Non
ci ho messo più di un anno per l’anima della tenca, mi preme dirlo.
Avevo
da fare. Esami, terzo anno, laurea... un po’ di roba impellente, insomma. Un
po’ di vita.
Purtroppo
c’è anche quella.
Comunque,
alla fine, ci sono riuscita. Ho fatto un po’ di fatica a rientrare nell’ottica
dei nostri amici, ma ammetto che mi erano mancati e dunque ne è valsa
totalmente la pena XD motivo per cui ora il quarto capitolo – probabilmente
dato per disperso – è qui!
Qualche
precisazione che mi preme: più avanti troverete delle frasi scritte in
spagnolo. Sappiate che per me lo spagnolo ha la stessa valenza dell’ostrogoto,
ovvero non ne so una mezza parola. Le perle di saggezza di questo capitolo
provengono da un traduttore automatico, e spero che non siano delle grandi
castronerie e basta!
E
sì, ho anche che le frasi escalamative andrebbero fra doppi punti esclamativi
ma no, ok? Mi pesava il sedere cercare su Word come si facesse, e il programma
non collaborava.
Beh...
in tutto ciò, direi che posso augurarvi una buona lettura <3
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Capitolo
4
Every time, just for time;
I will travel into a world I barely know nothing about.
(Cherryblossom;
Dive to World)
Lui,
personalmente, non aveva proprio niente contro Dan Lance.
Anzi,
fino ad un certo punto lo stimava anche. Scriveva in modo a dir poco divino, e
a guardarlo in faccia – con quell’espressione sempre imbronciata con cui gli si
presentava davanti praticamente ogni volta che aveva il dispiacere di
incontrarlo – non avresti mai detto che avesse così tanta fantasia da creare
cose come “Unseen”, la fanfic a capitoli che al momento più spopolava in Rete.
Però
c’erano dei momenti, fin troppi in realtà, in cui avrebbe volentieri stampato
la suola seghettata delle sue scarpe a tennis su quel suo sogghigno scazzato.
E
uno di quei momenti era quando il cellulare suonava alla mezzanotte meno un
quarto. Ovvero quando si stava preparando per andare a dormire, dato che di
mattina la sveglia suonava sempre alla stessa ora: ogni giorno fin troppo
presto.
Fu
un sms, in realtà, quindi il cellulare non squillò propriamente. Ma quando lo
agguantò, borbottando qualcosa di indefinibile a mezza voce, e lesse il nome
“Sakurai” sullo schermo, fu ampiamente tentato di ignorarlo con tutto se stesso
e concentrarsi sulle successive sette ore di sonno che lo attendevano.
Tuttavia,
e fece questo ragionamento fissando accigliato il telefonino, aveva seriamente
timore di cosa sarebbe riuscito a fare Dan Lance se non gli avesse risposto.
Aveva l’aria di uno che poteva decidere il lancio di un missile nucleare solo alzando
la cornetta e contattando un qualche suo amico di Internet. Tipo una spia
professionista.
Quando
l’immagine di Lance in tenuta Man in
Black gli fece capire di essere ormai arrivato al capolinea della propria
sanità mentale, sospirò rassegnato.
A
dire il vero l’sms non diceva molto. Anzi, si limitava all’essenziale.
“Ci
vediamo fra mezz’ora a casa mia”.
Andrew
osservò lo schermo con un misto fra l’incredulità, il pensiero che fosse uno
scherzo di cattivo gusto e la sensazione di galleggiamento che potrebbe dare un
allucinogeno. L’espressione da beota esprimeva tutto ciò senza avere bisogno di
una descrizione apposita.
Senza
dire niente, senza nemmeno respirare, spostò lo sguardo su se stesso e sui
pantaloncini da basket stropicciati che si sforzava di usare come pigiama.
Non
aveva la minima intenzione di alzarsi, prendere la macchina e perdere ore di
sonno solo perché il mocciosetto aveva le turbe adolescenziali. Glielo disse.
La
risposta lo convinse a scendere dal letto.
La
famiglia Lance non abitava esattamente nelle vicinanze, ed Andrew impiegò più
di quaranta minuti per arrivare nella zona esclusiva in cui Dan viveva.
