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Autore: The Masked    11/07/2011    4 recensioni
Ho provato ad immedesimarmi in Hanamichi estraendo i pensieri e i dubbi che lo attanagliano nella puntata 60 dell’anime, cambiando radicalmente il finale. [RuHana]
"Prima che potessi finire la frase mi zittì premendo le sue labbra con forza sulle mie e io non potei fare a meno che paralizzarmi sgranando velocemente gli occhi. Cosa cazzo stava facendo? Non so dire quanto durò quel contatto, so solo che lo interruppe per mordermi il labbro inferiore, tirandolo malamente, facendo sgorgare sangue dalla ferita. Ferita che leccò come se cercasse di rimarginarla con la sua saliva, mentre succhiava con dovizia il sangue."
Genere: Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ho provato ad immedesimarmi in Hanamichi estraendo i pensieri e i dubbi che lo attanagliano nella puntata 60 dell’anime, cambiando il finale.
Sono ben accetti sia commenti positivi che negativi al fine di migliorare. 

Buona lettura.

 

 

E’ colpa mia.

 

 

E’ colpa mia.

Tutta colpa mia.

Quando giocavo mi sentivo così dannatamente potente. Così forte. Così invincibile.

Mi bastava afferrare la palla in volo, proteggerla col mio corpo per poterla rilanciare a un mio compagno, toglierla di mano a un giocatore avversario e io mi sentivo la persona più felice della terra.

Quando giocavo mi sentivo libero.

Senza freni.

Senza inibizioni.

Completamente me stesso e lottavo far vedere quanto valessi.

Lottavo per vincere.

Mi rendevo conto che quello sport, che solo fino a qualche mese prima consideravo futile, mi era entrato dentro l’anima sempre di più.

Ed era incredibile come mi appassionasse.

Era come una droga. Inebriante. Divertente. Piacevole. Sicura. 

Era una valvola di sfogo a tutte le pressioni a cui ero sottoposto.

Finalmente mi sentivo utile, necessario.

Ed era una sensazione splendida.

Come se tutti dipendessero da me.

Come se l’esito della partita dipendesse da me.

Ed era dipeso, in effetti, ma non nel modo in cui speravo.

Avevo sbagliato l’ultimo passaggio.

L’ultimo!

Porca puttana, come diavolo avevo fatto a sbagliare negli ultimi dieci secondi di gioco?!

Non appena avevo visto chi aveva afferrato la palla ero sbiancato e allo scoccare del tempo il mio mondo era crollato.

Mi sentivo distrutto, amareggiato e umiliato nel profondo.

Le lacrime avevano iniziato a scorrere senza che io riuscissi a trattenerle e come le lacrime anche i singhiozzi che, probabilmente, mi avevano reso agli occhi di tutti ancora più immaturo di quanto non fossi. Poi avevo sentito la mano gentile e allo stesso tempo possente del gorilla sulla mia testa, sebbene avesse giocato la partita con una caviglia slogata mettendo a repentaglio la sua carriera sportiva, aveva incassato la sonora sconfitta e aveva consolato a modo suo il sottoscritto con una dolcezza a cui ero del tutto impreparato.

Avrei preferito che mi insultasse, che mi colpisse, che mi sbeffeggiasse, invece, era stato gentile e comprensivo, mentre io in quel momento avevo bisogno di qualcuno che mi sbattesse in faccia il mio errore in modo tale da trasformare la vergogna e l’umiliazione in sentimenti distruttivi.

Avevo voglia di fuggire da tutto e da tutti.

“E’ solo una stupida partita. Riprenditi!” Ripeteva una voce nella mia testa.

E io avrei tanto voluto credere a quelle parole.

Avrei voluto credere che fosse solo una stupida partita.

Ma sapevo che non era così.

Non era solo una partita.

Non per me.

Non per gli altri.

La vittoria era un sogno per tutti i componenti della squadra e quel passaggio errato aveva distrutto tutto.

Tutto era svanito a causa mia.

Mi sentivo in colpa e tremendamente patetico.

Non riuscivo a reagire.

Non potevo sopportare di guardare gli altri negli occhi, avevo troppa paura per farlo, così decisi di non andare a scuola assentandomi anche dagli allenamenti.

Tremendamente patetico, ma in quel momento non volevo vedere nessuno di loro.. in particolar modo lui.

Lui, il genio, Kaede Rukawa. Chi altri?

Lui era sempre perfetto, impeccabile agli occhi di tutti e amato dal pubblico oltre che dai compagni.

