Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: L_Fy    12/07/2011    1 recensioni
....Per me, le vacanze estive erano semplicemente Cresta del Gallo, con le sue terrazze ripide, con l’odore di bosco che filtrava dalle finestre la mattina, con il blu del lago a salutare in lontananza… e perché no, con la torretta di Villa Lazzari che svettava vicina, complice della mia solitudine poiché solo io potevo vederla e condividerne la solitaria bellezza.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Memento audere semper
(Gabriele D’Annunzio)

 
Si sa che non c’è niente come una bella dormita per rimettere a posto le cose storte. Alla luce del sole, l’inquietante chiacchierata serale con nonna Rosa aveva preso contorni sfumati e toni più sbiaditi e certe mie elucubrazioni vagamente gotiche all’ora di colazione sembrarono quasi ridicole; non mi fu difficile quindi fingere gaiezza davanti alla faccia ombrosa di nonna Rosa. Snobbai platealmente la discesa alla fonte, tanto per metterla tranquilla, e passai molto tempo in cucina a farmi vedere serena e rilassata. Dentro di me, invece, fremevo di curiosità. C’erano elementi interessanti che erano saltati fuori in pochi giorni, soprattutto la reticenza di nonna Rosa a parlare dei Lazzari e di ciò che li legava alla nostra famiglia e io non vedevo l’ora di poterli analizzare. Appena potei, con la classica scusa della lettura, mi nascosi nel bosco a rimuginare e a fare il punto di ciò che sapevo: fortunatamente, avevo una mente pratica e analitica e riepilogare per punti era la cosa che mi riusciva meglio.
Punto primo: esisteva una famiglia ricca e riservatissima che frequentava l’ameno paesino di Cresta del Gallo da anni, se non da secoli. Scelta atipica: perché Cresta del Gallo e non qualcosa di più chic, tipo la Costa Smeralda o il sultanato del Brunei? Risposta: ai Lazzari non piaceva la pubblicità. Non comunicavano con nessuno, non davano confidenza a nessuno, di loro si sapeva il minimo indispensabile da sempre. Strano, ma non impossibile e, soprattutto, per niente trascendentale. Il fatto che fossero tutti belli come tanti David di Michelangelo non lo volevo ritenere un punto a sé stante, anche se al solo pensiero degli occhi di Saverio e Tobia il cuore partiva a ballare la rumba.
Punto secondo: niente donne in famiglia. Mai. Omosessualità genetica? No, perché nuove generazioni di Lazzari sostituivano le precedenti. Anche se, pensai con un tuffo al cuore, nessuno aveva mai visto un bambino o un vecchio bazzicare per Villa Lazzari. Tobia e Saverio, praticamente miei coetanei, li avevo notati solo negli ultimi anni e non avevo memoria di qualcuno di loro nell’infanzia. Strano. Da brivido, per dirla tutta. Ok, da valutare.
Punto terzo: improvvisamente, un esponente della famiglia si era interessato a me. Mettendo da parte inutili turbamenti e false modestie, potevo dire di non capire perché Tobia avesse scelto me, usando il termine che aveva tanto colpito nonna Rosa; ero carina, ma niente più di normale; ero intelligente, ma di sicuro non un premio Nobel… fascino, nemmeno a parlarne, figuriamoci. Famiglia? Tobia mi aveva “scelta” perché ero la nipote del nonno, storicamente unica persona ad avere una sorta di conoscenza particolare dei Lazzari? Ecco, forse quello cominciava a essere un buon motivo valido. 
Punto quarto: Nonna Rosa sapeva qualcosa e si mostrava contraria a qualsiasi forma di avvicinamento ai Lazzari. Intuivo che sarebbe stato inutile insistere con lei: più avessi mostrato curiosità per l’argomento, più si sarebbe chiusa a riccio e io, comunque, non avevo intenzione di sollevare più polvere del necessario. Dovevo sapere cosa nascondeva nonna Rosa senza domandarglielo direttamente.
Punto quinto: gli occhi di Saverio Lazzari erano la cosa più incredibile che avessi mai visto. Per quanto la cosa mi irritasse a morte, non potevo fare a meno di contarlo come punto a sé stante perché ogni due secondi il pensiero cadeva lì, tra quelle ciglia nere socchiuse, oltre quel verde ostile e torbido che mi metteva i brividi addosso.
