Ho provato
ad immedesimarmi in Hanamichi estraendo i pensieri e i dubbi che lo
attanagliano nella puntata 60 dell’anime, cambiando il finale.
Sono ben accetti sia commenti positivi che negativi al fine di
migliorare.
Buona
lettura.
E’
colpa mia.
E’
colpa
mia.
Tutta
colpa mia.
Quando
giocavo mi sentivo così dannatamente potente.
Così forte. Così invincibile.
Mi
bastava afferrare la palla in volo, proteggerla col mio corpo per
poterla
rilanciare a un mio compagno, toglierla di mano a un giocatore
avversario e io
mi sentivo la persona più felice della terra.
Quando
giocavo mi sentivo libero.
Senza
freni.
Senza
inibizioni.
Completamente
me stesso e lottavo far vedere quanto valessi.
Lottavo
per vincere.
Mi
rendevo conto che quello sport, che solo fino a qualche mese prima
consideravo
futile, mi era entrato dentro l’anima sempre di
più.
Ed era
incredibile come mi appassionasse.
Era come
una droga. Inebriante. Divertente. Piacevole. Sicura.
Era una
valvola di sfogo a tutte le pressioni a cui ero sottoposto.
Finalmente
mi sentivo utile, necessario.
Ed era una
sensazione splendida.
Come se
tutti dipendessero da me.
Come se
l’esito della partita dipendesse da me.
Ed era
dipeso, in effetti, ma non nel modo in cui speravo.
Avevo
sbagliato l’ultimo passaggio.
L’ultimo!
Porca
puttana, come diavolo avevo fatto a sbagliare negli ultimi dieci
secondi di
gioco?!
Non
appena avevo visto chi aveva afferrato la palla ero sbiancato e allo
scoccare
del tempo il mio mondo era crollato.
Mi
sentivo distrutto, amareggiato e umiliato nel profondo.
Le
lacrime avevano iniziato a scorrere senza che io riuscissi a
trattenerle e come
le lacrime anche i singhiozzi che, probabilmente, mi avevano reso agli
occhi di
tutti ancora più immaturo di quanto non fossi. Poi avevo
sentito la mano
gentile e allo stesso tempo possente del gorilla sulla mia testa,
sebbene
avesse giocato la partita con una caviglia slogata mettendo a
repentaglio la
sua carriera sportiva, aveva incassato la sonora sconfitta e aveva
consolato a
modo suo il sottoscritto con una dolcezza a cui ero del tutto
impreparato.
Avrei
preferito che mi insultasse, che mi colpisse, che mi sbeffeggiasse,
invece, era
stato gentile e comprensivo, mentre io in quel momento avevo bisogno di
qualcuno che mi sbattesse in faccia il mio errore in modo tale da
trasformare
la vergogna e l’umiliazione in sentimenti distruttivi.
Avevo
voglia di fuggire da tutto e da tutti.
“E’
solo
una stupida partita. Riprenditi!” Ripeteva una
voce nella mia
testa.
E io avrei
tanto voluto credere a quelle parole.
Avrei
voluto credere che fosse solo una stupida partita.
Ma sapevo che
non era così.
Non era
solo una partita.
Non per
me.
Non per
gli altri.
La vittoria
era un sogno per tutti i componenti della
squadra e quel passaggio errato aveva distrutto tutto.
Tutto era
svanito a causa mia.
Mi
sentivo in colpa e tremendamente patetico.
Non
riuscivo a reagire.
Non
potevo sopportare di guardare gli altri negli occhi, avevo troppa paura
per
farlo, così decisi di non andare a scuola assentandomi anche
dagli allenamenti.
Tremendamente
patetico, ma in quel momento non volevo vedere nessuno di loro.. in
particolar
modo lui.
Lui, il
genio, Kaede Rukawa. Chi altri?
Lui era
sempre perfetto, impeccabile agli occhi di tutti e amato dal pubblico
oltre che
dai compagni.
Non
commetteva mai un errore. Mai.
Cosa
diavolo aveva lui in più di me?
Perché
era così bravo?
Non lo
accettavo.
Non
potevo accettarlo come non potevo ammettere che un individuo del genere
fosse
più portato del sommo sottoscritto.
Perché
quella volpe malefica aveva un talento innato per il gioco e io ero un
po’
invidioso.
L’invidia
non era nella mia indole, non lo era mai stata, ma lui mandava
all’aria tutte
le mie sicurezze con una facilità sorprendente.
