Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: L_Fy    12/07/2011    1 recensioni
....Per me, le vacanze estive erano semplicemente Cresta del Gallo, con le sue terrazze ripide, con l’odore di bosco che filtrava dalle finestre la mattina, con il blu del lago a salutare in lontananza… e perché no, con la torretta di Villa Lazzari che svettava vicina, complice della mia solitudine poiché solo io potevo vederla e condividerne la solitaria bellezza.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Veritas filia temporis
(Gellio)

Scrollarsi di dosso Filippo senza ferirlo fu un compito molto più arduo del previsto. Mi aveva accompagnata a casa dove fortuna volle che ci fosse tutta la famiglia al completo ad accoglierci. Sudai sette camice per sorridere abbastanza da distrarlo durante il racconto creativo della mia rovinosa caduta nei rovi, per fare in modo che non pronunciasse mai il nome dei Lazzari.
“Poi è arrivato Filippo e mi ha aiutata ad arrivare fino a casa” tagliai corto alla fine pregando Dio che Filippo non saltasse su con qualche inopportuna precisazione “Ora sto morendo di fame: nonna, hai qualche pagnotta appena sfornata da esibirci?”
Nonna, ovviamente, disse di sì e Filippo approvò con esultanza l’avvento della merenda. In conclusione, per grazia ricevuta, finì tutto a tarallucci e vino; il mio fu un lavoro d’alto contenuto diplomatico che mi lasciò praticamente stremata e indebolita, quindi fu sicuramente per stanchezza che permisi a Filippo di prendermi la mano davanti a nonna Rosa che mi lanciò uno sguardo incuriosito. Mamma e papà finsero di non accorgersene e questo mi mise in allarme più che se avessero detto qualcosa: Filippo sorrideva da un orecchio all’altro e io capii finalmente che mi stavo ficcando nei guai. Lo congedai piuttosto freddamente anche se dovetti promettergli che sarei scesa in gelateria quella sera. Sperai che quello fosse un dazio da pagare abbastanza salato da chiudere il conto: come al solito mi sbagliavo di grosso.
*    *       *
Dopo cena provai in tutti i modi a fingere stanchezza e mal di testa, ma Rossella non volle sentire ragioni: sarei scesa in paese con lei perché, mi spiegò elettrizzata, qualcuno doveva dirmi qualcosa di davvero importante. Non ci misi molto a intuire chi era il qualcuno e cos’era il qualcosa: con tutta la carne che avevo sul fuoco per altri argomenti, le velleità romantiche di Filippo erano l’ultima cosa che avrei voluto in quel momento. Io volevo cercare notizie sul nome trovato inciso sull’ara di Villa Lazzari, quel tale Paracelsus che non mi giungeva nuovo, ma a Cresta del Gallo la famiglia Mercati viveva un po’ allo stato brado, senza contaminazioni tecnologiche importanti: avevamo la lavatrice, ma non la lavastoviglie e la televisione era un cubo antidiluviano che prendeva a malapena i canali Rai, quindi di computer nemmeno a parlarne. Rimanevano i vari libri di scuola archiviati di generazione in generazione nei bui meandri della cantina di nonna Rosa, quindi avevo in mente di farci un salto per cercare informazioni. Ma dovevo tentare in tutti i modi di tenere il naso di nonna lontano dalle mie ricerche: per metterla tranquilla, acconsentii a scendere in paese, sperando che un look trasandato e un’espressione truce bastassero a svilire le aspettative di Filippo. Mi sbagliavo: il poveretto mi aspettava in piazza, tutto ben vestito e profumato come se avesse dovuto andare a messa. Non riuscii a sentirmi dispiaciuta per lui: ero solo irritata dall’impossibilità di mandarlo a quel paese come avrei voluto. Fortunatamente, Martina e Sara mi furono d’aiuto: le coinvolsi in una noiosissima disquisizione sull’ultima pettinatura di Cameron Diaz sulla quale concentrai tutta la mia attenzione, snobbando il più possibile Filippo. Glissai con molta cortesia sulle sue ripetute richieste di “fare una passeggiata noi due soli” adducendo il provvidenziale male alla caviglia. Insomma, pensavo che la serata non sarebbe potuta essere più disastrosa di così, quando la Maserati dei Lazzari si fermò davanti alla gelateria smentendomi all’istante.