Conclusione? La famiglia Lazzari aveva un segreto. La cosa era pericolosa e lo sapevamo tutti quanti, da nonna Rosa a Tobia Lazzari che, inspiegabilmente, sembrava l’unico a volere che io sapessi qualcosa di più. Ma la cosa più importante, quella che mi faceva provare un serio rimescolamento alle viscere, era un’altra: per la prima volta in vita mia, con un insolito colpo di testa, ero determinata a scoprire quale fosse il segreto dei Lazzari. Volevo saperlo, e niente mi avrebbe fatto cambiare idea, come se qualcosa di atavico e inesorabile mi imponesse di seguire quella direzione. A questo pensiero, non potei fare a meno di perdere di colpo tutto il mio buonumore mattutino.
*    *       *
Subito dopo pranzo, quando il sole a picco induceva a una opportuna siesta tra le mura domestiche, sgattaiolai fuori da casa e mi addentrai nel bosco. Destinazione: Villa Lazzari. Evitai accuratamente il muro di cinta che costeggiava il nostro giardino per ovvi motivi (ci mancava solo che tentassi di arrampicarmi proprio sotto il naso di nonna Rosa). Mi addentrai quindi nel bosco, pur sapendo a malapena che direzione prendere: non ero mai stata una tipa avventuriera e nemmeno da bambina avevo mai avuto il desiderio di osservare da vicino la Unica e Inimmaginabile Villa Lazzari… anche perché il confine di proprietà era circondato da un muro di sassi dall’aria arcigna abbastanza alto e spesso da smorzare qualsiasi velleità di esplorazione. Non potendo ovviamente sfoggiare la mia tenuta da free climbing, mi munii di robuste scarpe da ginnastica, maglietta a mezze maniche e jeans lunghi. Oltrepassata la fonte, il sentiero si perdeva in mezzo al fitto dei pini mughi e delle roverelle lasciate inselvatichire fin quasi a sembrare ostili e impenetrabili. Il mio buon senso dell’orientamento mi aiutò a districarmi tra la vegetazione e in men che non si dica mi trovai davanti a un imponente muro di cinta ricoperto da muschio ed edera rampicante. Era davvero alto, meditai incerta sollevando gli occhi: invece che smontarmi, questa constatazione acuì la mia determinazione. Infilando con molta cura le punte delle scarpe nelle fessure tra un sasso e l’altro e aiutandomi con gli stralci di edera, iniziai ad arrampicarmi faticosamente. Non ero una gran arrampicatrice e la mia pessima forma fisica si tramutò in una serie di vergognose cadute dopo nemmeno un metro di arrampicata. Dopo un’ora di inutili tentativi, sudata, contusa e parecchio irritata, cominciai a pensare a una alternativa; era impensabile che Tobia si macinasse ogni giorno chilometri e chilometri di boscaglia per incontrarsi con me, giusto? Quindi forse dovevo cercare un passaggio meno ostico. Doveva esserci per forza un varco in quel muro; un cancello segreto, una porticciola, un buco nel terreno… armata di santa pazienza, iniziai a camminare lungo il muro e dopo una cinquantina di metri trovai per l’appunto un piccolo cancelletto arrugginito ben mimetizzato sotto una fitta cascata di rovi. Imprecando mentalmente per il tempo e le energie perdute nel tentativo di scavalcare quel dannato muro quando avevo avuto la soluzione praticamente sotto gli occhi, iniziai a scuotere il cancello per aprirlo. Non si mosse di un millimetro; per quanto fosse arrugginito, una robusta e scintillante catena con un lucchetto grosso come un pungo la rendeva inaccessibile quanto il muro. Imprecai di nuovo, ma non mi diedi per vinta: notai che, tolta l’erbaccia alta fino al ginocchio, c’era uno spazio di una ventina di centimetri tra il bordo inferiore del cancello e il terreno. Ignorando il più possibile una vocetta scandalizzata che mi urlava nella testa tutta la sua oltraggiata costernazione per ciò che stavo per fare, mi sdraiai a pancia in su e spingendo, strisciando e ruminando erbaccia riuscii a scivolare sotto il cancello. Mi feci un bel taglio frastagliato sul braccio e annotai mentalmente di disinfettarlo al più presto mentre mi alzavo alla svelta, scrollandomi il più possibile terriccio e foglie secche dai capelli. Dovevo avere un’aria disastrosa, pensai sogghignando, poi mi resi conto di essere penetrata illegalmente in una proprietà