Casa
sua era fuori Cleveland, verso il lago Eire. E quando ci arrivò di fronte,
sovrastato dal cancello in ferro battuto con ghirigori e araldi vari, si chiese
se in realtà non fosse il figlio di una qualche star del cinema o di un premio
Nobel.
Ciò
che si era trovato davanti non era nemmeno lontanamente definibile con il
termine “casa”. A malapena lo era la parola “villa”, piuttosto.
Oltre
il cancello si snodava un vialetto ghiaiato circondato da un giardino ben
curato, con alberi di cipresso lungo i bordi e altri – di cui non riconosceva
il genere a causa del buio – più discostati verso l’interno del giardino.
Alcuni lampioncini erano l’unica illuminazione consentita ai suoi occhi per
poter riconoscere qualcosa, uniti alla luce dell’entrata che illuminava di
giallo un portone in legno rossiccio con batacchio dorato e spioncino. La
“casetta” – un cazzo, questa è una reggia! Pensò - aveva di sicuro due piani e
Dio solo sapeva quante stanze. Davanti all’ingresso, un portico con colonne
doriche copriva tre miseri scalini e le statue di due doberman seduti
diligentemente ai lati della porta.
E
per fortuna che erano solo statue.
« Andrew Collins, ma
chi te lo ha fatto fare... » borbottò a se stesso con un sospiro, afferrando
malamente il cellulare dal sedile di fianco. Appena lo schermo si illuminò, il
constatare che mancassero dieci minuti all’una gli fece passare di mente l’idea
di attaccarsi con il dito al campanello finché i Lance non avessero chiamato la
polizia. Solo per pura vendetta, ovviamente.
Non
era così bastardo.
Cercò
velocemente in rubrica il nome di Sakurai e, una volta selezionato, fece partire
la chiamata.
Bastarono
due squilli. « Ohi » rispose la voce di Dan: « ti sei perso? ».
« Non sono una
schiappa al volante » rispose lui, per
uno qualche strano motivo sempre più seccato: « sono davanti al cancello » aggiunse.
Ci
fu un attimo di silenzio. « Qual’é il tuo scopo nello stare impalato
davanti al cancello? » domandò l’altro, genuinamente
sorpreso.
Il
sopracciglio sinistro di Andrew scattò in alto per conto proprio. « È chiuso, tipo » picchettò acido,
usando quel tono irritante di quando si domanda una cosa ovvia.
Ma
insomma, era o non era casa sua? Doveva dirgli lui che quel maledetto cancello era dannatamente chiuso?! Cos’è, la
finestra di camera sua era troppo lontana dalle strade dei comuni mortali e non
aveva un binocolo a portata di mano?!
Fece
leva su se stesso e sulla sua calma interiore, richiamando con ogni stilla di
presenza psichica la pace del suo stato zen. Calma Andrew, calma.
Lo
sentì borbottare qualcosa che non capì, unito a rumori non ben definiti di cose
che venivano spostate. « Vengo subito » disse poi,
riattaccando.
Non
gli ci volle molto, e nell’attesa posteggiò e spense il motore della macchina.
Solo quando lo vide camminare lungo il vialetto ghiaiato scese dall’auto,
chiuse tutto e si mise le chiavi nella tasca frontale della felpa, che aveva
indossato sopra i primi jeans che aveva trovato a disposizione.
La
visione di Dan in versione notturna gli fece quasi temere di avere sbagliato
indirizzo.
Ciabattando
rumorosamente sui sassi, si avvicinava al cancello con il passo tipico di un
elefante di due tonnellate scorrazzante nella vastità della savana africana;
aveva i capelli racchiusi in una coda un po’ più alta del normale, ma che non
tratteneva una miriade di ciocche più corte che erano frettolosamente tenute
lontane dalla faccia con l’uso di un laccetto ferma-capelli. Indossava un paio
di pantaloni scoloriti palesemente troppo lunghi per lui, derivanti sicuramente
da un pigiama, e per camminare era costretto a tenerli sollevati con le mani,
il che lo faceva sembrare un lottatore di sumo con novanta chili in meno. Sopra
quest’esempio di pigiama rupestre, faceva sfoggio di una maglietta nera a mezze
maniche con la scritta rossa “nerv” e quella che sembrava metà di una foglia d’acero(1).