*    *       *
“Devo andare in bagno.” dissi in fretta sperando che nessuno dei presenti fosse così sveglio da collegare la mia diuresi all’arrivo della macchina dei Lazzari.
“Ti accompagno.” scattò subito in piedi Filippo e io non persi tempo a protestare: furiosa, zoppicai in fretta dentro la gelateria mentre vedevo scendere dalla Maserati Saverio Lazzari in persona. L’effetto che fece quello splendido esemplare maschile sulla gente circostante fu quasi imbarazzante, ma fortunatamente Filippo e io entrammo dalla porta a vetri in gelateria prima che lui ci notasse. Il bagno, ovviamente, era occupato.
“Che iella.” motteggiò Filippo, evidentemente felice di restare relativamente solo con me.
Io grugnii qualcosa in risposta mentre sentivo alle spalle il delicato tintinnio della porta a vetri della gelateria che si apriva e un rumore di passi in avvicinamento. Immediatamente mi prese il panico: afferrai il braccio di Filippo alzando su di lui una faccia seria.
“Come sei pallida, Lena!” esclamò lui premuroso “Non ti senti bene?”
Le sue parole mi suggerirono l’ennesima sporca bugia.
“Senti, non è che mi andresti a prendere la borsetta?” dissi in fretta con un sorriso stentato “L’ho lasciata appesa al motorino di Rossella e ho dentro della roba che… ehm… mi serve.”
Filippo ci mise qualche secondo a capire, ma alla fine mi fece un ampio e radioso sorriso.
“Oh, ho capito, certo” cinguettò felice “Vado e torno.”
Trottò via di buon passo e io fui lì lì per gridargli dietro: fai con comodo! Mi bloccò lo sguardo di Saverio Lazzari che incrociai per sbaglio mentre mi giravo per seguire l’uscita di Filippo. Il cuore si fermò per un attimo, folgorato da quei due fari verdi grondanti ironia e divertimento, poi riprese a battere con un pesante ritmo brasiliano mentre mi accorgevo irritata che il respiro si faceva affannoso e rapido. Ogni volta che vedevo Saverio Lazzari mi faceva sempre più effetto, meditati sconvolta: che diavolo poteva significare? Distolsi bruscamente lo sguardo e, per darmi un contegno, mi avvicinai al banco scrutando assorta i gusti di gelato. Un strano pizzicore mi salì dietro la nuca quando mi resi conto che Saverio si era avvicinato: benché gli girassi le spalle, avevo sentito il suo inconfondibile profumo e già il cuore aveva preso a rullare come un maledetto tamburo.
“Ciao.” disse la sua voce, vagamente ruvida e grondante divertimento.
Non girai nemmeno la faccia, benché avere davanti l’espressione sconvolta di Antonio il gelataio non mi fosse di grande aiuto.
“Ciao” risposi a denti stretti, giusto per non essere scandalosamente maleducata “Un cono cioccolato fondente e frutti di bosco, Antonio, grazie.”
“Volevo accertarmi che la tua caviglia godesse di buona salute.” continuò Saverio amabilmente, e il divertimento nella sua voce era tangibile.
Io tenevo ancora lo sguardo girato verso Antonio e la sua faccia da carpa lessata.
“La mia caviglia sta benissimo, grazie” risposi con alterigia “Antonio, un cono fondente e frutti di bosco, per favore.”
“Oh-ah?” gracidò Antonio perplesso. Maledizione, gelataio dei miei stivali, un po’ di collaborazione!
