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Autore: edwardandbella4evah    27/06/2011    8 recensioni
Courtney e Duncan ai tempi dell'Olocausto. Courtney è un'Ebrea, Duncan un soldato tedesco.
TRADUZIONE ♪
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan | Coppie: Duncan/Courtney
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale
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“Yaacov smettila!” ridacchiai giocosamente, spingendo il suddetto uomo via da me. Lui non mi ascoltò e mi strinse di nuovo alla vita, baciandomi la clavicola nonostante il mio ammonimento. Sospirai felice; le cose non sarebbero potute andare meglio. I miei occhi si spalancarono per una sconosciuta sensazione al collo che mi fece girare la testa, in senso positivo. Confusamente, mi ricordai dove ci trovavamo e lo spinsi via, contraddicendo completamente il mio precedente pensiero sulle cose che non sarebbero potute andare meglio.
Stavamo amoreggiando accanto alla familiare discarica,  essendo sgattaiolati furtivamente solo per poterci vedere. L’aria era pungente e faceva freddo attorno a noi; dovevamo stare vicini solo per riuscire a stare caldi nei nostri leggeri vestiti. Questo però non preoccupò affatto Yaacov, certamente non quanto preoccupasse me.  Oh Yaacov, il mio eterno ottimista. Niente lo preoccupava o lo faceva sentire di malumore da quando era arrivato nel campo:  né quando le guardie gli gridavano contro,  né quando suo cugino fu picchiato a sangue,  neanche quando fu picchiato lui stesso – il cui fatto sconvolse più me che lui- . Più e più volte gli avevo chiesto il perché; come poteva guardare avanti con un sorriso sul volto?
La sua risposta era stata semplice: finchè mi avesse avuta, sarebbe stato felice.
Eravamo stati insieme per tre settimane: tre gloriose settimane piene di gioia. Bè, tanto gloriose quanto potevano essere nel campo. Sgattaiolavamo di nascosto in giro spudoratamente, limonando dietro la discarica, toccandoci segretamente durante i viaggi alla pompa dell’acqua e così via. Mi sentii spudorata a fare tutte queste cose. Pensavo che Yaacov fosse l’unico per me; avevamo deciso di sposarci non appena avessimo lasciato il campo. Aveva senso rallentare la relazione e procedere passo per passo quando già sapevamo che non desideravamo nessun altro?
Ero cambiata nelle poche settimane in cui Yaacov era qui. Più spensierata, meno severa quando si trattava di seguire le regole. Rispettosa nei confronti delle guardie? Non ero in piena allerta quando venivano, la mia mente era confusa per i dolci baci di Yaacov e per i ricordi di dove mi toccava. Non ero pienamente consapevole quando si trattava di quello che stavamo facendo,  e le conseguenze di cosa poteva accadere si allontanavano pian piano dalla mia mente.
Non avevo mai smesso di considerare cosa sarebbe successo se una guardia ci avesse scoperti. Non avevo mai smesso di considerare cosa sarebbe successo se Duncan ci avesse scoperti.
Avrei dovuto stare attenta.
Avrei dovuto ricordare.
Duncan. Il nome mi fece rabbrividire (come ogni volta che lo vedevo o pensavo a lui) al pensiero di cosa gli stessi facendo alle spalle. Gli lasciavo fare quello che voleva adesso, con un ulteriore motivo in mente mentre mi stava facendo queste cose.  Ogni volta che mi baciava, fingevo fosse Yaacov. Riuscivo a ricambiare i suoi dolci baci e sentivo che stavo migliorando con queste cose.
Le cose erano cambiate tra me e Duncan. Non ero più costretta a fare nulla adesso; lo facevo col mio consenso personale, così da poter migliorare per quando lo facevo con Yaacov. Naturalmente, così come mi piaceva, le cose tra me e Duncan non erano andate oltre i baci e i tocchi, nulla di volgare.