Non commetteva mai un errore. Mai.

Cosa diavolo aveva lui in più di me?

Perché era così bravo?

Non lo accettavo.

Non potevo accettarlo come non potevo ammettere che un individuo del genere fosse più portato del sommo sottoscritto.

Perché quella volpe malefica aveva un talento innato per il gioco e io ero un po’ invidioso.

L’invidia non era nella mia indole, non lo era mai stata, ma lui mandava all’aria tutte le mie sicurezze con una facilità sorprendente.

Nel pomeriggio incontrai Haruko e sebbene avessi cercato di scappare anche da lei mi aveva bloccato e tranquillizzato. In quel momento odiai la sua dolcezza. Da un certo punto di vista provavo piacere ad averla dalla mia parte, ma dall’altra non mi sentivo capito. Lei non poteva capire.

Deambulai in giro fino a tarda serata trovandomi quasi improvvisamente sotto un vero e proprio acquazzone così mi recai nell’unico luogo in cui mi sentivo protetto: lo spogliatoio della scuola. A quell’ora non avrei sicuramente trovato nessuno visto che gli allenamenti erano conclusi già da un bel pezzo. Gocciolando percorsi il corridoio come un automa ed entrai nella stanza, afferrai un pallone su cui appoggiai la fronte una volta seduto. 

La voce di Haruko martellava nella mia testa.

“E ricordati che anche i campioni sbagliano!”

E io lo ero?

Potevo vantarmi seriamente di essere un campione?

Potevo paragonarmi senza problemi a Rukawa?

Quell’errore ci è costato la partita. E’ soltanto per colpa mia se abbiamo perso. Soltanto per colpa mia.

Immerso nei miei pensieri non avevo sentito dei passi avvicinarsi pian piano allo spogliatoio, né vidi un'ombra indugiare sulla soglia della porta.

Rimasi semplicemente immobile, in stato quasi larvale, con la testa appoggiata su quella maledetta palla arancione che tanto amavo e che ultimamente accompagnava le mie giornate prima composte da risse e violenza.

Poi qualcuno fece scattare l’interruttore della luce e io mi sentii violato.

Totalmente esposto.

Totalmente scoperto.

E mi trovai di fronte all’ultima persona che avessi voglia di vedere.

Maledizione!

Kaede Rukawa era appoggiato con il gomito allo stipite della porta e mi guardava con arroganza.

“Guarda chi si vede. Che ci fai qui?” Il suo tono, però, non esprimeva interesse.

“Rukawa?” Non riuscii a dire nulla di più intelligente. Era chiaro che fosse lui, eppure una parte di me stentava ancora a credere che mi avesse stanato in un momento di debolezza. Il ragazzo entrò tranquillamente nella stanza e afferrò un panno iniziando ad asciugare piano il sudore sulla fronte e sul collo. Probabilmente era rimasto in palestra ad allenarsi, ma quel ragazzo non aveva una casa a cui far ritorno? Osservai ogni suo movimento in attesa che proferisse parola, che mi sbattesse in faccia la mia colpa, invece, non disse nulla sorprendendomi. Il silenzio era palpabile tanto da risultare imbarazzante, l’unico rumore che si udiva era quello della pioggia. Lo vidi chiudere con calma l’armadietto e con altrettanta tranquillità allontanarsi, come se nulla fosse, dirigendosi verso la porta.

Quel silenzio era snervante.

Il fatto che non mi dicesse nulla era frustrante.

“Ehi, aspetta! Non hai proprio niente da dirmi?” esplosi infine io. Non potevo credere che non avesse preparato qualche battutina cattiva per farmi sentire ancor più un pezzo di merda.

Possibile che non avesse intenzione di rinfacciarmi il mio errore?

“Che cosa?” sembrò addirittura un’affermazione da quanto la sua voce risultò inespressiva.

“So cosa pensi! Ormai ti conosco, stai solo aspettando il momento buono per rinfacciarmi il mio errore! Oppure hai deciso di stare zitto perché hai compassione di me?”

La seconda ipotesi mi avrebbe fatto ancora più male.

Rukawa mi lanciò un’occhiata spietata. “Compassione di te?” Chiuse gli occhi sospirando, come se non capissi qualcosa di estremamente ovvio e se ne andò lasciandomi di sasso.

No, infatti. Probabilmente per me non provava nulla se non totale indifferenza nei miei confronti.

Non mi stimava.

Non mi guardava.

Non ero degno della sua attenzione.

