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Autore: LauFleur    04/07/2011    20 recensioni
Edward Cullen: un ragazzo, un figlio, un fratello. Un figlio costretto a rimettere insieme i pezzi di ciò che i suoi genitori hanno frantumato. Un fratello tormentato dal pensiero che la felicità di sua sorella sia minacciata dalla tristezza delle loro vite. Un ragazzo ossessionato da Isabella Swan, la donna che riesce a calmare quel mare in tempesta che è diventata la sua vita.
[Rating rosso per il primo extra.]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Grazie, grazie, grazie

Grazie, grazie, grazie.

Continuate a dimostrarmi affetto, e io continuo a ringraziarvi di cuore.

Questo capitolo è stato difficile da scrivere, ma è stato anche uno di quelli che mi ha coinvolta ed entusiasmata di più. Spero piaccia anche a voi, e che non arriviate ad odiarmi troppo.

Dimenticavo: aspettatevi un regalino in settimana…

___________________

 

 

Capitolo 7 – Scontri

 

Esme stava sempre peggio. Edward non riusciva più a capire quando era sveglia e quando dormiva, stava per ore chiusa in camera sua, usciva di casa sempre meno. Si accorgeva dei suoi sforzi: ce la metteva tutta per stare in piedi, per non piegarsi, per non deluderli. Eppure, tutto il resto - tutto quello che riusciva a schiacciarla -  vinceva. Vinceva sulle dimostrazioni di amore per i suoi figli e sulle dimostrazioni di forza per il suo ex marito.

Quella mattina era una delle peggiori. Edward aveva accompagnato Rosalie a scuola ed aveva ancora una volta la mattinata libera. Ma quelle ore che avrebbe dovuto impiegare nel fare le lavatrici, pulire la casa e preparare qualcosa per pranzo, le aveva trascorse reggendo la testa di sua madre mentre vomitava. Non riusciva a riprendersi, non riusciva a stare in piedi, non riusciva a tenersi nello stomaco tutta la merda che aveva bevuto. Verso l’ora di pranzo, Edward si era vestito per uscire, preparandosi a lasciarla sola. Ma, all’ultimo minuto, un’altra ricaduta: Esme aveva ricominciato a vomitare, questa volta proprio sui suoi jeans. E siccome non aveva avuto tempo per fare le lavatrici, non c’erano pantaloni puliti che potesse indossare. L’unica soluzione su cui era riuscito a ripiegare era un misero colpo di spugna. Infine, bestemmiando, aveva pedalato nel freddo fino a raggiungere la scuola.

Era lì, appoggiato al cofano di una macchina, con una chiazza scura sui jeans, e si sforzava di respirare a ritmo regolare per smaltire la rabbia. Inspirava veleno e sputava aria buona. Ancora non era arrivato nessun genitore ed il cortile era completamente vuoto. Vide il portone aprirsi e, per un istante, sperò in una ventata di buonumore: fa che Bella sia uscita prima, fa che abbia finito la lezione in anticipo e che mi possa venire a salutare senza che nessuno ci guardi, fa che sia lei. Ed invece, da quello spiraglio apparve un abito scuro, una camicia bianca, un volto abbronzato. Con una ventiquattrore in una mano ed un quotidiano arrotolato nell’altra. Si avvicinò a grandi falcate, passò davanti ad Edward ed invece di ignorarlo continuando a camminare, come il ragazzo si aspettava che facesse, gli si piazzò davanti.

Edward alzò le sopracciglia, ed in quel minuscolo movimento c’era un mondo intero di tacite domande ed una sola ma enorme affermazione: non è giornata.

La bocca del preside Whitlock si deformò in una smorfia, una specie di sorriso bastardo, che ad Edward ricordò la superiorità con cui si atteggiava l’avvocato di suo padre.

Non lo salutò, non si presentò, l’unica cosa che disse fu: “Credi di avere speranze, ragazzino?”