Mi erano stati permessi una spazzola e un rossetto adesso. Mi ero lamentata con Duncan sul fatto che i miei capelli ricresciuti fossero così disordinati, e volendo accontentarmi – e perché me l’ero guadagnata nei miei limiti-  aveva acquistato una spazzola che mi era permesso usare ogni notte, quando andavo da lui. Il rossetto veniva dal mio primo incontro con Yaacov. Quando Duncan lo vide la prima volta, mi chiese perché ne avessi bisogno e dove lo avessi trovato. Io mentii e dissi che era per piacergli. La risposta gli piacque. Mi permise di metterlo, ma con la regola che solo lui poteva vedermi in quello stato. Quello che non sapeva non poteva ferirlo.
Avevo visto ammirazione e lussuria negli occhi di Duncan. Sapevo che mi desiderava. Sapevo che era attratto da me in qualche modo, e lo avevo usato a mio vantaggio. Potevo vedere il desiderio nei suoi occhi, e da qualche parte, nel profondo, sapevo che sarebbe stata solo una questione di tempo prima che fossi stata punita. Avevo provato a combatterla più a lungo che potevo,  e finora aveva funzionato.
Yaacov non sapeva di Duncan; non era necessario.
Non aveva senso rovinare la nostra relazione perfetta; soprattutto non per qualcuno ridicolo come Duncan. Yaacov non mi avrebbe chiesto nulla, poiché non aveva la più pallida idea di chi fosse Duncan, ed io sarei stata attenta a non dire nulla.
Sapevo che Yaacov era pronto a fare il passo successivo. Io no. Volevo aspettare fino a quando non fossimo stati sposati, seguendo le regole di papà, anche se non avevo pensato a lui per un po’: mi vergognavo troppo di cosa avrebbe pensato su quello che stavo facendo con Duncan. Yaacov pensava che ci sarebbero voluti mesi, forse anni per poterci sposare, e mi desiderava subito. Aveva tentato di tutto per sedurmi, e funzionava abbastanza bene. Pensare a tali pensieri mi riportò alla mia attuale situazione; mi resi conto soprattutto della sensazione delle sue labbra sul mio collo. Con molta riluttanza, lo spinsi via, mormorando un tranquillo “No, Yaacov. Ho detto non ancora”.
“Perché no, Babushka?”, chiese, piagnucolando un po’. Dovetti distogliere lo sguardo dai suoi convincenti, ardenti occhi verdi: ero sicura che un giorno sarebbero stati capaci di convincermi di fare qualunque cosa.  Non volevo che quel giorno fosse stato oggi.
“Perché, Yaacov, non sono pronta! Ho solo diciassette anni!” Lui si strinse nelle spalle, mi cinse i fianchi con le braccia e mi accarezzò dolcemente la zona lombare.
“Allora? Mia madre aveva quindici anni quando mi ha avuto, e mia sorella si è sposata quando ha compiuto sedici anni” Io ridacchiai, non potendo farne a meno.
“ Non sono tua madre, o tua sorella. Inoltre, ti ho detto che ti avrei sposato una volta fuori dal campo, non è vero?”
“Sì” rispose lui esasperato, imitando un’estrema esasperazione. “Ma potrebbero volerci mesi, anni. Ti voglio adesso. Voglio farti mia in questo istante” . Io storsi il naso al fatto che per lui andava bene fare l’amore in una discarica. Speravo in qualcosa di più romantico. Come dopo il nostro meraviglioso matrimonio, mi avrebbe presa tra le braccia, condotta nella nostra camera da letto, accarezzata dolcemente e poi…scossi la testa a tali pensieri. Sognare il futuro, non importa quanto lo desiderassi, sarei potuta restare delusa quando sarebbe arrivato.
“ Allora..allora…aspetta fino ai miei diciott’anni. Quando avrò diciott’anni potrai avermi. E accadrà solo tra un paio di mesi” supplicai, sperando disperatamente che il mio amato togliesse il broncio e riconquistasse quel suo sorriso allegro. Quando lo sguardo sul suo volto non scomparve, decisi di sostenere ulteriormente la mia causa. “ Yaacov, Papà non avrebbe mai approvato. Mi aveva sempre detto di restare pura e innocente fino al matrimonio”.
“Ah, sì? E dov’è questo cosiddetto Papà?” . Presi un respiro profondo, allontanandomi da lui e dalle sue braccia.