privata e di colpo smisi di trovare la situazione divertente. Se uno dei Lazzari mi avesse trovato lì avrebbe mandato in rovina la mia famiglia a forza di denunce, meditai con un brivido: e io cosa avrei potuto dire a mia discolpa? La verità? O sarebbe stato più semplice dire che stavo inseguendo il Bianconiglio? Prudentemente, mi rintanai sotto a un enorme salice fronzuto mentre decidevo il da farsi. Dalla mia posizione potevo vedere solo bosco selvaggio e maltenuto come quello oltre il muro, quindi con molta calma mi diressi verso quello che immaginavo essere il nord, ovvero verso dove avrebbe dovuto trovarsi la villa. Mentre camminavo cercando di fare meno rumore possibile, sentivo il cuore che batteva nel petto con una forza e una presenza tutte nuove, come se di colpo avesse triplicato il suo volume. Avevo i muscoli tesi e all’erta, i graffi riportati nei miei tentativi si scalata che bruciavano come fuoco e il respiro rapido e discontinuo. Non ero mai stata così scandalosamente primitiva, pensai ridacchiando tra me e me. E nemmeno così spaventata, meditai fuggevolmente, ma quel pensiero pensai bene di accantonarlo. Arrivai in un punto dove il bosco terminava bruscamente per lasciare il posto a un enorme prato verde grande come minimo come uno stadio di calcio, tribune comprese. In fondo a esso Villa Lazzari si stagliava gloriosa contro l’azzurro tremolante del pomeriggio. Nessuno aveva mai visto la Villa tutta intera; l’unica parte visibile era la torretta che vedevo dalla mia stanza, ma non era sufficiente a prepararmi a ciò che vidi. La Villa era indubbiamente antica, molto più di quanto avessi pensato in un primo tempo. La base era formata da una costruzione quadrata e massiccia che poteva benissimo risalire al primo medioevo a giudicare dalle mura solide e dalle strette finestre oblunghe. Sulla destra un’ala relativamente nuova aveva le finestre a ogiva e il tetto a volta tipico dei castelli francesi del 1700; la torretta che conoscevo bene svettava bianca e snella con la sua elegante sezione ovale e il suo tetto di ardesia sopra a un muro merlato recentemente ristrutturato; una torretta gemella, anche se più bassa, ornava l’angolo opposto della base. La veranda di travi di legno rivestite di glicine profumato che copriva il lato destro poteva risultare anacronistica visto il suo design indubbiamente moderno, e invece donava una squisita e rotonda dolcezza alla figura massiccia del corpo centrale La piscina olimpionica di un azzurro accecate, sul retro della casa, non poteva poi che essere nuova di zecca. Rimasi per un pezzo ad ammirare la casa, consapevole del fatto che poche persone avevano avuto quel privilegio. Notai un maneggio grande come un condominio a sei piani steso in orizzontale e tre campi da tennis, uno di terra rossa, uno di cemento e uno di erba curatissima, dislocati vicini al muro di cinta più vicino a casa mia; in giro non si vedeva anima viva se non un tizio al maneggio intento a portare all’interno del fieno con un forcone. Seminascosta dal verde sulla sinistra della casa ma ben discosta da essa, c’era una costruzione dal tetto spiovente di tegole rosse inverdite dal tempo. Dedussi che doveva essere la casa del custode e con un tuffo al cuore ricordai le parole di nonna Rosa; lì aveva abitato il nonno con la sua famiglia prima di trasferirsi nell’attuale casa. Irritata con me stessa, mi chiesi perché non avessi mai approfondito l’argomento con nonna Rosa o con mamma. Entrambe non parlavano molto del nonno e io e le mie sorelle avevamo sempre rispettato quella loro sorta di pudore. In quel momento, però, me ne pentivo amaramente: col senno di poi mi resi conto che il nonno era stato davvero molto vicino alla famiglia Lazzari e che a quel punto la sua esperienza mi sarebbe indubbiamente servita. In ogni caso, accantonai le mie elucubrazioni per studiare ben bene Villa Lazzari: più di così, dedussi scoraggiata, non mi potevo avvicinare. Il prato circondava completamente la casa ed era impossibile attraversarlo senza uscire vistosamente allo scoperto. Decisi allora di costeggiare il bosco per tutto il perimetro, studiando la