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Autore: LauFleur    11/07/2011    32 recensioni
Edward Cullen: un ragazzo, un figlio, un fratello. Un figlio costretto a rimettere insieme i pezzi di ciò che i suoi genitori hanno frantumato. Un fratello tormentato dal pensiero che la felicità di sua sorella sia minacciata dalla tristezza delle loro vite. Un ragazzo ossessionato da Isabella Swan, la donna che riesce a calmare quel mare in tempesta che è diventata la sua vita.
[Rating rosso per il primo extra.]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Grazie per la risposta all’ultimo capitolo. Grazie, grazie, grazie.

E’ anche per “colpa” del vostro affetto se mi intristisce così tanto arrivare alla fine.

Eccovi l’ultimo capitolo. L’epilogo arriverà lunedì prossimo.

____________________

 

 

Capitolo 9 – Miraggio

 

4 settimane dopo

 

Buttò le chiavi della macchina nella tasca dello zaino, salutò con un occhiolino la donna seduta al di là del bancone e scese le scale mangiandosi i gradini due a due. Raggiunse il suo solito posto, il suo preferito, quello che lo aveva ospitato nelle ultime tre settimane. Gli scaffali formavano un corridoio stretto e poi un piccolo meandro, occupato soltanto da altri libri, un tavolino, una lampada e una sedia. La sua isola di pace. Lontana dal chiacchiericcio e dal resto del mondo.

Edward aveva conquistato la simpatia della bibliotecaria fin dal primo giorno, e dopo qualche chiacchierata e una tazza di caffè consegnata regolarmente al suo bancone ogni mattina, gli aveva permesso di rintanarsi in quel buco, dove riusciva a trovare silenzio e concentrazione.

Si lasciò cadere sulla sedia, aprì lo zaino ed afferrò il manuale. Sorseggiò il caffè, preparandosi ad un’altra mattinata di studio. Nemmeno un minuto libero, un minuto di vuoto, un minuto per pensare. Tutti movimenti meccanici, già provati, imparati a memoria.

Carlisle aveva mantenuto la parola ed aveva iniziato ad inviare i soldi, arretrati compresi. Non aveva sgarrato di un dollaro. Una boccata d’aria per le loro tasche sempre più pericolosamente leggere. Aveva comprato anche un’auto, un SUV nero scelto da lui, che Edward ed Esme condividevano. Non riusciva ancora a parlare con i suoi figli, spiegare le sue difficoltà, scusarsi per i suoi sbagli. Non riusciva a mostrare quell’uomo che voleva disperatamente essere, e che solo Tania vedeva. Non sapeva dire Scusatemi, non so fare il padre, quelle maledette parole non ne volevano proprio sapere di uscire, e allora li riempiva di silenzi e di Ecco, i soldi e la macchina. Prendete quello che vi posso dare. Quello che vi so dare.

La prima volta che si erano rivisti, padre e figlio, dopo quella sera al ristorante, non avevano fatto cenno alla discussione. Anzi, non si erano proprio rivolti parola. Quella litigata era rimasta accantonata in un angolo, sotterrata dalle urla di Edward e dal senso di colpa che sembrava aver sommerso Carlisle e Tania.

Tania, lei continuava a provarci: faceva domande, era cortese, raccontava piccoli aneddoti che le sembravano divertenti, sorrideva, si interessava alle loro vite. E quell’interesse sembrava davvero sincero. Quel sorriso un po’ imbarazzato e un po’ fuori luogo che aveva accolto Edward quella sera alla porta, ancora non se n’era andato. La voglia di conquistarli, riuscire a farli sorridere, costruire un rapporto che non fosse solo silenzio ed imbarazzo, ancora la animava. E la sua perseveranza aveva dato dei piccoli frutti: Edward sembrava sempre più a suo agio in sua compagnia. Rosalie, invece, aveva ancora un bel po’ di strada da fare. La rabbia che negli ultimi mesi aveva nascosto con cura sotto strati di pelle e i pensieri che la tormentavano ma che non riusciva a condividere con nessuno, costruivano un ostacolo dopo l’altro sulla sua strada verso la serenità.

Avevano assaggiato la stessa rabbia, i due fratelli. Avevano respirato lo stesso veleno. Ma Edward, quella rabbia, l’aveva sempre buttata fuori: sputata sulla faccia di suo padre, sulle spalle piegate di sua madre, negli abbracci di Bella, sui marciapiedi chiazzati di vomito. E la sua incapacità di stare zitto e lasciar correre gli avevano salvato la vita, anche se lui ancora non lo sapeva.

Aprì il libro, incastrò tra le dita un evidenziatore, si passò una mano tra i capelli.

