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Autore: LauFleur    27/06/2011    19 recensioni
Edward Cullen: un ragazzo, un figlio, un fratello. Un figlio costretto a rimettere insieme i pezzi di ciò che i suoi genitori hanno frantumato. Un fratello tormentato dal pensiero che la felicità di sua sorella sia minacciata dalla tristezza delle loro vite. Un ragazzo ossessionato da Isabella Swan, la donna che riesce a calmare quel mare in tempesta che è diventata la sua vita.
[Rating rosso per il primo extra.]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Continuo a ringraziarvi di cuore

Continuo a ringraziarvi di cuore.

Sono sempre più felice/emozionata/incredula di ricevere tutte queste recensioni e visite.

Grazie mille.

Prima di lasciarvi al capitolo, ci tengo a fare un grande in bocca al lupo a chiunque stia affrontando l’esame di maturità. Stamani la terza prova, poi l’ultimo sforzo dell’orale e finalmente sarete liberi!

Un’ultima cosa, ultima davvero: vi consiglio di dare un’occhiata a questo sito (c’è anche la pagina facebook), e ringrazio Martina per aver deciso di consigliare anche questa storia.
Buona lettura. 

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Capitolo 6 – Occhi lucidi

 

Edward lavorò tutto il giorno, dall’apertura alla chiusura, dalla colazione agli snack notturni. Jacob Black lo controllava, dal magazzino o dai tavoli che occupava per chiacchierare allegramente con i suoi migliori e più affezionati clienti. Gli lanciava occhiate sbieche, con un ghigno divertito sulle labbra. Tutto nella sua faccia bisbigliava: Visto, ragazzo, cosa succede a darmi buca senza preavviso con un messaggino del cazzo?

Prima di pranzo, a metà pomeriggio e dopo cena, Edward aveva telefonato a casa. Aveva sempre risposto Rose. Le aveva chiesto come stava, se era pronta per tornare a scuola il giorno dopo, si era raccomandato di fare i compiti e di non distrarsi troppo. Lei gli aveva raccontato che aveva mangiato tutto quello che lui aveva lasciato nel forno, aveva aggiunto qualche nuovo pezzo di cielo al loro puzzle, e non aveva esagerato con la lettura. Esme l’aveva aiutata con le tabelline, ma poi era salita subito in camera “perché era tanto stanca”.

Tirò giù con forza la saracinesca, facendola ruggire nel buio della notte. Mentre il respiro gli si congelava davanti agli occhi, pensò a Jacob. Alla sua poca comprensione, alla sua assente voglia di conoscerlo e capirlo, alla voglia – apparsa in quel momento per la prima volta, ma che sembrava gli bruciasse nello stomaco da sempre – di salutarlo, dare le dimissioni, tornare ai libri che tanto amava. E mentre i piedi spingevano sui pedali e le dita stringevano con forza il manubrio ghiacciato, abbandonò i pensieri sul suo datore di lavoro e si concesse qualche pedalata serena pensando a lei. Alla risata capace di riempire il parco intero, alle labbra carnose macchiate di maionese, alle guance arrossate dal freddo e dall’imbarazzo, alla sua giacca che sulle spalle di Bella faceva l’effetto di un abito da sera. Come ormai succedeva dal giorno di Natale, quella deliziosa presenza nei suoi pensieri funzionò come un miracoloso calmante ed Edward riuscì ad arrivare a casa senza essere incazzato con il mondo intero.

Girò la chiave, aprì la porta e la prima cosa che pensò fu: vodka. L’odore pungente aleggiava nelle stanze, fino ad invadergli le narici. Si lasciò guidare dal presentimento orribile che quella banfata di alcool aveva sollevato e a passi svelti raggiunse la cucina. Vide sua madre, abbandonata su una sedia, con i capelli arruffati, le mani che le reggevano la testa ed un bicchiere vuoto davanti alla faccia. Rinunciò a tutte le speranze, tranne una: non gli rimase che pregare che sua sorella si fosse addormentata prima di vederla in quello stato.

“Mamma…” La voce venne fuori un sussurro, così sottile che perfino lui stentò a sentirlo.

Scostò una sedia dal tavolo e si piazzò davanti a lei, che intanto aveva alzato la testa con un gemito. “Mamma, non possiamo andare avanti così. Dobbiamo fare qualcosa, devi fare qualcosa… questa volta davvero. Cercheremo una clinica, una bella clinica. Io ti aiuterò, lo sai-“

Lo interruppe scuotendo la testa e, con la mano tremante, gli strinse l’avambraccio. Liberò un respiro più lungo e pesante degli altri, Edward socchiuse gli occhi e finse che le sue parole e il suo alito non puzzassero di vodka. Dopo quella giornata infernale, Dio solo sa quanto bisogno aveva del profumo di sua madre.