costruzione da lontano. Più camminavo e più mi riempivo di nuovi graffi: quell’avventura stava diventando più dolorosa del previsto, rimuginai scostando stizzita l’ennesimo fascio di rovi. Mi bloccai quasi sul posto: ero giunta in una sorta di radura naturale nel centro esatto del bosco che circondava Villa Lazzari. La vegetazione intorno era fittissima e gli alberi alti e curvi, sicuramente secolari, circondavano la radura brulla con una regolarità davvero inquietante. Al centro dell’angusto spiazzo c’era una costruzione di pietra grigiastra e aggredita dalle erbacce che non faticai a riconoscere come un’antica ara pagana. Titubante, mi avvicinai per studiarla meglio: da vicino notai che era insolitamente grande e piatta e sembrava autenticamente antica, anche se abbandonata al passare del tempo. Le decorazioni grezze sui fianchi erano smussate dal tempo e la superficie discontinua del pianale sembrava levigata come un sasso di fiume. Nonostante la sua origine inquietante, non aveva un’aria particolarmente misteriosa; sembrava solo vecchia e abbandonata. Girai a lungo incuriosita intorno all’ara: sotto le erbacce scoprii anche una specie di ampio scalino, come se in origine quella struttura fosse residente su un piano rialzato. Chissà quanti anni aveva, pensai rapita ma anche inquieta. Dalle mie polverose nozioni di storia ricordavo vagamente che le are erano in pratica degli altari che venivano utilizzati per compiere riti religiosi o sacrifici sacri. Quell’ara era abbastanza grossa da contenere una giovenca, meditai con un brivido: chissà se era davvero mai stato versato del sangue sopra di essa? Stavo per scostarmi rabbrividendo quando notai una specie di incisione resa quasi illeggibile alla base dell’ara: era scritta in stampatello e a fatica riuscii a decifrare lo scarso contenuto:
FIAT VITAE – PARACELSUS
Paracelsus? Quel nome non mi era nuovo, anche se non ricordavo assolutamente chi fosse. In quanto alla scritta, nonostante il mio latino non fosse impeccabile, non ci voleva un genio per capirla: sia vita. Il senso, ovviamente, mi era assolutamente ignoto. Rimuginai per un po’ intorno alla costruzione di pietra, cercando di capire se fosse davvero interessante e come eventualmente collocare un’ara pagana nel contesto delle mie indagini, ma ovviamente non cavai un ragno dal buco. Fu a quel punto, quando ancora ero in piedi a meditare assorta davanti al blocco di pietra, che sentii una voce furibonda provenire dalle mie spalle.
“E tu che diavolo ci fai qui?”
*    *       *
Il cuore mi balzò in gola bloccandomi il respiro mentre il corpo si congelava di sacro terrore, ma in fondo in fondo non ero sorpresa: entrare di nascosto sul terreno dei Lazzari e pensare di farla franca mi era parso sin dall’inizio un miraggio. E a complicare le cose, benché fosse l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento, avevo riconosciuto al volo la sua voce, dalla prima sillaba vibrante di rabbia avevo capito che si trattava di lui: Saverio Lazzari. Diamine, ero certamente nei guai. Mi irrigidii tutta mentre un secco frusciare d’erba mi avvisò che Saverio si stava avvicinando rapidamente. Girai su me stessa per affrontarlo faccia a faccia e per poco non andai a sbattere contro il suo petto rigorosamente rivestito di lino di Armani. Il suo profumo buonissimo mi colpì violento come una mazzata e, se possibile, mi ammutolì ancora di più. In quel momento avrei dato due dita della mano destra per essere lontano mille chilometri da lì; poi alzai gli occhi sul viso di Saverio e tutto quello che la mia mente aveva debolmente farneticato in quei pochi secondi venne spazzato via dalla potenza del suo sguardo. Era furioso: i suoi occhi sembravano ancora più verdi, quasi fosforescenti tanto erano limpidi di rabbia, e mandavano lampi di collera che avrebbero potuto incendiare una foresta. Rabbrividii respirando velocemente, senza trovare il coraggio di spiaccicare una sola parola, ma continuando a guardarlo impotente e affranta. Saverio rimase a lungo in piedi davanti a me, fremente di rabbia e con le belle labbra pressate in un’unica linea dura che gli tagliava il viso.