“A me un chilo di fior di latte e crema.” sentenziò Saverio con voce neutra e Antonio scattò come un militare agli ordini del suo generale. Mi arrischiai a lanciare uno sguardo di striscio a Saverio che adesso mi stava tranquillamente di fianco.
“Che ci fai qui!” sibilai furiosa sperando che la radio in filodiffusione coprisse i miei miagolii oltraggiati.
“Prendo il gelato” rispose Saverio amabilmente “E contemporaneamente mi accerto della tua salute. Due piccioni con una fava, non si dice così?”
Rideva, il vigliacco: gli lanciai un nuovo sguardo di fuoco arrabbiandomi ancora di più.
“Voi Lazzari siete diventati improvvisamente assidui, qui in gelateria” mormorai aggressiva “Questo nuoce parecchio alla vostra preziosa riservatezza.”
“Ero davvero molto preoccupato per la tua caviglia” rispose lui con occhi scintillanti “A proposito, era la destra: ricordatelo quando uscirai zoppicando.”
“Non hai paura che la gente ci veda parlare?” buttai lì con acrimonia subendo il suo conseguente sorrisetto storto.
“Sto cominciando a pensare che sarebbe meglio agire alla luce del sole” rispose noncurante “E poi, è davvero rilassante non dover stare sempre in campana e fare quello che mi pare visto che ci sei già tu che pensi al mantenimento della mia privacy…”
Mi strizzò l’occhio irriverente e io provai una specie di dolorosa vertigine.
“Proprio non ti capisco” berciai sottovoce “Prima fai fuoco e fiamme se parlo con tuo fratello, poi mi vieni a parlare qui davanti a tutti… che stai tentando di fare?”
Il suo sorriso canzonatorio si stemperò in una lieve malinconia.
“Sto cercando in tutti modi di allontanarti” rispose con voce piatta “Visto che il metodo inverso non ha funzionato, se ti parlo in pubblico forse ti decidi a lasciarci perdere.”
Lo guardai negli occhi: parlava sul serio, ma sembrava lo stesso vagamente triste.
“Io non lascio perdere.” scandii con decisione e il suo sguardo si indurì ancora di più.
“Sei dannatamente cocciuta.” sibilò con voce piena di rimprovero.
“E tu sei schifosamente presuntuoso.” ribattei immediatamente.
“Ecco qua il chilo di gelato.” cinguettò Antonio che, fortunatamente, non aveva seguito il dotto scambio di battute.
Saverio allungò una banconota, stampandosi in faccia un’espressione indifferente.
“Non lascerò perdere.” ribadii minacciosa mentre Antonio pescava laboriosamente il resto.
Saverio mi guardò a lungo, aggrottato e bellissimo: il mio cuore si fermò di nuovo per immagazzinare quel momento nei ricordi indelebili. 
“Mocciosa, sei in pericolo” mormorò con voce cupa e accusatoria “Te lo vuoi ficcare nella zucca?”
Poi, prese il resto da Antonio e uscì silenzioso e rapido come era entrato.
Io rimasi impalata davanti al bancone, respirando gli ultimi residui del suo profumo e chiedendomi cosa avesse voluto dire con quelle ultime parole sibilline. Cercai anche di capire perché più Saverio si ostinava ad allontanarmi più io mi intestardivo a seguirlo. Lui o Tobia? La risposta era troppo imbarazzante per essere presa in considerazione.
Alzai lo sguardo e trovai Antonio che mi fissava perplesso.
“E il mio cono cioccolato fondente e frutti di bosco dov’è?” domandai con aria di rimprovero proprio mentre Filippo rientrava trafelato dalla porta a vetri, seguito da Rossella che aveva una strana espressione da sfinge stampata sul viso.
“Lena, mi dispiace ma non ho trovato la tua borsetta” mi avvisò mortificato Filippo mentre mia sorella mi fissava con sguardo indagatore “Rossella dice che però non l’hai presa dietro, quindi forse...”