“ E’ morto. Morì quando avevo nove anni” dissi tranquillamente, cercando di non ricordare il terribile momento. Sentii Yaacov trattenere il respiro dietro di me, e poggiò la mano sulla mia spalla poco dopo. Non mi preoccupai di scrollarmela di dosso, non aveva senso arrabbiarmi con la persona che amavo, e in alcun modo avrebbe potuto saperlo.
“Channa…mi dispiace” sussurrò e mi abbracciò da dietro. Sì, non gli avevo permesso di chiamarmi Courtney, solo Channa. Il nome scivolava meglio sulla sua lingua, e mi dava la stessa meravigliosa sensazione di quando Papà lo pronunciava una volta.
“Va tutto bene, tutto bene” ripetevo, più per me che per lui; lo dicevo come se stessi tentando di rassicurare me stessa, non lui.
“Quindi, ai tuoi diciott’anni?”
“Diciott’anni” promisi, voltandomi verso di lui ed iniziando ad accarezzargli la guancia.
“Metzooyan” disse allegramente in ebraico,  facendomi ridacchiare mentre ci sporgevamo in avanti per unire le nostre labbra in un dolce bacio, portando a qualcosa di molto di più.
Non sapevo cosa ci fosse in serbo per me. Non sapevo che un paio di occhi ci avessero guardato tutto il tempo.
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Irrompendo nella mia stanza, presi a calci il muro, indignato, gli occhi ardenti di gelosia. Come si era permessa. Quella fottuta sudicia puttanella. Avevo abbassato la guardia, credendo che fosse un puro angioletto innocente,  e poi lei era strisciata dietro di me e mi aveva pugnalato alle spalle. Questa era la punizione che mi meritavo per essermi fidato e aver interagito con una sporca Ebrea.
Aveva trovato un nuovo amante, e un Ebreo per di più. Era innamorata di lui adesso, lo baciava, e probabilmente ci scopava anche. No, l’ultima parte non era vera, ricordai, rivedendo mentalmente la scena. Voleva far felice suo padre. Voleva aspettare fino al loro matrimonio. La sola parola mi fece venire voglia di vomitare tutte le loro scuse a buon mercato per una relazione. Sapevo perché lo stava facendo. Lei non lo amava, non poteva amarlo, lo davo per scontato. Voleva solo allontanarsi da me. Ma questo non spiegherebbe perché era così entusiasta nel baciarmi e nel toccarmi. Ero così confuso, così incazzato che volevo prenderla e seppellirla viva.
"Blvde fotze, du arschgefickter hrensohn!" gridai, più che incazzato sia con lei che con me stesso. Prinzessin era mia! Non lo sapeva! Avevo intenzione di uccidere prima quel figlio di puttana, e poi lei. Che possa essere stato maledetto se non l’avessi mandata ad essere gassata in questo preciso istante. Prendendo un profondo respiro, e calmandomi un po’, realizzai che ucciderla sul posto non sarebbe stato il modo giusto di sistemare le cose, neanche un po’. Proprio come lei era stata strappata via da me, adesso dovevo strapparle via ciò a cui lei teneva di più.
Pensava di essere così intelligente, mi prendeva in giro quando la vedevo, facendosi carina, solo per me. Solo che non era per me, era per quel sudicio figlio di puttana. Si metteva il rossetto e si spazzolava i capelli ricresciuti, dicendo che ero l’unico che poteva vederla in quello stato. Mi lasciava giocare con lei, mi permetteva di baciarla senza un lamento; ma adesso capivo. Probabilmente fingeva che io fossi il suo amante ebreo. Il pensiero mi fece sentire di merda: usato, sporco, e tradito.
Prinzessin la pagherà, la pagherà cara.
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Fu condotta nella stanza da un’altra guardia, la quale si comportò in modo obbediente, miserabile e scontroso solo per farsi notare. Una volta andato via lei camminò per la stanza, mettendosi a proprio agio, ignara di cosa avessi visto, e di cosa fosse in serbo per lei. La accolsi tra le mie braccia con grazia, non tradendo nulla se non pura devozione e ammirazione. Entrambi ci baciammo velocemente; lei era probabilmente così ansiosa di tornare dal suo amante ebreo, ed io ero ansioso di punirla. La piccola hure non aveva idea di cosa ci fosse in serbo per lei questa sera.