Le mani gli cominciarono a pizzicare, la mascella di colpo si tese. Chiuse i pugni, affondò le unghie nella pelle. Tutto, pur di non prendere a pugni il preside nel cortile della scuola. Perché era proprio quello che avrebbe voluto fare: dimostrargli quante speranze aveva a suon di cazzotti nei denti.

“Come scusi?” La voce non era sicura e minacciosa come avrebbe voluto, e si maledì in silenzio.

Il preside tirò fuori le chiavi della macchina dalla tasca dei pantaloni, ci giocò passandosele tra le dita e poi tornò a fissarlo. “Che maleducato, non mi sono neanche presentato. Sono il Professor Jasper Whitlock, è un piacere.

“Piacere tutto suo, professore.”

“Dammi pure del tu.”

“Mi hanno insegnato a dare del lei alle persone anziane.”

“Come ti pare. E, comunque, fossi in te mi pulirei prima che lei ti veda.” lo prese in giro, indicando con la testa i jeans macchiati.

Nelle orecchie di Edward quelle parole risuonarono come una sfida di guerra. Stava per scoppiare, e l’allusione a Bella non faceva altro che peggiorare la situazione. Strinse ancora più forte i pugni e serrò la mascella. Jasper, accorgendosi che le sue provocazioni non trovavano risposta, affondò il colpo.

“Che c’è, te la sei fatta addosso?” rise.

Eccola, la goccia che faceva traboccare il vaso. Riuscì a non rispondere con la violenza, ma lo fece con l’arma che una vita intera con suo padre gli aveva insegnato a maneggiare alla perfezione: le parole.

“No, signor Whitlock. È che sua madre non riesce più a succhiare bene come faceva una volta.

Riuscì, nello stesso tempo, a risultare composto e volgare. Vide l’espressione dell’altro cambiare di secondo in secondo: l’arroganza fece posto allo stupore, la superiorità sparì ed apparve lo sbalordimento.

“Ma come ti permetti? Ti consiglio di stare attento a quello che dici, ragazzino.

Gli puntò un dito contro, sbuffò dal naso, poi girò i tacchi e se ne andò.

“Non si preoccupi per me, nonno.” gli gridò dietro Edward, mentre il preside era impegnato a salire sulla sua Mercedes.

 

Staccò verso le sette e mezza, esultando per non aver dovuto sopportare un altro turno. Nel pomeriggio era passata Bella. Doveva correggere dei compiti ed organizzare alcune lezioni. Si era piazzata in un tavolino in disparte e non aveva mai smesso di ordinare cibo e bevande, tutto per poter scambiare due chiacchiere con il cameriere che le piaceva tanto. Rivederla in quel locale, con il menù sotto gli occhi, la borsa e il cappotto abbandonati sulle sedie, aveva fatto tornare il buonumore. Edward si era accorto che, quando si trattava di Bella, bastava davvero poco per farlo sentire improvvisamente leggero.

Pensava proprio a quella meravigliosa sensazione di leggerezza mentre apriva la porta di casa e si preparava ad organizzare una cena con gli avanzi del pranzo. Ma ormai sapeva benissimo che, nelle stesso imprevedibile modo con cui Bella riusciva a risollevarlo, quella casa nascondeva sempre qualche trappola per farlo inciampare di nuovo. Ed infatti, come da copione, gli bastò respirare un paio di boccate d’aria in quelle stanze avvelenate e la leggerezza di colpo sparì. Si dissolse quando vide Rosalie, seduta sul divano, con le mani incrociate sul petto e gli occhi tristi.

“Che è successo?” Quando le parole uscirono, Edward si accorse che non c’era preoccupazione nella sua voce, solo rassegnazione.

Sua sorella afferrò con entrambe le mani l’orlo del delizioso abito che indossava: la gonna si aprì come se fosse un ventaglio. Di solito era felice quando sua madre le permetteva di indossare quel vestito, ma questa volta nei suoi occhi non c’era eccitazione, vanità, soddisfazione. C’era solo tristezza, sgomento e… rassegnazione.

