggi come sempre! Un casto bacio, nel frattempo & in attesa di nuovi, interessanti sviluppi, Vostra Minimelania>

p.s. Per chi se lo fosse domandato, il titolo è un verso latino, liberamente riadattato, del poeta Titinio. Letteralmente significa 'Non è lecito ai Giudici riposarsi né di giorno né di notte'. Un bacione ancora, M.

  
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