Nel
pomeriggio incontrai Haruko e sebbene avessi cercato di scappare anche
da lei
mi aveva bloccato e tranquillizzato. In quel momento odiai la sua
dolcezza. Da
un certo punto di vista provavo piacere ad averla dalla mia parte, ma
dall’altra non mi sentivo capito. Lei non poteva
capire.
Deambulai
in giro fino a tarda serata trovandomi quasi improvvisamente sotto un
vero e
proprio acquazzone così mi recai nell’unico luogo
in cui mi sentivo protetto:
lo spogliatoio della scuola. A quell’ora non avrei
sicuramente trovato nessuno
visto che gli allenamenti erano conclusi già da un bel
pezzo. Gocciolando
percorsi il corridoio come un automa ed entrai nella stanza, afferrai
un
pallone su cui appoggiai la fronte una volta seduto.
La voce
di Haruko martellava nella mia testa.
“E
ricordati che anche i campioni sbagliano!”
E io lo
ero?
Potevo
vantarmi seriamente di essere un campione?
Potevo
paragonarmi
senza problemi a Rukawa?
Quell’errore
ci è costato la partita. E’ soltanto per colpa mia
se abbiamo perso. Soltanto
per colpa mia.
Immerso
nei miei pensieri non avevo sentito dei passi avvicinarsi pian piano
allo
spogliatoio, né vidi un'ombra indugiare sulla soglia della
porta.
Rimasi
semplicemente immobile, in stato quasi larvale, con la testa appoggiata
su
quella maledetta palla arancione che tanto amavo e che ultimamente
accompagnava
le mie giornate prima composte da risse e violenza.
Poi qualcuno
fece scattare l’interruttore della luce e io mi sentii
violato.
Totalmente
esposto.
Totalmente
scoperto.
E mi
trovai di fronte all’ultima persona che avessi voglia di
vedere.
Maledizione!
Kaede
Rukawa era appoggiato con il gomito allo stipite della porta e mi
guardava con
arroganza.
“Guarda
chi si vede. Che ci fai qui?” Il suo tono, però,
non esprimeva interesse.
“Rukawa?”
Non riuscii a dire nulla di più intelligente. Era chiaro
che fosse lui,
eppure una parte di me stentava ancora a credere che mi avesse stanato
in un
momento di debolezza. Il ragazzo entrò tranquillamente nella
stanza e afferrò
un panno iniziando ad asciugare piano il sudore sulla fronte e sul
collo.
Probabilmente era rimasto in palestra ad allenarsi, ma quel ragazzo non
aveva
una casa a cui far ritorno? Osservai ogni suo movimento in attesa che
proferisse parola, che mi sbattesse in faccia la mia colpa, invece, non
disse
nulla sorprendendomi. Il silenzio era palpabile tanto da risultare
imbarazzante, l’unico rumore che si udiva era quello della
pioggia. Lo vidi
chiudere con calma l’armadietto e con altrettanta
tranquillità allontanarsi,
come se nulla fosse, dirigendosi verso la porta.
Quel
silenzio era snervante.
Il fatto
che non mi dicesse nulla era frustrante.
“Ehi,
aspetta! Non hai proprio niente da dirmi?” esplosi infine io.
Non potevo
credere che non avesse preparato qualche battutina cattiva per farmi
sentire
ancor più un pezzo di merda.
Possibile
che non avesse intenzione di rinfacciarmi il mio errore?
“Che
cosa?” sembrò addirittura
un’affermazione da quanto la sua voce risultò
inespressiva.
“So
cosa
pensi! Ormai ti conosco, stai solo aspettando il momento buono per
rinfacciarmi
il mio errore! Oppure hai deciso di stare zitto perché hai
compassione di me?”
La
seconda ipotesi mi avrebbe fatto ancora più male.
Rukawa mi
lanciò un’occhiata spietata.
“Compassione di te?” Chiuse gli occhi sospirando,
come se non capissi qualcosa di estremamente ovvio e se ne
andò lasciandomi di
sasso.
No,
infatti. Probabilmente per me non provava nulla se non totale
indifferenza nei
miei confronti.
Non mi
stimava.
Non mi
guardava.
Non ero
degno della sua attenzione.
Per lui
probabilmente ero solo un compagno di squadra troppo chiassoso. Nulla
di più.
“Ehi
dove
vai?” Iniziavo seriamente ad arrabbiarmi, ma forse era meglio
così. Preferivo
di gran lunga la rabbia alla sofferenza. La rabbia sapevo benissimo
come
affrontarla, mentre per la sofferenza era più difficile.
“Torna qui,
maledetto!” Mi alzai velocemente raggiungendolo in palestra.