Sfoggiai un sorriso a trentadue denti a esclusivo beneficio del mio spasimante.
“Accidenti, hai ragione! Mi dispiace moltissimo di averti fatto perdere tempo, Filippo.” sospirai contrita. 
“Oh, meglio così” rispose Filippo sollevato “Ti aspetto fuori, allora.”
Si avviò mentre Rossella non la smetteva di fissarmi intensamente e io prendevo il cono bigusto che non avevo assolutamente voglia di mangiare.
“Bè?” le domandai con leggerezza allungando cinque euro ad Antonio.
“C’è qualcosa di strano in te” borbottò Rossella con voce insolitamente ferma “Guarda che se mi stai nascondendo qualcosa finirò per scoprirlo, e saranno sicuramente guai.”
Come se non ne avessi già abbastanza. Le spalancai in faccia due innocenti occhioni sorpresi.
“Non so di cosa stai parlando.” tubai falsa come Giuda.
Rossella però non se l’era bevuta: mi fissò a lungo con espressione truce.
“Ti tengo d’occhio.” grugnì uscendo anche lei dalla gelateria.
“E con Saverio e nonna Rosa, ora siete in tre.” mugugnai depressa seguendola.
*    *       *
Il mattino dopo fui molto machiavellica nel suggerire a mamma e papà di portare nonna Rosa a fare la spesa a Ustecchio. Ciò mi permetteva di rendere nonna e mamma più serene dopo l’abbuffata di shopping selvaggio che le aspettava ai grandi magazzini e dava a me tempo a sufficienza per esplorare la cantina in cerca di informazioni. Così, dopo aver promesso a nonna che non mi sarei mossa di casa, mi trovai a salutare dalla porta mentre la Multipla di papà si allontanava, sorpresa di non sentire nessun senso di colpa per il mio comportamento subdolo e contorto. Appena la macchina sparì lungo la strada, mi misi un golfino, indossai due robusti guanti di gomma e aprii la porta della cantina. Non mi era mai piaciuto un granché scendere le ripide scale di legno leggermente deformate dall’umidità per essere inghiottita dal buio odoroso di muffa della cantina. Era un locale grande come la base della casa, così stipato di cianfrusaglie da essere catalogato da papà “il paese dei Balocchi per i topi”. Sapevamo che in cantina ne scorrazzavano in abbondanza, non eravamo estranei alla fastidiosa invasione di ospiti indesiderati che spesso accompagna le case di campagna. La nostra cantina, poi, era un focolaio continuo di insetti di svariate dimensioni, cosa che rendeva il locale praticamente inaccessibile per tutta la famiglia Mercati. Papà, una volta ogni tanto, suggeriva fiaccamente di chiamare un’impresa di pulizie per vuotare la cantina una volta per tutte, ma la sua proposta non raccoglieva mai l’entusiasmo del resto della famiglia: per tutti noi, era in un certo modo consolante sapere che tutto ciò che c’era di obsoleto e dimenticato poteva essere archiviato ed eventualmente recuperato, con un po’ di coraggio e tanta buona volontà. Cosa che mi accingevo a fare in quel momento: alla luce asmatica della lampadina da quaranta watt che pendeva solitaria al centro del soffitto, mi guardai intorno scoraggiata alla ricerca dei testi perduti di scuola, rendendomi conto che stare da sola in cantina non era affatto