“Non possiamo.” Nonostante gli occhi lucidi e le labbra torturate dai denti, la voce era ferma, risoluta. “Non possiamo Edward, non ora. È tornato tuo padre, lo capisci? Cosa pensi che succederebbe se scoprisse come sto, come sto davvero? Vi perderei, vi perderei per sempre. Non possiamo, non possiamo…”

Le prese la mano, intrecciò le dita alle sue. Strinse forte, per essere sicuro che sapesse che lui era lì, con lei, e che non aveva intenzione di farla sprofondare ancora di più.

Lasciò cadere la testa sul tavolo, si abbandonò al buio degli occhi chiusi e al tepore della stanchezza. E aspettò.

 

Le piccole mani di Rose tiravano le lenzuola, gli scuotevano le spalle, gli facevano il solletico sotto i piedi. In quei secondi di opaco dormiveglia, Edward si ricordò del suono fastidioso della sveglia che gli trapanava le orecchie e della sua mano che con un tonfo la zittiva, facendo tornare il silenzio e la pace nella stanza. E proprio come qualche minuto prima aveva ignorato la sveglia, adesso stava cercando di ignorare sua sorella.

“Edward? Svegliati, è tardi!” Smise di scuotergli le spalle e, con un movimento secco, afferrò il piumone e lo tirò in fondo al letto. Edward, coperto solo dai boxer, tentò di nascondere il freddo e il sonno affondando la testa sotto il guanciale.

“Ho sonno…” Far uscire la voce, ammortizzata dalle coperte, richiese uno sforzo sovraumano.

“Non ce la fai?” Aveva smesso di chiamarlo, di toccarlo, si era arresa. “Vado da sola? Se mi dai il permesso vado a piedi, tanto la strada la so.

Furono quelle parole, insieme al pensiero di sua sorella sola davanti alla scuola, che lo svegliarono. In un attimo fu in piedi, le dita nei capelli e la bocca aperta in uno sbadiglio.

“Sono pronto, prontissimo.” Afferrò una maglietta appallottolata sulla sedia e un paio di jeans abbandonati sul pavimento. “Il tempo di mettermi le scarpe e andiamo.”

Con un sorriso Rosalie si sistemò lo zaino sulle spalle, si chiuse con cura il piumino fino a coprire il collo e, proprio con quel sorriso, lo ringraziò.

Il vento gli bucava la faccia e gli torturava gli occhi ancora mezzi chiusi. Pedalava veloce e con fatica, costringendo i muscoli delle gambe a svegliarsi in fretta. Rosalie era al sicuro tra le sue braccia, aggrappata al manubrio e appoggiata al suo petto. Dondolava le gambe sopra l’asfalto che correva veloce e liberava l’emozione per il ritorno a scuola cantando una delle sue canzoncine preferite. Edward fermò la bicicletta proprio davanti al cancello della scuola, aiutò sua sorella a scendere e rimase seduto sul sellino. Pronto a rivederla, pronto a ripartire.

Mentre Rose salutava i compagni che scendevano dalle macchine dei genitori, lui alzò lo sguardo. E lei era lì. Come prima, come sempre. Aveva i capelli sciolti, una ciocca testarda continuava a volarle sul viso e lei pazientemente la riportava dietro l’orecchio. Anche da lontano, Edward riusciva a rievocare ogni lineamento del suo viso: la bocca a forma di cuore, la piega affusolata degli occhi, il piccolo neo vicino al labbro superiore. Ancora non si era accorta che la stava osservando, che tra tutti quei bambini, genitori e babysitter c’era anche lui. Edward adorava scrutarla da lontano, studiare come si muoveva nel mondo, nel suo lavoro, nella sua vita. In quella di entrambi.

“Io vado.”

In bilico sulla bici, la sollevò di peso fino a stamparle un bacio sulla guancia.

“Ci vediamo all’uscita, ti aspetto qui.”

La fece riatterrare sul marciapiede, pronto a vederla sparire al di là del cancello. In quegli istanti di attesa, non resistette e sollevò di nuovo lo sguardo. Tornò a guardare il modo in cui i capelli castani le danzavano sulla schiena, le gambe toniche fasciate dalle calze nere, il sorriso che dava il benvenuto ai suoi alunni. Ma questa volta non riuscì a godersela fino in fondo: vicino a lei, con gli occhi troppo attenti e le mani troppo vicine, c’era un uomo. Sulla quarantina, capelli brizzolati pettinati all’indietro. Alto e impeccabile, nel suo abito scuro.

D’istinto allungò un braccio, afferrò il cappuccio di sua sorella e la costrinse a fermarsi. Lei riuscì a non perdere l’equilibrio e si voltò, lanciandogli un’occhiataccia incredula.

“Ehi!” esclamò.

“Scusami…” mormorò lui. “Chi è?” Con un cenno della testa indicò il portone. Rosalie lo seguì con lo sguardo e vide un paio di suoi compagni di classe, la sua maestra e... “Dici il preside Whitlock?”

“Il preside?”

“Sì, è nuovo. È arrivato poco prima di Natale.” E, salutandolo con la mano, riprese a camminare verso il cancello. “A dopo, fratello innamorato!”