“Ti ho chiesto che diavolo ci fai qui.” domandò a un tratto con voce malamente controllata.
Deglutii a secco un paio di volte cercando affannosamente una risposta sensata.
“Tobia mi ha invitato.” sparai fuori alla fine con un filo di voce.
Non era esattamente una bugia, ma il suo sguardo indagatore mi penetrò dentro come una lama nel burro e io mi sentii una bugiarda patentata, sporca, piccola e meschina oltre ogni dire.
“Balle.” sentenziò secco Saverio e si vedeva che si stava trattenendo a stento dallo schiaffeggiarmi.
Sentivo fortissimo il bisogno di scusarmi, come una bimba piccola colta in flagrante con le dita nella marmellata, ma sapevo d’istinto che se mi fossi scusata sarebbe successo qualcosa di irreparabile.
“Mi ha invitata a giocare a tennis” ribadii con voce un pochino più convincente “L’altro giorno, alla fonte.”
Chiusi la bocca prima che mi uscisse qualcosa di terribilmente stupido e infantile mentre gli occhi di Saverio continuavano a incenerirmi con sprezzante furore.
“A tennis?” domandò aggressivo “Sei venuta per giocare a tennis?”
Di colpo mi ricordai dei jeans sporchi e delle foglie secche tra i capelli, senza contare la miriade di graffi che mi costellavano le braccia e il taglio profondo che bruciava come il fuoco: mi mancavano la lancia e lo scudo di corteccia per sembrare uscita fresca fresca dalla preistoria, figurarsi se sembravo pronta per il torneo di Wimbledon.
“Bè, non proprio” ammisi arrossendo furiosamente “Io… ehm, non so giocare a tennis. Ero venuta… ah, a dare un’occhiata.”
Alle mie parole, se possibile, Saverio si arrabbiò ancora di più e quasi mi aspettavo da un momento all’altro che le sue narici cominciassero a emettere fumo verdastro.
“A dare un’occhiata?” sibilò afferrandomi un braccio con una morsa d’acciaio “Ti rendi conto… hai una vaga idea di quanto sia stata stupida questa mossa?”
Trasalii e non fu solo per la forza con cui mi stringeva il braccio: il contatto della pelle calda e asciutta della sua mano mi aveva provocato una inquietante scossa elettrica che mi aveva attraversata da parte a parte. Stranamente, questo mi diede la forza per rispondere.
“Ti ho detto che mi ha invitata Tobia” ribattei cocciuta strappando il braccio dalla sua presa ferrea “Piantala di arrabbiarti così, ti verrà un infarto al miocardio e non mi sembra che ne valga la pena.”
Incredibilmente, le mie parole sembrarono ammansirlo un po’: continuava a sembrare sul punto di strozzarmi, ma c’era un sottofondo divertito nel suo sguardo.
“Non ne vale la pena, eh?” borbottò con voce più bassa “Lasciatelo dire, mocciosa, tentare di tenerti fuori dai guai è praticamente impossibile.”
“Non mi sembra che giocare a tennis sia sinonimo di guai” risposi distogliendo prontamente lo sguardo “Almeno, non lo è nel mondo reale, ma ammetto che qui ai confini della favolosa Terra di Mezzo non so bene come vadano le cose.”
Questa volta, lo scintillio divertito negli occhi di Saverio raggiunse la superficie e si stemperò nella sua voce.
“Meriteresti una sculacciata” sentenziò rizzando la schiena, non più minaccioso ma ancora vagamente all’erta “O una bella denuncia per violazione di proprietà privata. E aggiungerei disturbo alla quiete pubblica, tanto per gradire.”
Per un attimo impallidii all’idea che parlasse sul serio.
“Non lo faresti mai” decretai poi alla fine di una breve riflessione “La preziosa privacy dei Lazzari non può essere minacciata da una banale partita a tennis, no?”
Saverio sembrò riflettere sulle mie parole: in realtà sembrava ancora vagamente divertito.
“Dovrei denunciarti comunque, mocciosa” borbottò severamente “Te lo meriteresti… e sarebbe la tua salvezza.”
