DISCLAIMER: sfortunatamente nessuno dei personaggi mi appartiene, né sono mai venuta in contatto con loro. La caratterizzazione dei personaggi e i fatti narrati sono frutto della mia immaginazione e assolutamente non reali. Non intendo offendere nessuno e non traggo alcun guadagno dalla stesura di questo racconto.
Non ho tanto da dire, a parte che è stato uno sfogo di tenerezza e che dovevo scrivere di loro il prima possibile, perché sono la cosa più canon che il Signore ci abbia regalato negli ultimi tempi. E mi stupisce aver trovato poco o nulla su di loro nel fandom italiano. Forse è un'accozzaglia di cliché, ma in fondo è un po' così che li dipingo fra me e me, sereni. E forse, al limite, un po' spaventati. (Del resto, se non lo fossero, avrebbero già fatto coming out da tempo. Tsk.)
Il POV è di Nathan.
La canzone attorno alla quale si sviluppa la fanfiction, e dalla quale provengono tutte le citazioni, è “Held in the arms of your words” dei Tired Pony (side project di Lightbody).
*
Ho gli occhi perfettamente
aperti da ormai dieci minuti; e anche se la luce che filtra nella stanza è
limitata a una linea sottilissima, che illumina appena i granelli di polvere
sospesa, riesco a distinguere i contorni dei mobili, e persino il colore della
felpa che ieri sera ho gettato alla buona sulla poltrona. È Natale e sono ormai
due mesi che apro gli occhi alla stessa ora, nella stessa stanza, e vedo le
stesse cose, salvo piccole variazioni. È Natale e sono solo. Sono ormai due mesi
che sono solo. In this light you are framed classically, * The thought that just burns into me, * This is all I want from life:
Rabbrividisco quando avverto il pavimento gelido sotto le piante dei piedi
intorpiditi. Mi passo una mano sulla faccia e mi trascino verso la cucina,
esaminando mentalmente il contenuto del frigorifero in vista della colazione; se
non fosse che, a metà del corridoio, sono costretto a fermarmi e inspirare.
Fritto, con una punta di dolce.
Mentre anche l’udito mi si riattiva e lo sfrigolare della padella fa da
inconfutabile conferma che nella mia cucina c’è qualcuno, e che quel qualcuno,
chiaramente, non sono io, ripercorro la serata di ieri sera: il pub, la birra,
il primo cocktail, il secondo cocktail, qualcosa di cui non ricordo l’esatto
tasso alcolico, poi la nebbia; in effetti, nulla esclude che il tutto si sia
concluso con un’estranea nel mio letto, e che quest’estranea, ora,
contrariamente a quanto il bon ton popolare impone in caso di rapporti sessuali
occasionali, si sia autoeletta a mia moglie per un giorno, e abbia pensato di
augurare la cosa preparandomi la colazione.
Sospiro, ormai rassegnato all’idea di dover gestire la situazione e chiederle,
cortesemente ma fermamente, di togliere il disturbo e non farsi strane idee, e
indosso il sorriso più credibile che possa riuscire a un essere umano a
quest’ora del mattino, sporgendomi dalla porta. Ma la mia espressione si tramuta
da falso buon viso a sincera sorpresa, quando mi rendo conto che il metro e
ottanta in grembiule rosa e presine che mi trovo davanti, tanto per cominciare,
non è una donna, e tanto per finire, è Gary.
«Buongiorno, dormiglione» trilla alla mia vista, sfilandosi i guanti e
stampandomi un bacio sulla fronte. «Vieni, ho fatto i pancakes!»
Crollo a sedere su una sedia senza aprire bocca, forse perché la mia facoltà di
parola non si è ancora svegliata, o forse perché la mia facoltà di parola viene
puntualmente meno di fronte alla media di sillabe al minuto dell’uomo che ho
davanti.
«Spero di non disturbare, sai com’è, non avevo nulla da fare e… ahi! Lo
sportello!… e ho pensato, toh, Nathan, quant’è che non vedo Nathan! E visto che
avevo ancora le chiavi, da quella volta, ti ricordi, quando mi avevi chiesto di
preparare la casa per i tuoi, ho pensato di fare un salto qui, così… non ti dà
fastidio, vero?»
Scuoto la testa e ingurgito la tazza di latte fumante che mi ha appena sbattuto
davanti con la grazia di muratore che lo contraddistingue.
«Oh, bene» continua, sedendosi di fronte a me e addentando un biscotto, «Perché
oggi è l’ultimo giorno per i regali di Natale e me ne mancano ancora alcuni, e
pensavo, insomma, pensavo che potresti accompagnarmi, e aiutarmi con quello di
Pablo, sai com’è difficile, lo sai, no? Non è freddissimo, potremmo prendere la
metro e…»
«Gary», taglio corto e a bocca piena, «Cos’è successo?»
Alza gli occhi, e la vedo: la scintilla di falsa serenità che si dilegua nel
momento esatto in cui realizza che io lo conosco. E anche troppo bene.
Scuote la testa e comincia a imburrare una fetta di pane tostato con ostentata
indifferenza.
Sospiro. «Penny?»
Lui mi guarda con aria confusa. Poi scuote la mano con fare sbrigativo. «Con
Penny è finita un mese fa, non è questo», continua, gli occhi bassi sul vassoio.
«Allora… Alice?»
«È stata solo una notte!»
«Kathleen?»
«Ka… chi?»
«Non importa.»
Inclina un angolo del labbro, segno inconfondibile che qualcosa lo turba.
«Martha», sussurra stancamente, «È Martha. E comunque non mi ha lasciato. L’ho…
lasciata io.»