Edward le fece una mezza smorfia e guardò il suo zaino rosso che veniva inghiottito dal portone. Quando tutti i bambini furono entrati, Bella si voltò e finalmente incrociò il suo sguardo. Le labbra le si aprirono in un sorriso luminoso e spontaneo, che in una frazione di secondo fece sparire tutto il sonno e la stanchezza. Mentre la mano di Edward si alzava per salutarla, quella del preside si posò sul fianco di Bella e l’accompagnò dentro la scuola.

Si girava e si rigirava nel letto. La stanza era quasi completamente buia, ma i piccoli e deboli raggi di sole che entravano dalle tapparelle erano sufficienti a tormentare il suo riposo. Il volume della televisione di sua madre, nonostante le avesse già urlato una decina di volte di abbassarlo, era sempre troppo alto. Ma non abbastanza alto da coprire il rumore dei suoi pensieri. Nascose la testa sotto il guanciale, costrinse gli occhi a chiudersi, obbligò il cervello a spengersi. Doveva dormire, doveva riposare, aveva poche ore per farlo prima che fosse costretto a ripresentarsi alla tavola calda. Ma, proprio come quella sera nel parco, non poteva evitare l’opprimente sensazione che gli suggeriva che tutto sarebbe crollato. Era così forte che si sentiva già sotto quelle macerie.

Quella mattina di gennaio, in quella stanza carica di angoscia, Edward ebbe la certezza che sua madre non si sarebbe mai più ripresa, che suo padre avrebbe continuato ad essere lo stronzo che era sempre stato, che Rosalie sarebbe stata costretta a combattere le sue stesse battaglie. E, tra tutti quei presentimenti, ce n’era un altro. Forse il più infantile, immaturo e fastidioso: sapeva che, all’uscita di scuola, sui gradini di quel portone, Bella non sarebbe stata sola.

E così fu.

 

Bella guidava con tranquillità, una mano sul volante e una sul cambio. Si lasciava trasportare dalla musica sprigionata dalla radio e dal motore che cantava. Sollevò le dita e le appoggiò sulle bocchette del riscaldamento, il calore le pizzicò subito la pelle. Fuori era buio, l’inverno la luce se la inghiottiva presto, lasciandoli tutti nel buio nei loro pensieri. E quella sera, nei suoi pensieri, tutto era in pace. Era serena, come non le capitava da mesi, forse anni. A casa non c’erano problemi, o almeno non ce n’erano di nuovi. Quella città iniziava a sentirsela addosso, le strade sconosciute e le abitudini diverse non la spaesavano più. Il lavoro andava a gonfie vele, i bambini – tranne rare eccezioni – erano vivaci ma piacevoli, intelligenti e stimolanti. I colleghi erano simpatici, fin da subito l’avevano fatta sentire a suo agio. E poi c’era lui, che con quei suoi modi di fare insoliti e attraenti le aveva fatto tornare la voglia di spalancare la sua vita sotto gli occhi di qualcun'altro. Di dirgli eccomi, sono questa. Di farsi affascinare dalla sua forza, di ridere insieme a lui, di ascoltarlo mentre le confidava di sentirsi una persona orribile e fare di tutto per convincerlo del contrario.

Tutti quei dubbi che aveva avuto all’inizio, nemmeno se li ricordava più.

Chiuse la macchina, afferrò la borsa carica di libri e si incamminò lentamente verso il portone. Salutò il portiere, che la guardò imbarazzato, e prese la posta ammucchiata nella sua cassetta. Le scale erano fredde, ma non se ne curò: si tolse le decolté e camminò scalza, con i piedi doloranti che esultavano. Mentre saliva, lo stomaco cominciò a brontolare, aveva fame. Ma la fatica di accendere i fornelli e prepararsi qualcosa di decente batteva a mani basse i crampi allo stomaco: avrebbe mangiato qualche schifezza, spaparanzata sul divano, con il portatile sulle gambe. Mentre apriva la porta il mazzo di bollette le cadde dalle mani, si piegò per raccoglierle e quando si rialzò rimase immobile, pietrificata, con gli occhi spalancati e le labbra aperte dalla sorpresa. Le bollette le scivolarono di nuovo dalle mani e la borsa di libri andò a fargli compagnia sul pavimento.

Edward era lì.

Nella sua cucina, con un cesto di insalata in mano, un sorriso storto sulle labbra e il ricettario di sua madre sul tavolo. Quel pomeriggio, mentre lavorava, aveva deciso che era stanco dei presentimenti e che era arrivata l’ora di agire, di fare qualcosa per mettere i bastoni tra le ruote a quei brutti pensieri.

“Fai licenziare quel portiere, mi ha dato le chiavi come se niente fosse!”

Lui parlava, sorrideva, e lei lo guardava. Lo guardava senza dire e fare niente. Ed era bellissimo.

Bellissimo come non mai.

Rimase lì, con i libri sparpagliati intorno ai piedi nudi ed un paio di scarpe in mano.

Il suo sorriso, gli spaghetti fumanti nei piatti, la tavola apparecchiata. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per lei. Nessuno.

Mentre Edward la spronava a sedersi e le grattava il formaggio sulla pasta, non riuscì a non piangere di felicità.

  
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