Sorella perduta.
Questa storia, per il tema che affronta, si collega e appartiene alla raccolta “Rose appassite”, già pubblicata qui. Un’autrice, Arien, mi ha suggerito di svilupparla, così ho iniziato a pensarci ed è venuta fuori questa breve ff. Storia tristissima, ma non potevo fare a meno di scriverla. Spero che avrete voglia di darci un’ occhiata.
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L’aveva vista precipitare dai
tetti di quell’immenso palazzo, scivolare come un’ ombra sinistra davanti alle
luci scintillanti che provenivano delle finestre della reggia; la sagoma scura
di un angelo, una scia di capelli lunghi e lisci che attraversava il buio della
notte, come una piccola meteora che si dissolve a contatto con l’aria. Con lo
sguardo fisso, l’aveva seguita in quella caduta come se si fosse sentita trascinare
giù anche lei.
Non era certa che avesse urlato,
non ricordava di averlo sentito; era come se il silenzio fosse rimasto
congelato, sospeso in quel terribile istante in cui aveva levato gli occhi in
alto e l’aveva vista spiccare il salto, con le braccia aperte nel vuoto.
Nessun suono, a parte quello
duro dell’impatto di un corpo col suolo.
Era stato come se lo schianto
fosse avvenuto contro le pareti fragili del suo cuore.
Aveva iniziato ad avvertire un’ inquietante
oppressione al petto.
Era il dolore che voleva uscire
e lei tentava di ricacciarlo indietro.
Perché avrebbe dovuto piangere?
Charlotte era solo un’estranea.
Tentava di convincersi che fosse
così; non poteva fermarsi a pensare che avessero lo stesso sangue.
Non doveva pensare che fossero
sorelle.
È strano quello che si prova in
certi momenti.
Tutto avviene troppo velocemente
e sembra che l’ anima vada più in fretta e ti lasci indietro, e il sentimento
diviene più celere del pensiero.
Non ricordava chi avesse attorno
in quel momento; donne e uomini in abiti eleganti, tutti con lo sguardo
attonito.
Forse madamigella Oscar e anche
André erano lì con lei, ma non ne era sicura.
Ricordava anche troppo
distintamente l’immagine di quel corpo inerte al suolo, le vesti bagnate e
scomposte, i capelli sparsi sul volto livido; un leggero brusio di stupore
doloroso e incredulo era salito attorno a lei, e il pianto disperato e
impotente di una donna che non sarebbe stata mai niente, si era infiltrato tra
le crepe del suo spirito addolorato.
E la diga aveva ceduto.
È sempre straziante il pianto di
una madre, anche quando è indegna di questo nome.
Per un attimo pensò che avrebbe
potuto essere il suo destino e fu assalita da uno strano senso di panico che le
bloccava il corpo e il respiro, e la obbligava al silenzio.
Faceva paura pensare che una
ragazzina di undici anni avesse concepito e attuato con tale freddezza il
proprio suicidio.
Quale mostro l’ aveva spinta a
tanto?
Quale pensiero aveva potuto
atterrirla in modo così estremo?
Oppure era stato un atto di
coraggio ed estrema ribellione?
La disgustava l’ idea di braccia
e mani volgari attorno al suo corpo acerbo e innocente.
Una bambina.
Non era stata nient’ altro che
questo.
Dolce ingenuità che crede ancora
alle favole.
Fresca innocenza in boccio, che
attende di crescere al sole giocondo della giovinezza.
Speranza piena di aspettative
per il domani che si immagina più bello.
Nient’ altro che un fiore
delicato, reciso troppo presto da sguardi impietosi e mani ingorde.
La morte l’aveva resa bambina in
eterno.
La sposa promessa di un duca era
scivolata tra le braccia della notte, accompagnata dai petali bianchi di una
rosa che si sfoglia nel vento.
Le aveva parlato solo una volta
o due, e non erano state mai parole gentili.
Quasi sempre veleno era uscito
dalla sua bocca vergine di baci.
Le piccola contessina aveva
l’arroganza e la superbia di una principessa viziata e capricciosa.
Come poteva essere qualcosa per
lei, quella ragazzina vissuta troppo lontana dal suo cuore, tra tutto quello
che lei non aveva mai avuto?
Non era cresciuta con lei.
Non avevano mai giocato insieme.
Non avevano bevuto lo stesso
latte, né mangiato lo stesso pane; bianco e morbido quello dei ricchi, nero e
raffermo quello degli umili.
Solo nella disperazione avevano
potuto essere uguali.
Solo nella pena erano diventate
sorelle.
Aveva scoperto con doloroso sgomento di possedere la stessa pelle candida, la stessa carne giovane e morbida, il suo stesso sangue, linfa vitale che adesso sporcava il selciato prezioso davanti al cortile della reggia. Ora, negli occhi opachi si era spenta quella luce vitale che li accendeva d’azzurro; occhi simili ai suoi, nel colore delle iridi.
Occhi che non avrebbero più pianto, come ora piangevano i suoi per una sorella perduta, ancor prima che fosse trovata.
Occhi che non si sarebbero abbassati con pudore, né avrebbero incrociato altri sguardi in cui scoprire timide e dolci promesse d’amore.
Occhi chiusi per sempre su sogni spezzati.
Labbra che non avrebbero più sorriso, né mai avrebbero scoperto il sapore eccitante del primo bacio.
Gambe che non avrebbero più danzato sulle note della musica di un violino triste.
Mani che non si sarebbero strette attorno ad altre mani, né avrebbero conservato la dolcezza segreta di una carezza.
Undici anni bruciati nel firmamento dell’esistenza.
Troppo brevi per una vita.
Troppo pochi per una morte.
Nelle iridi azzurre di Rosalie, così simili alle sue, restavano lacrime troppo salate che bruciavano la pelle del cuore.
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Devo ringraziare Arien, perché è stata lei ha suggerirmi di
sviluppare questo brano. Mi è sembrata un’ottima idea e ho voluto provarci e
questo è il risultato: i pensieri, le reazioni e i sentimenti di Rosalie di
fronte al suicidio di Charlotte. Spero che sia piaciuto, anche se ultimamente
io sono molto insicura su ciò che scrivo.