Una volta
raggiunto prendemmo a fissarci a vicenda con aria di sfida. Sembravamo
due
belve inferocite che si studiavano prima di azzannarsi. Poi lui ruppe
il
silenzio.
“Presuntuoso.
Pensi davvero che abbiamo perso la partita per colpa tua? Abbassa la
cresta,
imbecille! E’ vero lo ammetto: ieri non hai giocato male,
sicuramente hai fatto
più di quanto tutti si aspettassero da te!”
Ha detto
che non ho giocato male.
Ha detto
che non ho giocato male!
Ha detto
che… concentrati!
Rukawa
ghignò sadicamente. “Illuminami: secondo te cosa
volevano da te il capitano e
il coach?”
“Che
salvassi la squadra e la portassi alla vittoria.” risposi io
con estrema
sicurezza.
Era
chiaro, no? Doveva per forza essere così! Io ero un genio,
dopotutto!
Altro
ghignò da parte di Rukawa che alzò la mano
distaccando il pollice e l’indice di
circa mezzo centimetro. “E’ piccolo”
disse poi.
La rabbia
esplose. “Piccolo?”
“Questo
è
stato il tuo contributo alla partita. E non questo.”
Allungò le distanze fra il
pollice e l’indice di circa quattro centimetri.
Mi sentii
offeso. Colpito nell’orgoglio. Profanato.
Che gran
bastardo.
“Fin
dall’inizio avevamo messo in conto tutti che avresti fatto un
mucchio di sbagli
e nessuno si è stupito quando è successo. Del
resto sei poco più che un
principiante.” Rukawa continuò a parlare incurante
miei sentimenti. Non gliene
fregava nulla di come mi sentivo in quel momento. Nulla. Stava solo
rigirando
il dito nella piaga dandomi dell’inutile come sempre.
Io non
ero indispensabile secondo lui.
Io non
facevo la differenza.
Beh, non
mi stava affatto bene.
Io volevo
fare la differenza nella squadra.
Volevo
contare qualcosa.
Volevo
che gli altri mi sentissero vicino a loro e che la mia forza li
trascinasse.
Volevo
che tutta la merda che ero stato costretto a sopportare negli anni si
trasformasse in qualcosa di positivo per gli altri, ma soprattutto per
me
stesso.
Mi
ritrovai a ringhiare furente contro il moro.
“Un
tuo
errore non decide le sorti di una partita, ficcatelo bene in
testa.”
Tutta la
rabbia che avevo represso nel corso dei giorni si accumulò
nel mio pugno.
Volevo
colpirlo con tutte le mie forze sul viso.
Volevo
fracassargli il naso con la mia potenza.
Volevo
togliergli quell’espressione indifferente e indisponente
dalla faccia.
Eppure il
mio gancio si fermò a pochi centimetri dal suo viso.
Cercai di
respirare lentamente per trattenere la mia rabbia cercando di
incanalarla per
farla sparire.
“Un
giorno
o l’altro ti darò una lezione che ricorderai per
tutta la vita.” sussurrai
imponendomi il controllo. “Sarebbe troppo facile prenderti a
pugni. Io voglio
umiliarti sul campo da gioco.”
Allora fu
lui a colpirmi. “Prima cerca di crescere.”
Aveva
iniziato lui e quella fu la goccia che fece traboccare un vaso
stracolmo.
Restituii il colpo con violenza.
Un colpo.
Un altro
colpo.
Un colpo
ancora.
Alternavano
i cazzotti che diventavano sempre più potenti e spietati.
Probabilmente
se fossimo stati delle ragazze avremmo risolto la questione
diplomaticamente,
parlando tranquillamente, discutendo e infine concludendo il tutto con
un
abbraccio.
Ma non
eravamo donne.
Eravamo
uomini. Teppisti, per giunta.
Avevamo
un indole violenta entrambi e quello era il nostro unico modo per
interagire e
per discutere.
Persi il
conto di quante volte ci colpimmo a vicenda. Sapevo solo che gli stessi
punti
arrossati che lui aveva sul viso e sulle braccia li avevo anche io e
che il giorno
dopo si sarebbero trasformati in una bella collezione di lividi. Non ci
stavamo
risparmiando nel darcele e non sembravamo intenzionati a smettere
né cedere.
Era diventata una gara di resistenza e io non avrei di certo
perso. Se
c’era qualcosa in cui ero bravissimo era prenderle e darle di
santa ragione. Da
un certo punto di vista trovavo la violenza rilassante e liberatoria.
Un vero
toccasana. A volte basta poco per sentirsi meglio con sé
stessi, anche una
semplice scazzottata con il tuo principale rivale.
