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Autore: beesp    13/07/2011    1 recensioni
(Il titolo è preso dalla canzone "Una storia sbagliata" di De Andrè che ha anche ispirato la storia).
C'è una stanza impolverata e che non sembra vissuta, c'è una ragazza a cui gli occhi dolgono sotto la luce del sole. Così inizia questa storia sbagliata, e va avanti e indietro fino a toccare il passato di tre ragazzini di cui si sa poco, se non che in comune hanno la storia di uno dei tre, Paul. Cherry sostiene, Marla si abbatte, Paul è il centro.
Buona lettura.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'You’re in the wrong place, my friend, you better leave!'
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Questa è stata una serata in ricordo del passato.
E ieri è stato il giorno del compleanno di mia madre. Voglio dedicare questa storia a lei, perché spessissimo non sono una brava figlia – anzi, quasi sempre.
Questo è tutta per te, non è un gran regalo di compleanno, ma è un pezzo di me.
Buona lettura a tutti.
(Vi chiedo un solo favore, ve ne prego: mentre leggete – se deciderete di farlo – ascoltate “Una Storia Sbagliata” di De Andrè. Grazie).












Sua madre bussa alla porta. Un tocco leggero ed educato: è un cercare di scivolare lentamente nella sua vita, senza sconvolgerla troppo.
Lei di traumi non ne ha più bisogno.
« C’è Cherry alla porta, tesoro » le comunica, gentilmente.
Marla si volta su un fianco, per tutta risposta, dandole la schiena.

La luce filtra dalla finestra.
Non ricorda d’averla lasciata aperta, sospira. Sua madre. Da due mesi la sua presenza è molto più evidente di quanto le sia mai sembrata. Sua madre esiste da due mesi.
I raggi del sole le feriscono gli occhi; lentamente, il letto scricchiola, si alza, lentamente, le lenzuola lasciate a se stesse, bianche, calde del suo peso, profumate di ammorbidente.
Sua madre c’è nel bicchiere d’acqua fresca abbandonato sulla scrivania impolverata; sua madre c’è nel profumo dei suoi cuscini. Affonda la testa sotto il guanciale e singhiozza – una sola volta – prima di tornare a dormire.

Marla tenta di respirare, ma l’aria non ne vuole sapere di lasciarsi risucchiare.
Spalanca le palpebre, il buio estivo soffocante circonda e si appropria degli oggetti.
Torna a stendersi. È notte fonda, nessun rumore nel piccolo appartamento. Si passa una mano sulla faccia. Dopo un minuto la vista si abitua, riesce a percepire l’inizio e la fine degli oggetti. Adesso esistono, la circondano. Se potesse, dormirebbe tutto il tempo per non dover guardare, per non dover rubare l’ossigeno dello stupido pianeta.

Una volta c’era un ragazzino vestito elegantemente stagliato al tramonto contro le lapidi del cimitero. I suoi capelli tagliati di fresco, illuminati dal sole rosso; il colletto della camicia inamidato. La mano dalla pelle morbida stretta attorno a quella di suo padre, alto, robusto e accigliato. Suo padre con gli occhi nascosti al mondo. Il figlio e le sue spalle basse lasciò cadere dei tulipani rossi e bianchi prima di incamminarsi verso l’uscita.
C’era un ragazzino accucciato sull’erba tosata che si alzava in piedi e sembrava urlare tutto il suo dolore in quell’unico gesto, ’anche se fa male io mi alzo’.
A Marla si stringe il petto. Lei non si alza, non saprebbe come fare.

Piove. O forse no.
« La signora del piano di sopra sta innaffiando le sue piante »: sua madre è seduta accanto al tavolo e la fissa.
Perché i suoi occhi sono puntati in direzione dei lampioni al di là del balcone e precisamente sulle gocce che cadono in un “plic plic” rumoroso sul davanzale pitturato di giallo – colore scrostato. Marla sta guardando qualcosa e sua madre cerca di spiegarle cosa sia come quand’era bambina: non capiva, ma accettava. Ora capisce – perfettamente, anche – ma non ce la fa ad accettare.
« Cherry oggi ha chiamato di nuovo ».
Marla annuisce e tira su col naso, “non è ancora tempo, mamma”.
Anche sua madre annuisce ed esce fuori, permettendole di stringersi a quel vuoto pregno di cose che Marla allontana e finge non esistano.

Un sorriso illumina i ricordi, è un sorriso scanzonato.
« Io sono felice » le annunciò una volta con il naso che gli sanguinava, zoppicante, aggrappato alle sue spalle.
« Sei un deficiente, reggiti piuttosto ».
« Marla, sono felice, tu non lo sei? ».
Marla scosse la testa e lo ignorò.

C’era una volta un ragazzo che sapeva ascoltare. Quella notte non stava ascoltando, quanto piuttosto si rifugiava dalla sua vita, steso sulle coperte infantili di Marla con disegni di gattini e cagnolini. I capelli erano impastati di fango e sudore, i pantaloni macchiati dal sudore. Aveva corso tutto il tempo, le aveva detto.
« Io non ci torno là dentro, Marla » le aveva detto.
« Non ci torni, te lo prometto. Questa notte dormi qua, va bene? ».

Marla apre gli occhi.
Il sole fa più male che mai. L’ha sognato. Paul aveva il sole nello sguardo e nella bocca.
Lei il sole non riesce più a sopportarlo. Sbatte con forza le imposte.
Sua madre, in cucina, sospira. Non c’è rumore alle tre del pomeriggio in strada. È tutto lontano e perso in una foschia grigia e lontana.