Come di routine, andò verso il mio specchio e si applicò il rossetto, rendendo le labbra piene e sporgenti,  ed io ricordai la notte in cui le avevo permesso di applicare il provocante oggetto, con la regola che non lo avrebbe mai messo al di fuori dei nostri incontri. Poi si spazzolò i capelli scompigliati, con la spazzola per cui mi aveva supplicato tanto a lungo. Ricordavo anche quella notte: non riusciva a sopportare i capelli arruffati, e mi supplicava. Ed io, desiderando rendere felice la mia Prinzessin, gliela avevo procurata. Ora, osservarla mentre si spazzolava i capelli – scompigliati molto probabilmente dallo stupido stronzo- , mi fece male allo stomaco. Non mi piaceva guardarla, mi faceva sentire come se la stessi portando nelle camere a gas in questo stesso istante.
Avevo commesso l’errore di cedere al suo fascino, alla sua innocenza, alla sua bellezza; ma quando l’avevo vista con lui avevo sentito tutta l’ammirazione, la lussuria, e il desiderio svanire in un istante. Aveva dimenticato tutte le lezioni che le avevo insegnato con fatica. Aveva sfruttato la mia debolezza nei confronti del suo tenore di vita a suo vantaggio ed era uscita ad amoreggiare con un pezzo di merda. Si credeva così carina, con i capelli ricresciuti, e il trucco. Dovevo cambiare tutto questo; lei non sembrerà mai più almeno un tantino attraente, non se avevo qualcosa da dire sull’argomento.
Senza un rumore arrivai alle sue spalle e la spinsi con forza contro il muro, lontano dallo specchio,  non potevo averla fatta svenire, non ancora. Lei fu colta di sorpresa ed io la costrinsi a guardarmi in faccia, schiaffeggiandola in viso quando distolse lo sguardo. Se non fosse stato per le mie braccia che la bloccavano, sarebbe indietreggiata per il duro colpo. Mi guardò con enormi occhi terrorizzati, non sapendo cosa aveva fatto di sbagliato. Se solo lo sapesse. La spinsi sul pavimento, ignorando le sue grida di dolore.
“Pensi che sia così stupido da non sapere cosa stava succedendo? Pensi che non l’avrei scoperto comunque!” gridai, vedendola rannicchiarsi dalla paura. Con un rapido movimento, le diedi un forte calcio su un fianco. Lei gridò dal dolore, stringendosi il fianco dolorante. Ignorai le sue grida, la rabbia prese il sopravvento. Non m’importava di nulla se non punirla e farle sentire il dolore, ancora e ancora finchè non avesse esentato quello che mi aveva fatto passare.
“Parla sudicia Hundin!” gridai, volendo sentire cosa avesse da dire per sé.
“Cosa…cosa ho fatto? Duncan…cos’ho fatto di male?” un po’ ansimò, un po’ soffocò in quanto l’avevo colpita con un altro calcio mentre stava parlando. Si prese il suo tempo per rispondere, poiché non era abituata ai danni che le stavo infliggendo; avrebbe dovuto parlare velocemente. Con un rapido colpo allo stomaco, cacciò fuori l’aria.
“Duncan!” ansimò dal dolore, crollando a terra, e ritraendosi dal dolore. Come osava quella cagna bugiarda usare il mio nome. Suonava vile sulla sua lingua; mi ricordava tutte le volte in cui l’aveva gemuto, brontolato, piagnucolato. E non era neanche per me. Era tutta una recita per poter ritornare dal suo nuovo amante. Non volevo sentirglielo più pronunciare; non ero suo amico, per niente. Soprattutto non dopo quel che aveva fatto,  e se avesse voluto di nuovo ogni sorta di “gentilezza” – sputai mentalmente alla parola- , ci sarebbero volute mille punizioni, favori e segni di pentimento.
“Perché mi chiami in quel modo, Hundin? Che diritto ne hai? Non sono tuo amico, non mi piaci neppure, sporca hure. D’ora in poi ti rivolgerai a me solo con “Signore”, sempre se ti chiedo di rivolgerti a me per qualunque cosa, pezzo di merda. E’ chiaro?”  ringhiai, godendo per quanto tremasse dalla paura, e per lo sguardo più che terrorizzato nei suoi occhi.  Stasera, avrei ignorato la mia coscienza denigratoria, ed avrei dato a Prinzessin la punizione che avrebbe dovuto avere fin dal momento in cui avevo posato gli occhi su di lei.