Niente
psicologia da quattro soldi, solo sana violenza.
E faceva
male.
Potevo
sentire i miei muscoli indolenziti per la tensione e per il nervoso
oltre per i
micidiali colpi che ricevevo tuttavia, nonostante il dolore fisico,
interiormente stavo bene.
“E’
soltanto per colpa mia se abbiamo perso.” Disse poi Rukawa
spiazzandomi
completamente. E il momento liberatorio svanì nel
nulla.“Se avessi auto energie
sufficienti per arrivare alla fine..”
Digrignai i
denti per la collera.
Era
arrogante. Pensava che gli altri valessero meno di zero,
però lui era
indispensabile.
“Chi
ti
credi di essere idiota?! Il salvatore della patria? La colpa
è stata solo mia.”
Sferrai un pugno con ancora più intensità ed
energia dei precedenti a cui lui
rispose con un calcio altrettanto violento sul mio stomaco prendendosi
nuovamente la responsabilità della sconfitta.
“E’
stata
colpa mia!” ribadii io.
“Scordatelo,
è stata mia!”
Altri
colpi. Tutti ancora più furenti. Più carichi.
Vista
dall’esterno la vicenda poteva sembrare quasi comica, ma
nulla di tutto ciò che
stava accadendo era comico.
Ci
stavamo facendo volutamente male per punirci a vicenda per la sconfitta.
Ognuno
aveva trovato nell’altro una valvola di sfogo.
Entrambi
avevamo voglia di picchiare e di essere picchiati.
Una
liberazione e una punizione.
Sadismo e
masochismo.
Eravamo
entrambi accecati dalla sofferenza, dalla rabbia e dall'affaticamento
che stava
iniziando a farsi sentire nelle nostre membra. Entrambi grondavamo di
sudore, ma
non eravamo ancora intenzionati a cedere. Probabilmente avremmo
continuato così
tutta la notte se solo lui non mi fosse saltato addosso con una
rapidità e una
violenza tali da farmi cadere all’indietro. Sbattei la testa
contro il
pavimento percependolo freddo sotto la mia schiena poi il suo corpo
montò sopra
il mio invadendo il mio spazio vitale. Il colpo che mi
sferrò sul viso mi aiutò
a schiarirmi le idee e con un colpo di reni invertii le posizioni
colpendolo a
mia volta.
Continuammo
ad invertire le posizioni, colpendo, rotolando, cercando di dimostrare
la
nostra predominanza l’uno sull’altro.
Non
volevo perdere.
Non
quella battaglia.
Non
contro di lui.
Non in un
duello che dovevo vincere.
Fummo
fermati dal muro e lui era sopra di me.
Sgranando
gli occhi cercai di invertire le posizioni rotolando
dall’altra parte, ma lui
mi inchiodò i polsi al suolo stringendomeli spasmodicamente
tanto da farmi
gemere dal dolore.
Dannazione!
Non
potevo perdere.
Scalciai.
Mossi il
mio corpo sotto di lui cercando di fargli perdere
l’equilibrio, di sbilanciarlo
un poco per tornare in vantaggio, ma lui intuendo le mie intenzioni mi
schiacciò sotto il suo peso gravando sul mio corpo facendomi
mancare il respiro.
Non
dovevo perdere.
Cercai di
liberarmi i polsi con un movimento brusco e per
poco non ci riuscii, ma lui prontamente me li riacciuffò
entrambi premendomeli
nuovamente contro il pavimento freddo della palestra. Li strinse
conficcandomi
le unghie nella carne e io mi morsi le labbra per non emettere suono.
Non
volevo dargli nessun tipo di soddisfazione.
“E’
colpa
tua, Kaede Rukawa. Dillo.” Ordinò torreggiando su
di me fissandomi con ira.
Ringhiai.
“E’ colpa mia. Mia!”
La
stretta sui polsi, se possibile, aumentò tanto che pensai
che me li avrebbe
spezzati in mille pezzi e mi tirò una testata talmente
potente da oscurarmi la
vista per qualche istante.
Che male,
cazzo.
“E’
colpa
mia!”
Scossi la
testa dolorante. “E’ colpa mphf”
Prima che
potessi finire la frase mi zittì premendo le sue labbra con
forza sulle mie e
io non potei fare a meno che paralizzarmi sgranando velocemente gli
occhi. Cosa
cazzo stava facendo? Non so dire quanto durò quel
contatto, so solo che lo
interruppe per mordermi il labbro inferiore, tirandolo
malamente, facendo
sgorgare sangue dalla ferita. Ferità che leccò
come se cercasse di rimarginarla
con la sua saliva, mentre succhiava con dovizia il sangue.