« Tua madre è riuscita a cacciarlo di casa alla fine, eh, Paul? ».
Paul trovava più motivi del solito di ridere quel giorno. « Sì, domani viene a vivere da me in centro. Sono davvero felice, adesso, Marla. Tu no? ».
Marla scosse le spalle e rise.

Bisognava vederlo per crederci. Paul e il suo sorriso. Cresciuto in un quartiere di periferia come tanti. Suo padre era un qualsiasi impiegato d’ufficio ed era pazzo. Sua madre la conosceva bene quella pazzia, e così Paul.
Conobbe Marla per caso, mentre si aggirava nei dintorni del cimitero. Aveva già sentito parlare della ragazzina ossessionata dal cimitero. Marla avrebbe ricordato quel momento per sempre come l’inizio.

Paul aveva costantemente il naso insanguinato. Non era dato sapere perché – suo padre i lividi li lasciava dov’era più difficile trovarli.
E sorrideva. Sempre.

Prima ancora di aprire gli occhi, Marla mugola.
Sa già che quando sarà sveglia completamente il petto comincerà a farle male, perché Paul non c’è né ci sarà mai più.

Quando però Marla apre gli occhi trova sua madre addormentata sulla sedia della scrivania, la testa reclinata all’indietro, e una lacrima asciutta sulla guancia.
Sua madre c’è.

Marla sa di doverlo fare da due mesi e un paio di settimane, ma trova la forza soltanto ora.
Marla indossa un abito che non sia una tuta, è rosso ed ha le maniche corte. Le scarpe da ginnastica hanno le scritte nere di Paul e Cherry esattamente dove le ricorda.
Marla si infila una giacca e saluta sua madre con un bacio, « torno presto ».

Il cimitero della città lei lo conosce meglio di chiunque altro e conosce di nome – e alcuni personalmente – quasi tutti quelli sepolti dietro il cancello nero di ferro battuto.
Ha attraversato il boschetto, ha sorpassato il laghetto e le panchine, i tronchi segnati dagli amori finiti; ha camminato sul terreno ricoperto di rami spezzati e foglie cadute.

Marla trova Paul perché è dove Cherry fissa i suoi occhi blu e incupiti – dall’espressione e dal cielo nuvoloso.
Le poggia una mano sulla spalla e sospira. « Mi spiace di averci messo tanto ».
« Due mesi non è troppo, sai? ». C’è una foto di Paul sulla pietra grigia. Sorride. « Quando muoiono quelli come Paul uno pensa sempre sia uno scherzo. Ancora qualche volta mi sveglio e mi dico che vedrò Paul. E invece mi sveglio e lui non c’è mai ».
« Sua madre come sta? ».
« Non lo sappiamo, una settimana dopo il funerale è partita per New York. I fantasmi la inseguiranno per sempre, credo, ma Paul vorrebbe che ce la facesse. Per tutti e due ».

Nella camera di Marla c’è un sapore di detersivo e di candeggina. Alle mani ha i guanti e una spugnetta insaponata. Sulla scrivania non c’è più polvere, sua madre le porge un bicchiere d’acqua ogni venti minuti. « Fa molto caldo, devi bere ». Marla acconsente in silenzio e beve, perché l’acqua è fresca.
Alle pareti le loro foto le ha tolte e sistemate in un album colorato; i vecchi peluche sono in uno scatolone di cartone; i maglioni sformati di suo padre profumano ancora di deodorante da armadi alle rose, ma riposano già in buste di plastica nell’ingresso.
« Domani le porto a quella fondazione in centro » le dice sua madre mentre le porta del succo di frutta.
A lei non interessa dove vadano, devono andare.

Cherry è seduta nello stanzino di casa di Marla assieme a lei.
Hanno tra le mani vecchie cianfrusaglie da ragazzini. C’è Paul, lo sentono in qualche modo, impregnato in quei ricordi ingialliti.
« Quell’idiota … » sorride Cherry « mi manca sempre più ogni giorno che passa ».
Marla non è una persona espansiva, ma abbraccia Cherry comunque. Perché la sua amica ne ha bisogno e forse anche un po’ lei.
« Ce la facciamo, Cherry, te lo prometto ».

Due anni dopo, tutti in città posseggono un libro di quattrocento pagine intitolato “Paul” sul comodino accanto al letto. Dalle pagine stampate in caratteri neri e ordinati non è comprensibile chi sia Paul, ma chiunque conosce la storia della scrittrice: Paul era suo figlio e “Paul” è l’opera a lui consacrata. Il Paul che sorride nel racconto giusto sorride fino all’ultima parola; non c’è nessuna stupida pallottola esplosa da un fucile di un padre folle che ha perso la forza di sopportare la vita (c’è, sì, un padre folle ma finisce in galera a cento pagine dalla fine); c’è soltanto un ragazzo e le sue due migliori amiche e sua madre nella periferia di un piccolo paese.
Cherry e Marla ne hanno trovato due copie nella casella postale una mattina di Marzo come tante altre, allegato c’era un biglietto della madre di Paul: “grazie per essere state le due migliori amiche che una madre possa mai desiderare per il proprio figlio; grazie per aver amato il suo sorriso quanto l’ho amato anch’io; grazie per aver portato le risate a mio figlio quando suo padre era ancora con noi. Grazie per aver fatto parte della vita di Paul e della mia. Questo libro è dedicato a Paul, ma è dedicato anche a voi – perché senza uno di voi tre nemmeno gli altri sarebbero mai esistiti”.
E alla storia sbagliata di cui tutti parlano da due anni sembra che finalmente sia stato trovato il giusto finale.
   
 
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