Sembrava così sincero che dovetti fingere a fatica di non aver capito.
“Non sono una mocciosa.” ribattei con voce flebile, del tutto a sproposito.
“Sì che lo sei.” grugnì Saverio afferrandomi di nuovo il braccio e cominciando a trascinarmi con decisione verso la casa. Spaventata, puntai immediatamente i piedi.
“Dove mi porti?” strillai con voce acuta.
Lo sguardo che mi lanciò, esasperato e serafico insieme, mi fece di nuovo arrossire fino alla radice dei capelli.
“Ti riporto a casa, mocciosa” spiegò con il tono paziente di un maestro di scuola elementare mentre continuava a trascinarmi con decisione verso la villa “Non lascerò che scorrazzi per il mio giardino a farneticare su partite di tennis inesistenti, col rischio di…”
Si interruppe bruscamente e sembrò di nuovo furioso. Perché secondo lui ero in pericolo a Villa Lazzari? Avrei voluto glissare di nuovo, ma questa volta non ne fui capace.
“Cos’è, ho rischiato di essere azzannata dalle bestie feroci che fanno la guardia al tuo nido?” buttai lì, sperando di non aver esagerato.
Saverio non smise di camminare, ma mi lanciò uno sguardo indagatore.
“Forse” rispose con voce cupa “Ci siamo, sali in macchina.”
Mi lasciò il braccio così bruscamente che quasi inciampai: eravamo arrivati non troppo vicini alla villa, dietro quella che doveva essere la rimessa delle auto e che sembrava un hangar per aerei da carico merci. Davanti a me c’era una Volkswagen Golf rossa cabriolet con la capote chiusa: davanti a essa c’erano la Maserati che ormai conoscevo bene, una Mercedes metallizzata dall’aria funebre e un paio di altre vetture che non fui in grado di identificare prima che Saverio mi spingesse con decisione dentro la Golf.
“Entra ho detto.” mi sgridò chiudendo la portiera alle mie spalle e ricomparendo subito dalla parte del guidatore.
“Non sono un sacco di patate.” grugnii offesa mentre Saverio accendeva la macchina e faceva retromarcia, mostrandomi da vicino un severo e arrogante profilo di nuovo furioso. Era così bello, pensai con una fitta al costato: quel naso patrizio, quelle sopracciglia folte dalla linea dritta e severa, quegli occhi incredibili di quel verde innaturale, ammaliante… una strana e liquida sensazione di torpore prese a salirmi lungo le gambe e io, imbarazzata, mi accoccolai sul sedile il più lontano possibile da Saverio, ben aderente alla portiera della Golf. Provai anche a non guardarlo mentre guidava, ma questo mi risultò francamente impossibile: Saverio era così perfettamente bello e arrabbiato che era difficilissimo togliergli gli occhi di dosso. Quasi non mi accorsi che la macchina stava percorrendo una strada di ghiaia: passammo davanti all’ingresso della villa a velocità sostenuta mentre le nocche di Saverio sbiancavano strette al volante; quando imboccammo il viale verso il cancello di uscita, sembrò rilassarsi un pochino e si girò verso di me con espressione seria.
“Promettimi una cosa” sbottò all’improvviso con inequivocabile tono di comando “Prometti che non metterai mai più piede a Villa Lazzari. D’accordo?”
No, pensai ottusa e cocciuta, non ero d’accordo per niente. Incrociai le braccia sul petto e feci il broncio.
“Perché non dovrei venire, se qualcuno mi invita?” risposi aggressiva.
Lui mi lanciò un nuovo sguardo esasperato, anche se sembrava più tranquillo a ogni metro che aggiungevamo tra noi e Villa Lazzari.
“Sei cocciuta e ottusa come un mulo” berciò sprezzante “Hai parlato o no con tua nonna?”
“Certo che ci ho parlato” risposi mortalmente offesa dal suo tono saccente “E indovina, non mi ha sgridato proprio per niente. Anzi, mi ha detto che se voglio frequentare Tobia, posso farlo tranquillamente.”
Stavo diventando davvero brava nell’arte di farcire di bugie le mezze verità, ma non lo ero abbastanza per fregare Saverio Lazzari.