Per lui probabilmente ero solo un compagno di squadra troppo chiassoso. Nulla di più.

“Ehi dove vai?” Iniziavo seriamente ad arrabbiarmi, ma forse era meglio così. Preferivo di gran lunga la rabbia alla sofferenza. La rabbia sapevo benissimo come affrontarla, mentre per la sofferenza era più difficile. “Torna qui, maledetto!” Mi alzai velocemente raggiungendolo in palestra.

Una volta raggiunto prendemmo a fissarci a vicenda con aria di sfida. Sembravamo due belve inferocite che si studiavano prima di azzannarsi. Poi lui ruppe il silenzio.

“Presuntuoso. Pensi davvero che abbiamo perso la partita per colpa tua? Abbassa la cresta, imbecille! E’ vero lo ammetto: ieri non hai giocato male, sicuramente hai fatto più di quanto tutti si aspettassero da te!”

Ha detto che non ho giocato male.

Ha detto che non ho giocato male!

Ha detto che… concentrati!

Rukawa ghignò sadicamente. “Illuminami: secondo te cosa volevano da te il capitano e il coach?”

“Che salvassi la squadra e la portassi alla vittoria.” risposi io con estrema sicurezza.

Era chiaro, no? Doveva per forza essere così! Io ero un genio, dopotutto!

Altro ghignò da parte di Rukawa che alzò la mano distaccando il pollice e l’indice di circa mezzo centimetro. “E’ piccolo” disse poi.

La rabbia esplose. “Piccolo?”

“Questo è stato il tuo contributo alla partita. E non questo.” Allungò le distanze fra il pollice e l’indice di circa quattro centimetri.

Mi sentii offeso. Colpito nell’orgoglio. Profanato.

Che gran bastardo.

“Fin dall’inizio avevamo messo in conto tutti che avresti fatto un mucchio di sbagli e nessuno si è stupito quando è successo. Del resto sei poco più che un principiante.” Rukawa continuò a parlare incurante miei sentimenti. Non gliene fregava nulla di come mi sentivo in quel momento. Nulla. Stava solo rigirando il dito nella piaga dandomi dell’inutile come sempre.

Io non ero indispensabile secondo lui.

Io non facevo la differenza.

Beh, non mi stava affatto bene.

Io volevo fare la differenza nella squadra.

Volevo contare qualcosa.

Volevo che gli altri mi sentissero vicino a loro e che la mia forza li trascinasse.

Volevo che tutta la merda che ero stato costretto a sopportare negli anni si trasformasse in qualcosa di positivo per gli altri, ma soprattutto per me stesso.

Mi ritrovai a ringhiare furente contro il moro.

“Un tuo errore non decide le sorti di una partita, ficcatelo bene in testa.”

Tutta la rabbia che avevo represso nel corso dei giorni si accumulò nel mio pugno.

Volevo colpirlo con tutte le mie forze sul viso.

Volevo fracassargli il naso con la mia potenza.

Volevo togliergli quell’espressione indifferente e indisponente dalla faccia.

Eppure il mio gancio si fermò a pochi centimetri dal suo viso.

Cercai di respirare lentamente per trattenere la mia rabbia cercando di incanalarla per farla sparire.

“Un giorno o l’altro ti darò una lezione che ricorderai per tutta la vita.” sussurrai imponendomi il controllo. “Sarebbe troppo facile prenderti a pugni. Io voglio umiliarti sul campo da gioco.”

Allora fu lui a colpirmi. “Prima cerca di crescere.”

Aveva iniziato lui e quella fu la goccia che fece traboccare un vaso stracolmo. Restituii il colpo con violenza.

Un colpo.

Un altro colpo.

Un colpo ancora.

Alternavano i cazzotti che diventavano sempre più potenti e spietati.

Probabilmente se fossimo stati delle ragazze avremmo risolto la questione diplomaticamente, parlando tranquillamente, discutendo e infine concludendo il tutto con un abbraccio.

Ma non eravamo donne.

Eravamo uomini. Teppisti, per giunta.

Avevamo un indole violenta entrambi e quello era il nostro unico modo per interagire e per discutere.

Persi il conto di quante volte ci colpimmo a vicenda. Sapevo solo che gli stessi punti arrossati che lui aveva sul viso e sulle braccia li avevo anche io e che il giorno dopo si sarebbero trasformati in una bella collezione di lividi. Non ci stavamo risparmiando nel darcele e non sembravamo intenzionati a smettere né cedere. Era diventata una gara di resistenza e io non  avrei di certo perso. Se c’era qualcosa in cui ero bravissimo era prenderle e darle di santa ragione. Da un certo punto di vista trovavo la violenza rilassante e liberatoria. Un vero toccasana. A volte basta poco per sentirsi meglio con sé stessi, anche una semplice scazzottata con il tuo principale rivale.