«Ah. Quando?»
Gary non distoglie lo sguardo dalla marmellata.
«Un quarto d’ora fa.»
just a painting that hangs in my head,
that I know like the back of my hand.
Vorrei spiegare a Gary che se io e molte altre persone ci occupiamo delle
compere di Natale con largo anticipo, è proprio perché andare in giro per negozi
il ventitré dicembre è come affrontare una gabbia di leoni. Ma c’è qualcosa che
mi impedisce di turbare la sua serenità. Seguo la sua testa bruna che saltella
fra le bancarelle con un entusiasmo quasi infantile, e sarei lì lì per
mormoragli uno sta’ attento a non rompere niente, se non rischiassi di suonare
come sua madre.
Una mano nel cappotto grigio, nell’altra una tazzina di porcellana disseminata
di agrifoglio stilizzato, il vento freddo che mi pizzica le guance e il vociare
della gente intenta a far compere che copre i pensieri, almeno per un po’.
«È dipinta a mano, signore», tossicchia la signora che siede dietro la
bancarella, il prototipo di nonna arzilla, anche se leggermente nascosta da una
copia del Times e un paio di enormi occhiali.
«Grazie», sorrido, «Ma è meglio di no. Ho un bambino un po’ turbolento.»
Lei ringrazia, e io riprendo a camminare, buttando occasionalmente gli occhi sui
banconi – come se servisse a qualcosa, poi! Ho finito i miei regali da un pezzo.
Mi sto chinando per vedere da vicino un portagioie di legno intagliato, quando
individuo Gary, qualche metro più avanti, con un paio di sacchetti sottobraccio
e lo sguardo fisso, quasi incantato, su qualcosa che riesco a malapena a vedere,
nel caos del mercatino.
Mi avvicino, cercando di farmi strada tra la folla. La sua mano destra gioca con
qualcosa di turchese, poi si dilegua, alla vista di qualcos’altro. Al suo posto
si staglia un acchiappasogni, intrecciato nella forma di un fiocco di neve.
La ragazza dietro il bancone strizza l’occhio. Io sorrido, le passo dieci
sterline e me lo infilo in tasca.
of you in the ink of the night.
È incredibile il contrasto fra le quattro del pomeriggio e le sei di sera. Sarà
il freddo che è tornato a pungere, sarà che è ora di cena, sarà che ci siamo
allontanati dalle vie principali per andare a finire sui viali, ma in strada c’è
un silenzio quasi spettrale. Il vento è ancora più pungente, la nebbia permette
di vedere poco o niente; insomma, uno di quei momenti in cui pensi al camino del
salotto come al paradiso terrestre.
«Ehi, Nate», la voce di Gary mi risveglia dai pensieri, ma quando mi volto lui è
già dieci metri di distanza da me, le mani sul cancello di una villa
abbandonata.
«Che cosa diavolo stai facendo? Gary, ti prego, è tardi e ho freddo e…»
«Sbrigati!»
Rassegnato, lo seguo oltre il cancello, fra i rovi intrecciati di quel relitto
terrestre; presto non distinguo più nulla, nel buio della sera, se non i suoi
passi. Quando gli occhi si abituano all’oscurità, mi trovo nel cono d’ombra di
un salice.
Vorrei che mi spiegasse, e invece non fa che posare gli occhi, talmente fissi e
talmente vicini ai miei che sembra voglia scavarci dentro. Ecco, Gary è oceano,
è mare. È mare in tempesta, una tempesta indomabile che soffia, urla e strepita,
piena d’ispirazione, di vita, di cose da fare, di tempo da sfruttare; ma è anche
mare liscio come l’olio, pacato e fragile, una potenza silenziosa che non teme,
ma spaventa. Gary ha degli occhi che urlano, e nessuno sembra capirlo tranne me.
Infilo una mano in tasca e sollevo l’acchiappasogni, all’altezza del suo viso.
Lui lo sfiora con le mani, e un sorriso gli si apre sul viso, tanto grande e
tanto luminoso che sembra fare luce.
A un tratto credo di capire che cosa tornare a casa, al caldo, nel Natale
chiassoso del centro di Londra, non poteva darci: pace. Sono fermo, i muscoli
bloccati, di fronte al suo corpo accovacciato contro il tronco, gli occhi chiusi
e la serenità nelle labbra curve, ed è l’unica parola che riesco a tirar fuori
dalla tempesta che ho dentro.
Il fatto è che io sbaglio a chiamare le cose. Sbaglio spesso a chiamare le cose,
specie quelle che mi fanno paura. Quest’attimo, quello in cui il cuore mi vibra
così forte che sembra sia la brezza stessa a scuoterlo, in cui in pochi metri
quadri di terriccio e foglie mi sembra di aver trovato un posto nel mondo, in
cui vorrei restare bloccato per non tornare mai nel mondo fuori, si può chiamare
pace?
Scivolo contro il tronco, in sincronia con la lacrima che mi riga il viso senza
motivo.
«Gary», mormoro, e lui apre gli occhi dritti nei miei, uno sguardo in cui c’è
tutto ciò che lui ha e io no: tutto quel che può vedere, che può nominare, che
può accettare. «Gary, dimmi che cos’è. Dimmi come si chiama, questo star bene.»
Mi asciuga il viso con il dorso della mano e appoggia il mento sulla mia spalla,
le labbra che premono sul mio collo, le braccia salde attorno alla mia vita, il
petto così vicino al mio che i nostri cuori potrebbero diventare una cosa sola.
«È ciò di cui hai più bisogno al mondo», sussurra, «che, all’improvviso,
coincide con ciò che hai.»
it's the fervour and the tenderness combined.