“Devi indossare l’abito quello bello, quello scuro, quello con la cravatta. E devi essere pronto entro dieci minuti.”

“Che succede tra dieci minuti?”

“Arriva papà.”

“Cosa?”

A quel punto, Esme comparve dalla porta della cucina. Era in pigiama, il volto pallido, la voce fioca. “Ha telefonato tuo padre. Ha detto che alle otto vi passa a prendere e vi porta a cena fuori. Voi due, lui e quell’altra.”

“E perché cazzo non gli hai detto no?” sbottò lui.

“Ha detto di vestirsi bene.” aggiunse, come se Edward non avesse mai parlato. Poi gli dette le spalle ed iniziò a salire le scale, pronta a raggiungere quell’isola di infelicità che era la sua stanza.

“Mamma!” La voce di Edward la rincorse su per i gradini. “Cazzo!” Ed era già sparita.

Edward, con una forza tale da rischiare di rompere la cerniera, si tolse il piumino e lo lanciò sul pavimento. Si portò le mani incrociate dietro la nuca e chiuse gli occhi.

Che ho combinato nella mia vita precedente per meritarmi tutta questa merda?

“L’ho vista mentre parlava a telefono con papà.” sussurrò Rosalie, lo sguardo fisso su suo fratello. “Non diceva niente, piangeva e basta. Stava male Edward, non ce la faceva a parlare, per questo non gli ha detto no.

Edward la guardò. Si specchiò nel verde degli occhi di sua sorella e, di colpo, si rese conto di quanto fossero vicini. Gli stessi occhi, lo stesso sangue, la stesse pelle. E ringraziò Dio per quella vicinanza.

“Lo so.” mormorò, sconfitto dalla realtà delle loro vite.

“Non lo indosserai il vestito bello, vero?”

Aveva ragione, eccome se aveva ragione. Il minimo che potesse fare per ribellarsi era disobbedire all’unico ordine che suo padre si era permesso di impartire, senza averne nessun diritto.

Guardò l’orologio, erano quasi le otto. Si lasciò cadere sul divano, la schiena stanca esultò a contatto con la spalliera morbida. Allargò le braccia, lasciò che Rosalie si avvicinasse. Lei posò la testa sul petto del fratello, appoggiò la mano sulla maglietta macchiata che puzzava di fatica e di lavoro.

Parlò sui suoi capelli biondi. “No, non credo proprio che indosserò il vestito bello.”

E sua sorella rise.

 

Il viaggio in auto era stato carico di silenzio ed imbarazzo, gli unici rumori erano il motore potente che gridava ad ogni spinta sull’acceleratore, le ruote che scivolavano sull’asfalto, e la delicata voce di Tania che ad intervalli regolari tentava di sviluppare una conversazione con il suo compagno. E quel silenzio e quell’imbarazzo li seguirono anche nel ristorante, al tavolo appartato che la coppia aveva prenotato.

Edward guardava suo padre, seduto proprio di fronte a lui. Scrutava i suoi occhi di ghiaccio, e si chiedeva in quale parte del corpo si fosse nascosto il Carlisle disperato, piegato dal dolore e dall’impotenza che aveva intravisto quel pomeriggio, in mezzo alla strada, sotto lo studio dell’avvocato. Forse non era mai esistito, forse era solo la fantasia di un figlio che si ostina a credere che suo padre abbia un cuore.

Anche Carlisle lo guardava. Non negli occhi, per quello ci voleva un quantità di coraggio che per ora gli mancava. Guardava quella maledetta maglietta, i capelli spettinati, il suo modo disordinato di stare seduto. Sentiva l’odio e il disprezzo che il corpo di suo figlio sprigionava e, per difendersi, usò lo stesso identico disprezzo rivolgendogli la parola.

“Ti sembra il modo di presentarsi in un locale del genere?”

Edward aveva smesso di guardarlo, con gli occhi bassi ispezionava il menù, anche se in realtà non leggeva neanche una parola. “È il mio fascino.”