un’esperienza rilassante come pensavo. Ammassata in un angolo c’era una inquietante montagnola di bambole con diverse lesioni fisiche, qualcuna senza un braccio e altre senza testa, seguita da una pericolosa pila di sacchi di vestiti ammuffiti, un paio di case di bambola mezze demolite, una serie di biciclette arrugginite e senza ruote, sci spaiati, scatoloni misteriosi e chi più ne ha più ne metta. Individuai un paio di cassette di plastica con dentro i miei vecchi libri di scuola dietro le biciclette: faticosamente scavalcai i ferrivecchi, rabbrividendo a ogni fruscio sospetto: non avevo particolarmente paura dei topi, ma trovavo più prudente evitarli, se possibile. Mi accoccolai in bilico su una pila di casse dal contenuto ignoto e cominciai a sfogliare alcune enciclopedie di varie forme e misure in cerca del nome Paracelsus. Dopo cinque minuti, stavo già rimpiangendo con tutto il cuore Google e Wikipedia: avevo dimenticato quanto fosse noioso il lavoro di spoglio cartaceo. Fui però ricompensata da una didascalia recuperata da un libro di storia e lessi con insolita curiosità:
 
Philippus Aureolus Teophrastus Bombastus von Hohenheim, nacque in Svizzera nel 1493. Medico eccelso e alchimista di prim'ordine, dotato di una forte personalità e di un'altrettanto forte arroganza. Era talmente pieno di sé che gli inglesi inventarono il termine bombastic per definire le persone arroganti”
 
Cominciamo bene, pensai depressa: mi sembrava di leggere la descrizione di Saverio Lazzari in persona, accidenti a lui.
 
Compì gli studi all’università di Brema e fu discepolo dell’abate Tritemio che lo istruì nelle ricerche chimiche. Trasferitosi in Tirolo, studiò mineralogia e andò alla ricerca nelle viscere della terra dei rimedi contro i morbi, sia generici sia specifici, dei minatori. Svolse la sua attività di medico tra violente controversie a Basilea, dove adottò il nome latino di Paracelsus, con riferimento al medico latino Celso; fu poi medico a Colmar, Zurigo, Merano, Middelheim e in altre città dell’Europa.
 
Così, Paracelsus era una persona realmente esistita; un medico. Svizzero. Chissà perché la cosa sembrava stranamente significativa… che fosse davvero un lontano parente dei Lazzari?
 
Fu inviato al seguito di una spedizione diplomatica a Costantinopoli dove incontrò un Arabo che gli insegnò i segreti della pietra filosofale, all'epoca aveva 28 anni. Nonostante la moltitudine di libri non vi è nessuno scritto di Paracelso su questo viaggio, documentato però da Van Helmont.
 
Pietra filosofale? Chi era, il precursore di Harry Potter? Ghignai al pensiero, anche se in me continuava a perseverare l’inquietudine.
 
Invitato a Salisburgo dall’arcivescovo Ernst nel 1541, morì il 24 settembre di quello stesso anno in circostanze rimaste oscure. Cattolico praticante ma appassionato studioso di cabala e di astrologia, Paracelo considerò l’universo come risonante in ogni sua parte (macrocosmo e microcosmo: specchi reciproci), grazie all’ Archeus lo spirito di vita che plasma forme e forze ad ogni livello reale.”