Mi fece
volutamente male incurante delle mie proteste soffocate dalle sue
labbra
ingorde. Sembrava un’altra persona, una persona totalmente
differente da quella
che si recava agli allenamenti, da quella che si addormentava in
classe. I suoi
occhi erano accesi, bramosi, ma non mi stava guardando.. non veramente
perché
se lo avesse fatto avrebbe scorto la mia paura e se fosse stato attento
al mio corpo
avrebbe notato un progressivo irrigidimento. In quel momento avevo
paura di
lui, di ciò che poteva fare, ma anche delle reazioni che mi
stava suscitando
perché oltre al panico avvertii una strana eccitazione.
Mi aveva
rubato il mio primo bacio.
Bacio che
mi immaginavo dolce, affiatato, ma soprattutto non con un uomo e non al
sapore
di sangue.
E non con
Rukawa, maledizione!
Lo sentii
respirare sulla mia bocca e mentre lo insultavo, mi baciò
zittendomi nuovamente
e io provai il desiderio irrazionale e malato di
ricambiare. Non so
esattamente a cosa pensassi in quel momento, forse non mi andava di
essere
totalmente passivo in quella situazione, so solo che le mie labbra
iniziarono a
muoversi e la mia lingua andò timidamente a toccare la sua.
Subito dopo il
bacio divenne ardente, appassionato, infuocato. Sentivo le mie gote
andare a
fuoco, mentre assaporavo il sapore della sua saliva. Sentii che le sue
mani
indebolire la presa sui miei polsi e io ne approfittai per ribaltare
per
l’ennesima volta le posizioni.
Adesso
era sotto di me.
I suoi
occhi spavaldi fissi nei miei.
Entrambi
non avevamo il controllo.
Forse
stavamo agendo d’istinto.
O forse
per desiderio.
Per
lussuria.
Per
attrazione.
Per
dominio.
Oh, al
diavolo! So solo che continuammo a baciarci iniziando a muovere quasi
inconsapevolmente i nostri bacini, sfregandoci a vicenda i nostri
membri caldi
e tremendamente svegli. Il suo cazzo era duro contro il mio e si
ingrossava
sempre di più. Purtroppo la nostra eccitazione rimase
inappagata poiché quasi
in contemporanea ci scostammo uno dall’altro esterrefatti da
ciò che era appena
successo. Nessuno dei due riusciva a dire nulla, rimanemmo
semplicemente
immobili con i membri pulsanti nascosti a stento nei boxer ad ascoltare
i
nostri respiri affannosi.
“Se
lo
dici a qualcuno ti ammazzo.” Dissi improvvisamente.
“Mi
hai
rubato le parole di bocca.” rispose con voce velata. Mi girai
lentamente a
guardarlo scoprendogli le gote decisamente accese e gli occhi languidi.
Anche
io avevo un'espressione del genere dipinta sul volto?
Eppure,
nonostante i fatti appena accaduti e le nostre parole, nessuno di noi
due
accennava a muoversi. Fui io il primo ad alzarmi e ad allontanarmi
scosso. Non
lo salutai nemmeno ancora troppo sconvolto per reagire in qualsiasi
modo. Non
appena arrivai a casa mi nascosi sotto le coperte e iniziai a
masturbarmi
cercando di pensare al corpo formoso di qualche ragazza, invece, fu lui
ad
invadere i miei pensieri.
I suoi
occhi.
Le sue
labbra.
Il suo
sapore ancora persistente nella mia bocca.
Lo
sfregare dei nostri bacini.
I
movimenti della mia mano si fecero sempre più veloci e
frenetici.
Immaginai
che fossero le sue mani a toccarmelo e l’orgasmo mi travolse
lasciandomi senza
fiato.
Venni
sporcando le lenzuola e la mia mano di sperma caldo che mi affrettai a
pulire
con un fazzoletto.
Rukawa
che tu sia maledetto!
Affondai
il viso sopra il mio cuscino.
L’indomani
mi sarei tagliato i capelli per ricordarmi la mia colpa. E poi sentivo
l’esigenza di cambiare qualcosa
Mi girai
nervosamente sul letto.
E adesso
come mi comporto con quella volpe?
Non lo
sapevo assolutamente, per adesso mi bastava semplicemente batterlo sul
campo
gioco poi avrei preso una decisione. Dopotutto, quello che era accaduto
era stato
semplicemente un errore. Un abbaglio. Non eravamo seriamente attratti
l'uno
dall'altro, giusto?
Come no.