Sua madre l’aveva costretto a licenziarsi dalla RoadHouse, voleva che ricominciasse ad impegnarsi negli studi. Lui aveva avuto qualche dubbio, temeva che qualcosa andasse storto, che suo padre smettesse di inviare soldi e che i problemi finanziari tornassero – perché è così che succede sempre, no? L’aveva imparato bene – ma alla fine aveva ceduto. Aveva vinto il suo istinto di sopravvivenza, quella piccola vena di egoismo che lo pregava di non farsi schiacciare da colpe non sue. Così, con indescrivibile soddisfazione, aveva salutato Jacob Black, quel bancone strofinato fin troppe volte, quel pavimento che non avrebbe mai più dovuto spazzare, ed aveva ricominciato a camminare sulla strada tracciata mese dopo mese nella sua testa. Era libero, libero. Aveva richiesto dei colloqui con i docenti del college, si era procurato i libri di testo ed aveva iniziato subito a studiare, sperando di riuscire a dare esami appena i corsi fossero iniziati. Voleva provare, riuscire, non deludersi.

 

All’ora di pranzo, si prese una pausa per mangiare un panino al volo e, prima di iniziare a ripetere un nuovo paragrafo, prese il cellulare e compose il numero di casa.

Altri movimenti meccanici, provati, imparati. Un altro breve copione da seguire alla perfezione senza lasciarsi trascinare dai pensieri.

“Pronto?” Era sua sorella.

“Sono io. Come va?”

“Bene,” la voce sembrava leggera. “Mamma è venuta a prendermi a scuola, ora sta lavando i piatti. Tra poco inizio a fare i compiti e lei ha detto che mi aiuta.”

“A scuola com’è andata?”

“Ho preso ottimo alla verifica di matematica!”

“Brava, piccolo genio.”

E poi, traditore, calò il silenzio. Una falla nel sistema, una pagina bianca del copione, un buco non previsto. Un silenzio, però, simile a tanti altri nei quali si erano imbattuti nelle ultime settimane. Un silenzio durante il quale Edward avrebbe voluto chiederle qualcosa, qualsiasi cosa, sulla sua maestra, sulla signorina Swan: Come sta? Sorride? Sembra triste? Quel pezzo di merda del preside le gira ancora intorno? Lui ha sempre il naso fasciato? E gli occhi neri?

Fu Rosalie ad interrompere il fiume di delirio. “Ti passo la mamma, ti vuole parlare.”

“Edward,” sua madre prese la cornetta ed intanto Rosalie in sottofondo iniziava a canticchiare la sigla di un cartone animato. “Ti dispiace tornare un po’ prima stasera? Avrei un incontro.”

Era così che chiamava le chiacchierate che l’aiutavano a rimanere a galla. Aveva mantenuto la promessa che aveva pronunciato a se stessa e a suoi figli, e si era presentata in quell’edificio spoglio ma accogliente. Con la paura che le immobilizzava le gambe e l’ansia che le serrava la gola. Ma ce l’aveva fatta, ci era riuscita. Inizialmente si era limitata a stare in silenzio, in angolo, con il desiderio di nascondersi per rimanere inosservata. Poi le cose erano andate avanti da sole, l’ansia e la paura si erano affievolite fino a sparire, la bocca e il cuore si era aperti lasciando scivolare parole, ricordi e dolore. Era ancora all’inizio, tutto era difficile e faticoso, e le ricadute erano dietro l’angolo, ad aspettare affamate il primo momento di debolezza. Ma adesso sentiva che poteva vincerle. E guarire, vivere, respirare.

“Certo, mamma. E non ti preoccupare per la cena, ci penso io.”

“Sei un tesoro.”

Quando riattaccò un nodo gli serrò la gola. Vide la mano tremare e, per un attimo, abbandonò quell’illusione di serenità nella quale viveva da giorni ed ammise la verità: ho paura. Ancora una volta. Aveva una fottuta paura di tutte quelle cose che si stavano aggiustando, ma che ancora scricchiolavano. E visto che c’era ne ammise un’altra, di verità: mi manca Bella. Era stanco di non averla. Sulle mani, tra le braccia, sulle labbra. Non nel cuore, perché lì c’era ancora. C’era sempre stata.

Le speranze che potesse perdonarlo erano svanite lentamente, mentre i giorni passavano e si faceva largo la convinzione di averla persa per sempre. Edward aveva accompagnato a scuola Rosalie ogni mattina, ma Bella non si faceva più vedere sul portone. Aveva provato a chiamarla, ma lei non rispondeva. L’aveva aspettata per ore sotto casa, ma non si presentava. Forse viveva da lui, forse era riuscita a convincerlo a non sporgere denuncia portandoselo a letto, forse in quei bei capelli brizzolati e in quelle piccole rughe da uomo vissuto aveva trovato quello che cercava. Forse aveva cambiato città, forse non era mai esistita. E il film, che Edward si proiettava in testa almeno un paio di volte al giorno, andava avanti.

Respirò a fondo, si passò una mano sulla faccia e provò a scordarsi come si chiamava, dove si trovava, chi lo conosceva e come viveva. Cancellò tutto, lasciando vivo soltanto il libro aperto sul tavolo. Era quella l’unica cosa che adesso doveva esistere.