Niente psicologia da quattro soldi, solo sana violenza.

E faceva male.

Potevo sentire i miei muscoli indolenziti per la tensione e per il nervoso oltre per i micidiali colpi che ricevevo tuttavia, nonostante il dolore fisico, interiormente stavo bene.

“E’ soltanto per colpa mia se abbiamo perso.” Disse poi Rukawa spiazzandomi completamente. E il momento liberatorio svanì nel nulla.“Se avessi auto energie sufficienti per arrivare alla fine..”

Digrignai i denti per la collera.

Era arrogante. Pensava che gli altri valessero meno di zero, però lui era indispensabile.

“Chi ti credi di essere idiota?! Il salvatore della patria? La colpa è stata solo mia.” Sferrai un pugno con ancora più intensità ed energia dei precedenti a cui lui rispose con un calcio altrettanto violento sul mio stomaco prendendosi nuovamente la responsabilità della sconfitta.

“E’ stata colpa mia!” ribadii io.

“Scordatelo, è stata mia!”

Altri colpi. Tutti ancora più furenti. Più carichi.

Vista dall’esterno la vicenda poteva sembrare quasi comica, ma nulla di tutto ciò che stava accadendo era comico.

Ci stavamo facendo volutamente male per punirci a vicenda per la sconfitta.

Ognuno aveva trovato nell’altro una valvola di sfogo.

Entrambi avevamo voglia di picchiare e di essere picchiati.

Una liberazione e una punizione.

Sadismo e masochismo.

Eravamo entrambi accecati dalla sofferenza, dalla rabbia e dall'affaticamento che stava iniziando a farsi sentire nelle nostre membra. Entrambi grondavamo di sudore, ma non eravamo ancora intenzionati a cedere. Probabilmente avremmo continuato così tutta la notte se solo lui non mi fosse saltato addosso con una rapidità e una violenza tali da farmi cadere all’indietro. Sbattei la testa contro il pavimento percependolo freddo sotto la mia schiena poi il suo corpo montò sopra il mio invadendo il mio spazio vitale. Il colpo che mi sferrò sul viso mi aiutò a schiarirmi le idee e con un colpo di reni invertii le posizioni colpendolo a mia volta.

Continuammo ad invertire le posizioni, colpendo, rotolando, cercando di dimostrare la nostra predominanza l’uno sull’altro.

Non volevo perdere.

Non quella battaglia.

Non contro di lui.

Non in un duello che dovevo vincere.

Fummo fermati dal muro e lui era sopra di me.

Sgranando gli occhi cercai di invertire le posizioni rotolando dall’altra parte, ma lui mi inchiodò i polsi al suolo stringendomeli spasmodicamente tanto da farmi gemere dal dolore.

Dannazione!

Non potevo perdere.

Scalciai.

Mossi il mio corpo sotto di lui cercando di fargli perdere l’equilibrio, di sbilanciarlo un poco per tornare in vantaggio, ma lui intuendo le mie intenzioni mi schiacciò sotto il suo peso gravando sul mio corpo facendomi mancare il respiro.

Non dovevo perdere.

Cercai di liberarmi i polsi con un movimento brusco e per poco non ci riuscii, ma lui prontamente me li riacciuffò entrambi premendomeli nuovamente contro il pavimento freddo della palestra. Li strinse conficcandomi le unghie nella carne e io mi morsi le labbra per non emettere suono.

Non volevo dargli nessun tipo di soddisfazione.

“E’ colpa tua, Kaede Rukawa. Dillo.” Ordinò torreggiando su di me fissandomi con ira.

Ringhiai. “E’ colpa mia. Mia!”

La stretta sui polsi, se possibile, aumentò tanto che pensai che me li avrebbe spezzati in mille pezzi e mi tirò una testata talmente potente da oscurarmi la vista per qualche istante.

Che male, cazzo.

“E’ colpa mia!”

Scossi la testa dolorante. “E’ colpa mphf”

Prima che potessi finire la frase mi zittì premendo le sue labbra con forza sulle mie e io non potei fare a meno che paralizzarmi sgranando velocemente gli occhi. Cosa cazzo stava facendo? Non so dire quanto durò quel contatto, so solo che lo interruppe per mordermi il labbro inferiore, tirandolo malamente, facendo sgorgare sangue dalla ferita. Ferità che leccò come se cercasse di rimarginarla con la sua saliva, mentre succhiava con dovizia il sangue.