“S-s-sì, Signore” balbettò, sul punto di piangere. Le lacrime mi facevano sentire meglio; volevo che ne avesse pianto un oceano quando avrò finito con lei. La sollevai animatamente per un braccio, per poi lanciarla di lato poco dopo.
“Sai perché sono così arrabbiato” sussurrai brutalmente, rifiutandomi di guardarla.
“N-n-no, Signore” mentì. Questo mi fece incazzare ancora di più. Mi sedetti di fronte e riuscii a mettermi velocemente a cavalcioni su di lei, anche con la resistenza che offrì.
“Stai mentendo. Ora dimmi perché sono così arrabbiato con te” dissi pungente, le mie parole taglienti e forzate. I suoi occhi si spalancarono ed iniziò a singhiozzare di nuovo. Io non feci nulla: non mi mossi, non la picchiai, certamente non la confortai. Aspettai semplicemente.
“Dimmelo ora!” ruggii dopo dieci minuti buoni del suo inutile pianto. Non poteva neanche portare le mani al volto per asciugarsi gli occhi, era indifesa.
“Io…io sono sgattaiolata alle tue spalle…” singhiozzò infine, vergognandosi. “Ho trovato il mio amante, la mia anima gemella”. Non potei più sopportare le stronzate che mi stava rifilando. Le sputai in faccia; ciò le avrebbe insegnato a rifilarmi la sua fottuta storia d’amore. Era mia, di nessun altro. Decidevo io la sua vita. Decidevo io quando dormiva, quando mangiava, quando parlava, persino la vita della sua famiglia e dei suoi amici. Decidevo io la sua vita.
“Perché? Perché hai scelto lui?” chiesi, la mia voce fredda come la morte. Col tempo che avevo passato con lei avrebbe potuto desiderare di essere morta.
“Lui…lui mi ama” soffocò. Il solo commento mi bastò. Le diedi un forte pugno in faccia.
“Nessuno ti ama, fottuto, bugiardo pezzo di spazzatura!” Lei restò in silenzio, così potei continuare.
“Fottuta hure! Non appartieni a nessun altro! Tu sei mia! Mia, mia, mia!” sbraitai, afferrandola per i capelli e alzandola, non preoccupandomi di lasciarla andare.
“Pensi di essere così carina? Pensi che lui ami i tuoi bei capelli? Vedremo” dissi febbrilmente, guardando in giro per la stanza come un folle. Sul comò riuscii a trovare un grosso paio di forbici industriali, e gliele brandii minaccioso.
“ Oh no, Duncan, ti prego non farlo! Sono appena ricresciuti!” . Ringhiai: la prima regola infranta in meno di dieci minuti. Era cambiata, non mi ascoltava più. Le avrei insegnato una lezione, una lezione che non avrebbe mai, mai dimenticato. Aprendo velocemente le forbici, le tirai i capelli con il pugno teso, e, chiudendo velocemente le lame, osservai le corte, inermi ciocche marroni cadere sul pavimento. La guardai – singhiozzante sul pavimento, poiché era scivolata a terra quando avevo lasciato la presa - e sorrisi; ero riuscito a tagliare le ciocche molto vicine al cuoio capelluto, ma non era abbastanza. Le cesoie avrebbero rasato quello che le forbici non erano riuscite a tagliare. Ignorando le sue grida di protesta, le tagliai i capelli in modo maniacale finchè non vi fu più nulla da tagliare. Ora avrebbe ricordato, ogni volta che entrava e si guardava allo specchio,  avrebbe visto riflessa una testa calva, e avrebbe ricordato.
“Alzati, Hundin, ho intenzione di rasarti come un uomo” . Guardai con piacere come i suoi occhi si spalancarono, supplicandomi di non farlo. Non era stata soggetta a questo neanche il primo giorno. Ora avrebbe ricordato.