 
Perché Paracelsus era morto in circostanze oscure? Ma soprattutto, che ci faceva un’ara pagana a lui intitolata nel giardino di Villa Lazzari? Le informazioni dell’enciclopedia erano scarse e incomplete: frustrata e agognando selvaggiamente a un computer, decisi di lasciar perdere, anche perché cominciavo a sentire i morsi della fame. Scoprire chi fosse Paracelsus o Paracelso non mi aveva portato un gran che in là nello scoprire i segreti di Villa Lazzari. Era un medico, e allora? Il mondo traboccava di medici morti. Certo, questo era un medico spaccone e borioso… ecco, forse quella era una possibile caratteristica ereditaria, meditai ricordando il sogghigno altezzoso di Saverio. Però non mi sembrava un’informazione così fondamentale. Ricordai la scritta sbiadita sull’ara: Fiat vitae. “Sia vita”, avevo tradotto col mio latino incerto. La vita di chi? Che questo Paracelsus avesse aspirato a essere una specie di ostetrico? Sogghignando perversamente riposi l’enciclopedia in malo modo, rovesciando una catasta di quaderni. Mentre iniziavo a raccogliere le carte sparse, borbottando irritata prendendomela con la mia inettitudine, incappai in una serie di vecchie e polverose fotografie. Erano piuttosto piccole, di cartoncino spesso e dagli orli merlettati tipici delle vecchie immagini in bianco e nero del primo dopoguerra. Con un tuffo al cuore, riconobbi una foto dove una ragazza graziosa e giovanissima sorrideva con aria timida di fianco a un ragazzo in canottiera con il cappello calato sulla fronte e l’aria sfrontata. Riconobbi nonna Rosa e nonno Pietro, nonostante il nonno non l’avessi mai conosciuto. In un’altra fotografia c’era sempre il nonno, stavolta in giacca e cravatta, in compagnia di due tizi ingessati vestiti di nero, probabilmente qualche parente in visita: dalla faccia seria del nonno, non doveva trattarsi di una visita di cortesia. Nella terza foto c’era il nonno molto più giovane, di nuovo sorridente, in compagnia di una ragazzina che, notai con un tuffo al cuore, somigliava tantissimo a mamma. E a me, a dire il vero: certe caratteristiche come le sopracciglia dritte e folte, la distanza e la forma degli occhi e il mento a punta erano tipici tratti di famiglia. Mi chiesi chi fosse quella ragazzina: sicuramente una parente, a giudicare dalla somiglianza e dalla familiarità con cui abbracciava il nonno nella foto. Il fatto di non sapere minimamente chi fosse non mi sorprendeva: nonna e mamma non amavano rivangare il passato e già per avere notizie sul nonno si doveva fare la richiesta in carta da bollo. Eppure, più guardavo quel viso in bianco e nero, più sentivo una certa inquietudine attraversarmi la schiena. Sicuramente non c’entrava niente con le mie ricerche su Villa Lazzari e Paracelsus, ma lo stesso non potei fare a meno di rimanere a lungo con quella foto in mano, cogitabonda. Non mi ero mai considerata un tipo particolarmente avventuroso, ma qualcosa dentro di me, senza nessun motivo al mondo, mi diceva che dovevo sapere di più su quella ragazza. Misi la fotografia in tasca, buttai alla rinfusa i quaderni dietro le biciclette e mi decisi a tornare al piano di sopra: dopotutto, la famiglia si aspettava che preparassi loro da mangiare e se volevo tenerli buoni il minimo che potessi fare era nutrirli.
*    *       *
Dopo pranzo, quando tutti sonnecchiavano con le pance gonfie di ottima pasta al pomodoro e basilico, mi avvicinai casualmente alla mamma, che si era spalmata su uno sdraio all’ombra dei larici e sembrava prossima alla sublimazione spontanea.
“Hei” mi apostrofò animandosi quando vide che ero intenzionata a sedermi sulla sedia accanto a lei “Quale onore! A cosa devo l’augusto favore della tua presenza?”
“Non ho bisogno di soldi, se è questo che temi” risposi arricciando il naso e fingendo molta scioltezza “Volevo solo sapere com’è andata questa mattina con nonna Rosa.”
Mamma me lo disse, con dovizia di particolari: mi sentii quasi in colpa per l’entusiasmo che dimostrava nei miei confronti… in effetti, in quel periodo avevo parecchio trascurato i rapporti madre/figlia. Troppo presa da mille bugie e sotterfugi? Chiacchierammo oziosamente per un bel po’, alternando pensieri profondi con meri pettegolezzi. Era proprio lì che io volevo approdare, ma sapevo che mamma ci sarebbe arrivata da sola.
“Allora, sai niente delle questioni sentimentali di Rossella?” buttò lì mamma fingendo indifferenza.
La guardai in tralice con una certa sufficienza.
“Sai benissimo che Ross mi scuoia viva se ti racconto qualcosa dei fatti suoi.”