Ma il destino, o qualunque cosa governi tutti quanti, sapeva benissimo che quelle pagine stampate non erano l’unica cosa piena di vita in quella stanza. Ed allora decise di giocare, con Edward e con la sua vita. Aiutato dall’amore che quel ragazzo era riuscito a conquistarsi, gli ricordò che tutto è possibile, che le seconde possibilità esistono, che il perdono è di chi ama, che alcuni legami possono sopravvivere a tutto: alle famiglie distrutte, alla stanchezza che ti casca addosso e non ti fa pensare, all’incapacità di chiedere aiuto, alle nocche e alle labbra spaccate.

“Quella donna dietro al bancone è innamorata di te.”

La voce gli arrivò alle spalle, rimbalzò sulle pagine, gli scaldò il cuore e fece tremare di nuovo le mani. Non ci credo, non è possibile, Dio fa che sia vero. Forse nei suoi filmini mentali, insieme alla nuova vita di Bella, si era immaginato anche quella voce. Allora si voltò, sperando di non essere un pazzo che insegue miraggi.

“Non so cosa tu le abbia fatto, ma credo di averla appena fatta ingelosire.”

No, non era impazzito: lei era proprio lì. In piedi in mezzo agli scaffali, i capelli raccolti che le lasciavano il collo scoperto ed un vestito color crema che si intravedeva dal lungo cappotto. E sulle labbra aveva un sorriso. Un po’ incerto, ma era un sorriso.

Rimase seduto, senza muoversi o parlare. Si sentiva un idiota, ma non aveva la forza di fare nient’altro. Tutte le sue energie erano su di lei, con lei. In attesa di altre parole.

Ancora, parla ancora, parla per me.

“Tua madre è venuta a scuola, mi cercava.” continuò lei, pronta a soddisfare la sua aria persa. “Mi ha detto che voleva parlare di Rosalie, dei suoi voti, voleva essere informata sulla sua situazione scolastica, ma poi ho capito.”

Parlava con le mani nelle tasche del cappotto, lo guardava negli occhi senza incertezze, sembrava serena. Edward invece moriva, aggrappato allo schienale di quella sedia.

“In realtà, voleva parlare di te. Ed è quello che ha fatto. Mi ha detto quello che non sapevo e quello che sapevo già, confermando l’idea che mi ero fatta su di te. Confermandomi che non mi ero sbagliata, ad essersi sbagliati erano tutti quei dubbi a cui fingevo di aver dato retta. Mi ha raccontato di essersi accorta che avevi iniziato ad uscire con qualcuno, ti vedeva diverso… era come se avesse trovato il modo per tenere incollati tutti i pezzi, così ha detto. E a suo parere, quella colla ero io.”

Lui ad un tratto si alzò, ma lei lo fermò alzando una mano. Lo guardò socchiudendo leggermente gli occhi, come se gli stesse chiedendo il permesso di continuare a parlare di sua madre, del suo dolore, di quanto era distrutto, di tutti i pezzi che aveva perso per strada.

“Mi ha detto che poi ha capito che qualcosa era andato storto, ed ha immaginato che avessi smesso di vederti con la tua colla.” ridacchiò. “E allora ha deciso che era arrivato il momento di comportarsi proprio come la maggior parte delle madri: si è intromessa. Ha chiesto informazioni a Rosalie, che le ha detto che suo fratello era innamorato della signorina Swan.

Il labbro inferiore di Edward iniziò a tremare, lo bloccò subito con i denti.

Non so cosa sia successo e non so se sia colpa di mio figlio, ma dall’angoscia che gli vedo negli occhi penso proprio di sì. Non mi ero mai permessa di intromettermi nella sua vita, ma ora mi sento in obbligo perché lui ha salvato la mia. Lo perdoni, perché lei è una delle due persone che riesce a calmarlo quando il mondo gli sta crollando addosso. L’altra ha quasi otto anni, i suoi stessi occhi e il suo stesso DNA. Ed ha bisogno di entrambe nello stesso, disperato modo. Mi ricordo ogni parola Edward, me le ricorderò per sempre. Perché l’uomo” quella parola la pronunciò lentamente, dimostrandogli che aveva capito che quel ragazzino che lo aveva accusato di essere era sparito tanto tempo prima. “l’uomo che riesce ad essere così forte, generoso ed altruista da mettere sua madre e sua sorella sopra ogni cosa, e riesce a trasmettere quella stessa forza ad una donna distrutta che decide di comportarsi da madre, dimostrare tutto il bene che gli vuole e convincere la sua ragazza a perdonarlo… beh, quello è l’uomo che vorrei al mio fianco.”

Continuò a guardarlo dritto negli occhi e si ritrovò a desiderare di viverci per sempre, in tutto quel verde. Allungò una mano, con il palmo aperto rivolto verso l’alto pronto ad accogliere le dita del suo pianista.

Edward barcollò fino a raggiungerla e, senza aprire bocca, crollò ai suoi piedi. Si aggrappò ai suoi fianchi come se fossero l’unico pezzo di legno in un mare deserto. Affondò la testa sul suo petto, tra le sue braccia, che l’accolsero come avevano fatto fin dal primo giorno. Sentì le dita di Bella intrecciarsi ai suoi capelli, la bocca che cercava la sua testa e ci lasciava un bacio. E lì, in ginocchio davanti alla donna che amava, finalmente pianse.

  
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