“Sei sempre il solito…” scosse la testa, la bocca deformata in una smorfia.

“Menomale.” E lo disse con una tale convinzione che Rosalie e Tania rabbrividirono.

Poco dopo arrivò il cameriere per prendere le ordinazioni. Il ragazzo con il grembiule alla vita ed un arnese elettronico in mano dette una rapida occhiata al tavolo, e il suo volto si macchiò di disagio: perfino lui non reggeva tutta la tensione accumulata su quelle sedie.

Carlisle disse, con aria solenne e ruffiana, che quello era il miglior ristorante di pesce della zona. Dopodiché, ordinò tre o quattro antipasti, spaghetti all’astice e aragosta. Ordinò per sé e per la sua compagna, che non aveva ancora aperto bocca.

“Allora,” Edward smise di consultare il menù e si rivolse al cameriere, imitando e scimmiottando il modo di fare di Carlisle. “Forse mio padre si è scordato, oppure non l’ha proprio mai saputo, che a me e a mia sorella il pesce fa schifo. Quindi, per noi due… crostini e affettati misti, una bistecca – al sangue mi raccomando, non mi costringa a rimandarla indietro – insalata verde e patatine fritte.

Il cameriere annotò l’ordinazione. Edward, rivolgendosi a sua sorella, aggiunse: “Va bene, cara?”

“Tante patatine fritte!” rispose Rosalie, già più a suo agio. Sorrise a suo fratello e, dall’altra parte del tavolo, quell’improvvisa ondata di spensieratezza contagiò le labbra di Tania.

Carlisle aspettò che il cameriere si fosse allontanato e, schiarendosi la voce, riprese a parlare. Si rivolse a Rosalie, con un tono che voleva essere gentile ma che alle orecchie di Edward risuonò soltanto ridicolo. “Allora, piccola? Come va la scuola?”

Il sorriso sulle labbra della bambina scemò, lasciando la bocca chiusa in un’espressione tesa. “Bene.”

Carlisle, già tornato nella sua solita bolla di silenzio, sembrava addirittura più imbarazzato di lei. Intervenne Tania in suo aiuto. “Con i compagni di classe ti trovi bene? Con le maestre?”

Rosalie annuì, ed il sorriso tornò ad aprirsi quando disse: “Sono tutti molto simpatici, mi piacciono, e anche Edward si trova benissimo con le maestr-

Fu interrotta dalla gomitata di suo fratello, che per poco non la fece cadere dalla sedia. E mentre lui le lanciava un’occhiataccia, Tania li guardava curiosi e Carlisle li scrutava sospettoso, lei rise di gusto.

La cena proseguì nel silenzio, con le occhiate complici dei due fratelli e l’inadeguatezza stampata sul volto degli altri due. Toccarono il punto di maggiore imbarazzo quando Tania domandò ad Edward se avesse la fidanzatina. Glielo chiese senza cattiveria, senza malizia, ma venne fuori una domanda che poteva benissimo essere rivolta ad un ragazzino di dodici anni. Edward la guardò come se potesse sbranarle la faccia, mentre Tania diventava paonazza e provava a scusarsi con lo sguardo mortificato.

Avevano finito il secondo e stava quasi per arrivare il dolce, ed Edward stava già assaporando l’aria di libertà che lo aspettava fuori dal ristorante, quando le cose iniziarono a rotolare. Carlisle appoggiò i gomiti sul tavolo e Tania si sistemò meglio sulla sedia a rotelle. Edward li guardò negli occhi e capì che stavano per sganciare una bomba.

Sentite, ragazzi.” iniziò suo padre, con la voce impostata. “Io e Tania dobbiamo parlarvi di una cosa.”

I suoi figli non risposero, si limitarono a guardarlo negli occhi.