“Sei una piccola e subdola bugiarda” sogghignò quasi con ammirazione “Non so proprio perché Tobia si ostini tanto con te. A parte il fatto che sei attraente, non hai nessuna caratteristica adatta per essere quella giusta.”
Ovviamente, non capii il senso di quello che diceva. Solo una parola galleggiò sopra le altre e io la colsi piena di sincero stupore.
“Attraente?” chiesi incerta.
Saverio dovette leggere la sincerità nella mia voce perché sorrise magnanimo.
“Attraente, certo” rispose canzonatorio “Magari non nel senso adolescenziale del temine, ma questi sono dettagli… Perché credi che Tobia si sia interessato a te?”
Ci pensai su, mettendo coraggiosamente da parte l’ovvio imbarazzo.
“Io credevo che fosse per dare fastidio a te.” risposi poi con assoluta convinzione.
Saverio sembrò prima stupito, poi divertito: alla fine rise, inclinando la testa all’indietro e mostrando maliziosi occhi scintillanti e una perfetta chiostra di denti bianchi.
“Diamine” commentò ancora ridendo “Non pensavo di stare così antipatico al mio stesso fratello. Credevo che fosse una cosa circoscritta al resto del mondo.”
“Megalomane” lo rimproverai “Questa è una tipica frase da snob egocentrico.”
“Perché hai accettato la corte di Tobia?”
La sua domanda mi prese in contropiede: avrei voluto dirgli che tecnicamente Tobia non mi aveva mai fatto la corte, ma sarebbe stata l’ennesima mezza verità per non affrontare il mio meschino rifiuto della realtà.
“Per tanti motivi, tutti futili” ammisi alla fine abbassando gli occhi sulle mie mani graffiate “Per vanità… perché mi lusingava pensare che un Lazzari potesse interessarsi a me…”
Lui sorrise sardonico e la verità venne fuori tutta, quasi indolore.
“Soprattutto, per dare fastidio a te.” mormorai titubante sottovoce.
Avevamo passato il cancello di ingresso di Villa Lazzari e ora, grazie a Dio, eravamo in territorio neutrale. Saverio sterzò bruscamente la macchina e si fermò di colpo, girandosi contemporaneamente a guardarmi con sguardo severo. Sembrava ancora divertito, ma non del tutto: c’era una strano fondo di malinconia nei suoi occhi e non la smetteva di fissarmi con cipiglio aggrottato. E io, stupida, non riuscivo più ad abbassare gli occhi. Ogni secondo che passava in silenzio, le mie innocenti parole diventavano sempre più pesanti e ricche di un significato che non mi piaceva affatto: eppure, continuavo a guardare quelle due pozze verdi ed era come affondare in un gelido lago alpino.
“Ti sto così antipatico?” chiese lui alla fine lentamente.
Gelido lago alpino del cavolo… allora perché mi sentivo bruciare tutta?
“Non esattamente.” ammisi con la bocca che sembrava improvvisamente piena di sabbia.
Di nuovo i suoi occhi mi punsero come spilli, pieni di rimprovero e di malinconia. Niente si era mosso di un millimetro, eppure il luminoso abitacolo della macchina mi sembrava di colpo più piccolo e soffocante, come se uno strano calore alieno arrivasse dal basso per arrampicarsi con tenacia sotto i miei jeans e lungo le cosce. Mi stava succedendo di nuovo! Confusamente, mentre il calore saliva inesorabile verso il collo, pregai con tutto il cuore che Saverio non se ne accorgesse, e in effetti sembrava immune a quell’atmosfera elettrica. A parte gli occhi: quelli sembravano diventati di colpo enormi, così tormentati e severi.
“Che guaio.” mormorò a un certo punto, così piano che per un attimo pensai di essermelo sognato.
“Cosa?” domandai con un filo di voce: quasi speravo che tornasse a guardarmi cattivo come i primi tempi, per spegnere almeno un poco quel fuoco tormentoso che mi arroventava le gambe.
“Tu” sospirò riluttante “Tu sei un guaio. Un maledettissimo guaio che odora di buono.”
Non feci nemmeno in tempo a elaborare le sue parole che un’ombra oscurò il finestrino: qualcuno bussò con incertezza al vetro e io mi girai a guardare chi fosse con lentezza, come se avessi avuto il collo avvitato su cardini arrugginiti. Mi trovai faccia a faccia con Filippo e la sua espressione attonita mi riportò di colpo nel mondo dei vivi.