“Oh no, per favore no” supplicò ancora, le lacrime continuavano a scendere. “Per favore non farlo. Ti prometto che non succederà di nuovo”. Non mi presi nemmeno la briga di rispondere alla sua patetica supplica, la afferrai per un braccio e la trascinai allo specchio.
“Proprio per questo, devi guardare”. I suoi occhi furono sul punto di saltare fuori dalle orbite quando si rese conto del suo aspetto, ed io non persi tempo a metterle il rasoio manuale al centro della testa. Lei sussultò quando vide riflessa allo specchio una testa appena rasata. Sogghignai vittorioso, non più quel figlio di puttana l’avrebbe guardata con affetto e lussuria negli occhi.
“Ti piace quello che vedi, Prinzessin? Attraente non è vero?” . Lei si lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo in risposta; ma non avevo ancora finito con lei, per niente.
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Il sangue mi si raggelò. Violentata. Era quello il mio destino; lo sapevamo entrambi, fin dal momento in cui abbiamo incrociato per la prima volta i nostri sguardi. Non importa cosa avevo fatto in mio potere per impedirlo, era la conclusione di tutte le mie azioni.
“Smettila! Non farmi questo! Sei un mostro! Un sudicio, malato schmeisser tedesco! Lasciami andare!” . Lui mi diede una ginocchiata sulla pancia nuda ed io crollai dal dolore.
“Questo ti insegnerà che tu sei mia! Di nessun altro! Soprattutto non di quel figlio di puttana” mi afferrò per le spalle e le tenne strette, le sue sporche unghie scavavano nella mia pelle e vi lasciavano dei segni. “Questa pelle è mia” ringhiò stringendomi ovunque. Niente era stato lasciato intatto: né i seni, nè le cosce, o le gambe, neppure la pancia. Ero sicura che la mattina dopo sarei stata tutta nera e blu. Le sue mani di carta vetrata mi bruciavano tutta, la fredda aria della notte non riusciva nemmeno a darmi sollievo che lui premeva il suo corpo più duramente contro di me. Con una risata trionfante, premette la sua sudicia bocca contro la mia, la lingua vi entrò solo pochi secondi più tardi. Il suo alito era peggio del solito: potevo sentire più alcool, più veleno. Mi morse il labbro così forte che il sangue iniziò a defluire, e lui lo leccò vittorioso come un cane. “Questa sporca boccuccia è mia” . Le sue parole suonavano così familiari, ed io ricordai vagamente il dolore dell’ultima volta.
Yaacov, urlai mentalmente, dove sei? Perché non vieni a salvarmi? Dovevi essere tu il primo, non questo schmendrik. Papà, perché hai abbandonato me e la mamma? Perché non ti sei ripreso? Perché mi hai lasciato senza spiegarmi perché gli uomini fanno simili cose alle donne?
Non riuscii a concentrarmi molto su cosa Duncan mi stesse facendo, quando mi resi conto di cosa stava per accadere. Dovevo andare lontano.
Lontano.
Lontano…
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“Papà! Papà!” le gambe intorpidite mi trasportarono fino a casa, con una velocità di cui non sapevo fossi capace. Scuotendo la testa per cancellare le inquietanti, inappropriate visioni che mi scorrevano davanti agli occhi, corsi più veloce per poter andare da Papà.
Raggiungendo casa mia, spalancai la porta e filai dritta tra le braccia di mia mamma, piangendo nel suo grembiule e sperando che le cose che avevo visto si sarebbero sottratte alla mia mente in modo permanente. Le sue mani raggiunsero i miei capelli intorpiditi dal vento e li accarezzarono gentilmente, e lei cercò di chiedermi cosa c’era che non andava. Non funzionò, volevo solo Papà; Papà avrebbe capito. Mi avrebbe detto come migliorare le cose. Mamma sembrò capire – molto probabilmente perché avevo continuato a gridare il suo nome mentre piangevo- e andò a chiamarlo, depositandomi sul tavolo da pranzo, mentre io ancora singhiozzavo. Papà arrivò velocemente, circondandomi con le sue braccia e conducendomi nel suo studio, dove potevamo parlare in privato.