“Vi vogliamo proporre una cosa… una soluzione, chiamiamola così. So che all’inizio vi sembrerà assurda e penserete che sia impossibile anche solo prenderla in considerazione, ma credo sia la cosa più giusta da fare. Per noi, per voi, per tutti. Non è necessario che rispondiate subito, potete ascoltare quello che abbiamo da dire e pensarci un po’. Non vi stiamo obbligand-

“Forza Carlisle, spara.” Edward iniziava ad innervosirsi.

“Ho capito che vostra madre non sta bene. Si vede, è evidente. Non so che problema abbia, ma-“

Carlisle.” Questa volta, nella voce, oltre al nervoso c’era la rabbia.

E la bomba fu sganciata. “Venite a vivere con noi. Andiamo a vivere insieme, noi quattro.”

Contemporaneamente, Rosalie abbassò la testa e Edward si lasciò andare ad una risata, del tutto priva di divertimento. Suo padre ignorò quel suono agghiacciante e continuò: “Sceglieremo una bella casa, ne abbiamo già viste alcune. Staremo bene, le cose miglioreranno.”

In un istante, con un ringhio che sembrava provenire dalla gola di un animale, Edward fu in piedi. La sedia rovesciata ai suoi piedi, gli occhi iniettati di rabbia, l’indice puntato contro suo padre e tutta la sala in silenzio, con gli occhi gravitati su di loro.

“Zitto!” ruggì. “Devi stare zitto. Non hai il diritto di parlare, non hai il diritto di buttarci addosso ancora altra merda. Chi sei? Si può sapere? Non ti conosciamo nemmeno. Spiegami chi cazzo sei, cosa vuoi da noi e dove hai trovato il coraggio per guardarci dritti negli occhi e aprire la bocca. Non sei un padre, per me non sei nemmeno un uomo.

Si alzò anche Carlisle, mentre Tania, con le lacrime agli occhi, lo teneva per un braccio.

“Non ti permett-“ ma suo figlio lo interruppe di nuovo.

“Hai fatto una sola cosa giusta nella vita, una: levarti dalle palle. E se avessi continuato a farti i cazzi tuoi, forse avremmo avuto una possibilità per stare bene davvero. Non ti permetto di parlare di nostra madre, se lo rifai giuro su Dio che ti sputo in faccia. Non ti permetto di parlare della sua salute, della sua vita, di come riesce ad essere un genitore. Ti dirò di più: lei, con i suoi problemi, le sue ricadute, le sue debolezze, in confronto a te è un gigante.

Si allontanò di qualche centimetro dal tavolo, smise di stringere il bordo di legno. Respirò a grandi polmoni e fece scivolare lo sguardo da Carlisle a Tania, poi di nuovo su suo padre.

“Qual era la vostra grande idea? La soluzione… Caricarci su una macchina, nemmeno fossimo due pacchetti da consegnare, e piazzarci in una casa? Una bella villa con piscina, magari insieme ad un bel cane, per formare la famiglia perfetta. La famiglia impeccabile che hai sempre voluto, eh Carlisle?

Lo guardò, e per poco non gli venne da vomitare.

“Solo un’altra cosa, e poi sparisco: ci vedi, noi due?” Si indicò il petto e subito dopo puntò il dito verso Rosalie. “Noi due, noi due siamo una famiglia. Io e mia sorella, non il ridicolo teatrino che hai messo in piedi stasera.

Controllò la voglia di sputargli davvero e di mandare affanculo tutti quelli che li stavano osservando al di là dei loro piatti stracolmi di cibo prelibato. Afferrò lo schienale della sedia abbandonata sul pavimento, la sollevò e la rimise al suo posto. Poi prese Rosalie in braccio e se la caricò su un fianco. Se ne andò a grandi passi, con lo stomaco sottosopra e la testa che minacciava di scoppiare.

“Scusami.” sussurrò all’orecchio di sua sorella.

Non sapeva, però, che Rose non aveva niente da scusargli e che gli sarebbe stata per sempre grata per aver pronunciato quelle parole, che erano la fotocopia dei suoi pensieri ma che lei non avrebbe mai avuto la forza e la capacità di dire.

 

 

 

 

 

  
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