*    *       *
Filippo sembrava così completamente sbalordito che in altre circostanze sarebbe sembrato ridicolo: più veloce della luce, aprii la portiera e sgusciai fuori dalla macchina nemmeno mezzo secondo dopo che Filippo aveva bussato.
“Ciao.” cinguettai con voce allegra mentre il cuore mi batteva così forte nel petto che pensavo sarebbe uscito dallo sterno da un momento all’altro.
“Ciao” rispose Filippo ancora decisamente sbalestrato “Ero andato a trovarti a casa, ma tua nonna mi ha detto che non c’eri… Che ti è successo?”
Si riferiva sicuramente alla mia aria da terremotata, pensai con allarme: lui distolse lo sguardo da me e lo fissò sulla bella faccia di bronzo di Saverio che era prontamente sceso dalla Golf e ora esibiva un amabile sorrisetto di circostanza.
“Ciao.” disse con voce musicale all’indirizzo di Filippo, ma io intuii bene l’intonazione metallica dietro l’indubbia cortesia: era di nuovo arrabbiato e all’erta con tutti i sensi.
Sapevo con incredibile chiarezza che se non avessi trovato subito una scusa plausibile, Filippo avrebbe spifferato al mondo di avermi vista in macchina con Saverio Lazzari e questo non doveva succedere. Nonna avrebbe capito che le avevo disubbidito platealmente e Tobia si sarebbe arrabbiato… dopo Saverio, non avevo nessuna voglia di vedere un altro Lazzari arrabbiato con me. Quindi, sfoggiando un’incredibile faccia tosta mi girai verso Saverio con uno scintillante sorriso di circostanza.
“Ti ringrazio davvero tanto, Saverio, di avermi dato un passaggio, ma ora che ho incontrato Filippo non ne ho più bisogno.” tubai con voce estremamente cortese e fredda come se parlassi a un perfetto sconosciuto. Sorvolai sullo sguardo sorpreso e sospettoso di Saverio per girarmi verso Filippo e sorridergli con molto più calore, sperando di fargli abbastanza effetto da distrarlo da Saverio.
“Sono caduta in un roveto, lungo la strada, e mi sono storta la caviglia. Il signor Lazzari, molto cortesemente, mi ha dato un passaggio, ma ora che ci sei tu possiamo proseguire insieme fino a casa. Ti va?”
Lo guardai da sotto in su, sbattendo le ciglia come avevo visto fare a Rossella. Non sapevo perché lo stessi facendo e pensavo non avrebbe mai funzionato, invece Filippo diventò di colpo bianco e rosso come una pesca e iniziò a respirare velocemente, sorridendo con aria ebete.
“Oh, certo che mi va… ti sei fatta molto male?”
“No, no, solo una piccola storta” mentii mentre il sollievo mi allagava il petto “Posso?”
Mi appoggiai alla sua spalla con intenzione e Filippo divenne ancora più rosso e confuso.
“Certo, certo” balbettò irrigidendosi impacciato “Quale caviglia ti fa male?”
“La destra” buttai lì cominciando a zoppicare verso casa “Ma non è niente, sto già meglio.”
“Devi stare più attenta.” mi sorrise Filippo, così evidentemente contento che per un attimo sentii una fitta di rimorso pungermi il cuore. Ma fu soltanto per un secondo. Da sopra la spalla di Filippo mi azzardai a sbirciare brevemente verso Saverio e vidi che, incredibilmente, stava sogghignando: i suoi occhi verdi scintillavano di malizia e il mio cuore fece una capriola dolorosa nel petto davanti a quella irresistibile aria di complicità. Filippo si girò verso di lui e il sogghigno scomparve dietro una maschera di annoiata alterigia.
“Visto che non c’è più bisogno della mia auto, vi auguro buona giornata” sorrise Saverio rimontando in macchina “Riguardati dai rovi, Milena.”
“Buona giornata anche a te, e grazie.” buttò lì Filippo con voce incerta mentre la macchina si riavviava rombando.
Io non dissi niente: guardai la Golf sparire dietro la curva, sentendomi di colpo incredibilmente stanca e vuota mentre il ricordo della voce di Saverio che pronunciava il mio nome mi scavava dentro un cratere di malinconia.
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: L_Fy