“Channa, ma kara?” mi chiese in ebraico, sapendo che la lingua calda e familiare mi avrebbe confortato più del solito inglese. Cercai di asciugarmi gli occhi da tutte le lacrime, ma non funzionò: ne scesero ancora di più. Quando non riuscii a rispondere, fece sedere la mia tremante figura sulle sue ginocchia, tenendomi e dondolandomi leggermente. Finalmente, riuscii a calmarmi e sentirmi di nuovo al sicuro.
“Papà, Papà, ho visto…un uomo e una donna…e stavano facendo…ma lui le stava facendo male! Mi hai raccontato che tu lo facevi solo con qualcuno che amavi!” I suoi occhi rugosi si socchiusero confusi, e mi sollevò il viso per incontrare i miei.
“Cosa hai visto?”
“Un uomo, e una donna. E stavano facendo l’amore…ma Papà, lei non voleva farlo! E lui la costringeva! Le aveva strappato di dosso i vestiti…e…e…” ecco che iniziai a piagnucolare di nuovo sulla camicia di Papà, inalando l’odore familiare di tabacco e cannella. Allora lui mi circondò con le braccia, confortandomi più che poteva.
“Perché, Papà? Perché mi hai mentito? Mi hai raccontato che lo fanno solo i mariti e le mogli quando si amano. O quando vogliono fare un bambino” Il suo volto allora si rabbuiò, suscitando in me un tipo di paura che non pensavo fosse possibile.
“Channa, quello che stavano facendo non era un atto d’amore. Era molto peggio; e solo la più bassa, egoista e malvagia razza di gente lo farebbe”
“Ma, Papà, perché? Perché dovrebbero farlo?”
“Perché vogliono delle cose. Cose che sei troppo giovane per sapere. Mi dispiace davvero che tu abbia dovuto vederlo, Channa. Non è giusto”. Annuii, sentendomi al sicuro contro il suo petto.
“Papà, non permetterai mai che mi facciano una cosa del genere, giusto?” . Lui mi strinse più forte, piantandomi un bacio sulla fronte arrossata.
“Mai”.
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Un acuto dolore mi costrinse ad aprire gli occhi. Non potevo più fingere o fuggire da quella situazione; Duncan era dentro di me. Mi stava violentando.
Faceva male, mio dio se faceva male. Tentai di spingerlo via, mi strinsi più forte attorno a lui, ma nulla di questo funzionò; avrebbe solo spinto all’interno più duramente. Le mie grida furono smorzate dalla mia stessa mano, ma lui me l’afferrò e spinse ancora di più.
“Voglio sentirti soffrire” . Non gli avrei dato questo piacere, non potevo. Ma, quando sentii qualcosa rompersi dentro di me, non potei più trattenermi. Iniziai a gridare e singhiozzare; andata. L’ultimo frammento di innocenza che avevo; andato. Mi aveva preso tutto; era stata tutta colpa mia, tutta colpa mia per aver flirtato con Yaacov. Lo guardai in volto, stava ghignando ampiamente soddisfatto.
“Ora non potrai mai essere sua. Sarai per sempre mia. Spero che tuo padre sia certamente orgoglioso di te adesso, piccola hure” . Papà…Papà. Perché mi hai mentito? Mi avevi detto che questo non mi sarebbe mai accaduto. Mi avevi promesso che mi avresti sempre protetto; mi avevi promesso che ci saresti sempre stato per me.
Chi era rimasto a proteggermi adesso?
Nessuno.
Nessuno mi avrebbe voluta adesso. Tutti avrebbero scoperto abbastanza presto questo atto malizioso; neanche il mio Yaacov mi avrebbe voluta.
Non avrei mai più infranto le regole. Non avrei mai più fatto un passo falso.
Avrei ricordato. Ricordato la punizione.
Dopo un’ eternità di dolore, uscì fuori da me. Non avevo smesso di piangere, non ne avevo intenzione. Mi faceva male tutto; non ero sicura di potermi alzare in piedi. Lui si alzò e si vestì, voltandosi a guardarmi solo dopo aver fatto. Sogghignò per la mia figura tremante e in lacrime.
“Vestiti. Spero tu abbia imparato la lezione, stasera. Ma la tua punizione non è ancora finita. Aspetta cosa farò al tuo prezioso amante” . Senza un rumore uscì dalla stanza, lasciandomi al buio sul pavimento.
  
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