Mamma fece spallucce.
“Bè, è piuttosto palese che se la intende con Marco il figlio del macellaio” continuò mamma pensierosa “Naturalmente non durerà: credo che tua sorella stia usando il poveretto per… come dirla in maniera materna? Affinare le armi, ecco. E tu invece?”
Mi aveva preso in contropiede girandosi a guardarmi in faccia direttamente: io non potei fare a meno di arrossire.
“Io cosa?” domandai guardinga.
“Voci di corridoio mi dicono che Filippo, il fratello di Marco, è cotto di te come uno stinco al forno.”
“Ma dai.” sbuffai cercando di convincere anche me, ma in realtà ero allarmata: se la notizia era già giunta alla mamma, doveva essere grave. E vera. Rabbrividii.
“Filippo non è il tuo tipo.” commentò mamma con insolito acume, notando la mia reazione.
“Effettivamente no” risposi guardinga “E’ simpatico e carino, ma…”
“… ma non è il tuo tipo.”
Mamma non smetteva di guardarmi fissa negli occhi: avevo la netta impressione che da un momento all’altro mi avrebbe fatto una di quelle domande cosmiche a cui non potevo rispondere, quindi pensai bene di tirare fuori l’asso di briscola.
“Ho trovato questa” dissi togliendo la fotografia del nonno e della ragazza dalla tasca dei jeans e porgendola a mamma “Sai mica chi sia la ragazza insieme al nonno?”
Mamma, sorpresa del brusco cambio di direzione del discorso, prese la foto che le porgevo e la scrutò a lungo, aguzzando la vista.
“Era la sorella del nonno” rispose dopo un po’ con voce vagamente afona “La mia unica zia paterna… Credo che si chiamasse Margherita. E’ morta giovane, a quindici o sedici anni. Il nonno non ne ha mai parlato molto.”
Mi restituì la foto vagamente incuriosita.
“Dove hai trovato questa foto? Non l’avevo mai vista prima.”
“Il nonno non ti ha detto com’è morta?” domandai glissando con eleganza sulla sua domanda.
“No” rispose mamma con un sospiro “Ma nonna Rosa deve saperlo: dovevano avere più o meno la stessa età e Cresta del Gallo è un paese piccolo. Perché non lo chiedi a lei?”
Io abbassai lo sguardo, cogitabonda.
“Nonna è un po’ strana ultimamente” mi decisi a dire quasi sinceramente “Non vorrei che si facesse strane idee solo perché sono un po’ curiosa.”
Mamma socchiuse gli occhi con aria saputa.
“Sbaglio o sento puzza di Villa Lazzari?” domandò con voce musicale.
Fui lì lì per arrossire di nuovo ma riuscii lo stesso a mantenere un’aria normale.
“Cosa te lo fa pensare?” chiesi prudentemente.
“Nonna non ha mai amato molto i Lazzari” rispose mamma senza guardarmi in faccia “E a quanto pare qualcuno di loro ti ronza un po’ troppo intorno per i suoi gusti.”
Io chiusi di scatto la bocca perché avevo paura di dire qualcosa di stupido.
“Personalmente credo che sia un ragazzo strano, ma non pericoloso” continuò mamma salottiera “Però a differenza dei comuni mortali sguazza nell’oro ed è così bello che potrebbe spezzarti il cuore solo con uno sguardo, quindi in fondo anch’io penso che non sia prudente frequentarlo troppo.” 
Non fu sufficiente: qualcosa di stupido mi uscì lo stesso.
“Saverio e io abbiamo solo parlato.” dissi precipitosamente.
Mamma inarcò le sopracciglia mentre un sorriso saputo le stirava le labbra.
“Saverio?” buttò lì ironica “Io stavo parlando di Tobia.”
E con questa, pensai fosse definitivamente il caso di cucirmi la bocca.
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: L_Fy