Ok
che nemmeno lui era vestito di tutto punto, ma vederlo in pigiama non era una
delle priorità della sua vita. Possibile che nessuno gli avesse insegnato un
po’ di buon senso? Del tipo “se hai ospiti a casa almeno vestiti in maniera un
po’ decente”? Certo, non c’era scritto da nessuna parte che non potesse
aprirgli la porta con solo stivali e cappello alla texana, ma si capiva al volo
che non era il caso, no?
Cancellò
rapidamente l’immagine dalla sua testa prima ancora che il suo cervello avesse
il tempo di elaborare il pensiero e visualizzarne il risultato.
« Ti pare questa
l’ora? » chiese invece con
tono scazzato, mani in tasca, entrando lentamente quando Dan gli aprì.
« Cos’è, vai a letto
con le galline, tu? » rispose però
quello, che a quanto pareva era ancora più seccato di lui per un motivo che non
gli era dato sapere (e non gli interessava nemmeno, in effetti). « Oppure sei cultore
delle otto ore di sonno? » continuò
imperterrito, lanciando battutine dal retrogusto acido: « dovrei presentarti mio
nonno, anche lui va a dormire verso le sette... » lasciò cadere, richiudendo con cura
il cancello e riprendendo fra le mani il lembo di pantalone per tenere l’orlo
sollevato da terra. Se li mollava, Andrew era matematicamente sicuro che se li
sarebbe pestati con il tallone già dal secondo passo.
Per
una qualche sorta di resistenza intrinseca, non rispose alle provocazioni.
Probabilmente era il sonno, ma aveva la sensazione che se si fosse messo a
discutere con il moccioso sarebbe finito per non tornare a casa prima
dell’alba. Era meglio non stuzzicarlo oltre.
In
silenzio, percorsero il vialetto al contrario fino ad arrivare all’ingresso...
che però scartarono, andando verso destra. Costeggiarono il muro della casa
fino ad arrivare sul retro, dove una porta scorrevole in vetro dava su quella
che era la più grande terrazza mai vista. Nemmeno gli hotel belvedere piantati
a monculo sulle Dolomiti avevano terrazze così grandi.
« Cos’è, ci giocate a
calcetto qui dentro? » commentò
ironicamente, cercando di cogliere qualsiasi particolare riuscisse a scorgere
alla fioca luce presente. Dan si limitò a lanciargli un’occhiataccia, ma non
replicò.
Andrew
continuò a seguire il moro lungo la stanza, passando per la cucina, un
corridoio e l’ingresso vero e proprio, in cui svettavano due colonne in marmo e
una rampa di scale che pareva progettata dallo staff che si occupava dei
castelli della Walt Disney. La salirono, dirigendosi questa volta a sinistra ed
entrando nella prima porta a destra.
Per
qualche istante, credé fermamente di essere precipitato in una sorta di
dimensione parallela. La stanza di Dan, se possibile, era ancora più allibente
di tutta la casa in sé: a parte un letto ad una piazza e mezzo abbandonato
contro il muro e sovrastato da una libreria a parete che dire stra-colma non
significava rendere nemmeno metà dell’idea, il resto della camera era permeato
da oggetti di un livello tecnologico al di là della semplice “nuova uscita”.
Sembrava seriamente che andasse a cena con Bill Gates una volta alla settimana,
o che fosse creditore di qualche genere di favore a Steve Jobs(2).
Un
televisore a cristalli liquidi era ben riposto sul proprio supporto, girato in
direzione del letto, e ad esso erano collegate minimo tre console per
videogame. Era sicuro di vederci una XBox e una Playstation 3, ma non era
propriamente convinto di cosa fosse la terza. Sulla scrivania c’era uno schermo
ultrapiatto di un computer fisso aperto sulla pagina di eMule e, subito al suo
fianco, un altro monitor appartenente ad un secondo computer che mostrava una
barra di scorrimento e uno sfondo blu pieno di codici.