Mi fece volutamente male incurante delle mie proteste soffocate dalle sue labbra ingorde. Sembrava un’altra persona, una persona totalmente differente da quella che si recava agli allenamenti, da quella che si addormentava in classe. I suoi occhi erano accesi, bramosi, ma non mi stava guardando.. non veramente perché se lo avesse fatto avrebbe scorto la mia paura e se fosse stato attento al mio corpo avrebbe notato un progressivo irrigidimento. In quel momento avevo paura di lui, di ciò che poteva fare, ma anche delle reazioni che mi stava suscitando perché oltre al panico avvertii una strana eccitazione.

Mi aveva rubato il mio primo bacio.

Bacio che mi immaginavo dolce, affiatato, ma soprattutto non con un uomo e non al sapore di sangue.

E non con Rukawa, maledizione!

Lo sentii respirare sulla mia bocca e mentre lo insultavo, mi baciò zittendomi nuovamente e io provai il desiderio irrazionale e malato di ricambiare. Non so esattamente a cosa pensassi in quel momento, forse non mi andava di essere totalmente passivo in quella situazione, so solo che le mie labbra iniziarono a muoversi e la mia lingua andò timidamente a toccare la sua. Subito dopo il bacio divenne ardente, appassionato, infuocato. Sentivo le mie gote andare a fuoco, mentre assaporavo il sapore della sua saliva. Sentii che le sue mani indebolire la presa sui miei polsi e io ne approfittai per ribaltare per l’ennesima volta le posizioni.

Adesso era sotto di me.

I suoi occhi spavaldi fissi nei miei.

Entrambi non avevamo il controllo.

Forse stavamo agendo d’istinto.

O forse per desiderio.

Per lussuria.

Per attrazione.

Per dominio.

Oh, al diavolo! So solo che continuammo a baciarci iniziando a muovere quasi inconsapevolmente i nostri bacini, sfregandoci a vicenda i nostri membri caldi e tremendamente svegli. Il suo cazzo era duro contro il mio e si ingrossava sempre di più. Purtroppo la nostra eccitazione rimase inappagata poiché quasi in contemporanea ci scostammo uno dall’altro esterrefatti da ciò che era appena successo. Nessuno dei due riusciva a dire nulla, rimanemmo semplicemente immobili con i membri pulsanti nascosti a stento nei boxer ad ascoltare i nostri respiri affannosi.

“Se lo dici a qualcuno ti ammazzo.” Dissi improvvisamente.

“Mi hai rubato le parole di bocca.” rispose con voce velata. Mi girai lentamente a guardarlo scoprendogli le gote decisamente accese e gli occhi languidi. Anche io avevo un'espressione del genere dipinta sul volto?

Eppure, nonostante i fatti appena accaduti e le nostre parole, nessuno di noi due accennava a muoversi. Fui io il primo ad alzarmi e ad allontanarmi scosso. Non lo salutai nemmeno ancora troppo sconvolto per reagire in qualsiasi modo. Non appena arrivai a casa mi nascosi sotto le coperte e iniziai a masturbarmi cercando di pensare al corpo formoso di qualche ragazza, invece, fu lui ad invadere i miei pensieri.

I suoi occhi.

Le sue labbra.

Il suo sapore ancora persistente nella mia bocca.

Lo sfregare dei nostri bacini.

I movimenti della mia mano si fecero sempre più veloci e frenetici.

Immaginai che fossero le sue mani a toccarmelo e l’orgasmo mi travolse lasciandomi senza fiato.

Venni sporcando le lenzuola e la mia mano di sperma caldo che mi affrettai a pulire con un fazzoletto.

Rukawa che tu sia maledetto!

Affondai il viso sopra il mio cuscino.

L’indomani mi sarei tagliato i capelli per ricordarmi la mia colpa. E poi sentivo l’esigenza di cambiare qualcosa

Mi girai nervosamente sul letto. 

E adesso come mi comporto con quella volpe?

Non lo sapevo assolutamente, per adesso mi bastava semplicemente batterlo sul campo gioco poi avrei preso una decisione. Dopotutto, quello che era accaduto era stato semplicemente un errore. Un abbaglio. Non eravamo seriamente attratti l'uno dall'altro, giusto?

Come no.

 

  
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