Poco
distante – dato che la scrivania sembrava essere utilizzata semplicemente come
poggia-monitor – su di un tavolinetto basso un computer portatile era aperto e
in uso, collegato alla corrente elettrica e alla linea internet tramite un
fascio di cavi bene ordinati che si perdevano nel mezzo di un altro insieme di
fili elettrici di ogni sorta. A terra, davanti allo schermo, un paio di cuscini
che dovevano – a quanto sembrava – servire da sedie.
« Sai Lance, la gente
normale concepisce l’uso della scrivania come una delle più belle invenzioni
del genere umano » ironizzò Andrew,
seguendolo con lo sguardo mentre si accomodava su uno dei cuscini e prendeva
posizione davanti al pc.
« Il genere umano non
è degno di considerazione » tagliò corto Dan,
ticchettando qualcosa sulla tastiera del computer ad una velocità che per
Andrew era allucinante. Con due click del mouse, poi, chiuse quella che
sembrava tanto essere una pagina di Word.
Il
prossimo capitolo di “Unseen”? Mh... avrebbe dovuto pensare a come corromperlo
per farglielo leggere in anteprima, decisamente.
« Hai portato quello che ti ho chiesto? » domandò
successivamente Dan, tendendo la mano con impazienza.
Andrew,
capendo che aria tirava, si limitò ad annuire con un sospiro e ad estrarre
dallo zaino il suo notebook, che passò poi a Lance. « Non incasinarmelo » aggiunse come
monito, anche se forse era totalmente inutile: in quella stanza, l’unico
ignorante in fatto di computer era lui.
Sakurai
lo aprì velocemente, accendendolo per cominciarne il caricamento delle
impostazioni. Una volta che il desktop comparve (« lo stemma della squadra di calcio?
Accidenti Collins, che originalità... »), cominciò ad armeggiare con il Pannello
di Controllo e guardare diverse cose che Andrew non sapeva nemmeno esistessero,
quindi figuriamoci se possedeva l’abilità di ripeterne i nomi.
Passò
qualche minuto in quello stato di osservatore passivo, ascoltando solamente il
rumore ipnotico delle dita di Dan sulla tastiera del suo computer. Ogni tanto
veniva intramezzato anche da alcuni click del mouse, ma notò stranamente che
Dan sapeva usare benissimo anche i controlli a tastiera.
Per
diventare così bravo, a lui ci sarebbero voluti anni. Oppure due mesi intensivi
chiuso in camera a studiare ogni meandro del sistema operativo in uso, finché
non avrebbe saputo recitare a memoria il percorso da effettuare per trovare una
qualsivoglia componente.
Roba
che non aveva assolutamente intenzione di fare dato che, differentemente dal
NERD che in quel momento si divertiva a trafficare con il suo hard disk, lui
una vita sociale la possedeva.
« Di grazia, cosa
stai facendo? » domandò dopo un po’
Andrew, decidendo per il bene del suo già citato stato zen di andare ad
accomodarsi sul secondo cuscino sistemato accanto a quello occupato da Dan.
Dal
canto suo, il moro gli rispose senza nemmeno spostare lo sguardo dal monitor. « Ti sto potenziando
la capacità di elaborazione del sistema per fargli supportare la realtà
virtuale » rispose distrattamente.
Collins
era fermamente convinto che se Dan gli avesse risposto una cosa come “boh,
spingo tasti a caso per far vedere che sono figo e perché mi piace il suono che
fanno i tasti del pc” avrebbe capito esattamente la stessa cosa, cioè niente.
« Che? » si espresse
infatti, osservandolo accigliato.
Sakurai
gli rivolse uno sguardo in tralice da sopra la spalla sinistra. Probabilmente
si arrese all’evidenza che non si sarebbe spiegato nemmeno facendogli un
disegno, quindi lasciò perdere direttamente e tornò al suo lavoro.
Collins,
dal canto suo, non ci tenne particolarmente a riprendere il discorso per farsi
dare una risposta esaustiva. Si limitò a distendersi sul gomiti, adocchiando
nel mentre l’orologio a lato dello schermo: l’una e trenta del mattino... addio
lezione di analisi fattoriale, se la sarebbe dormita tutta quant’era vero che
l’insalata della mensa era l’unica cosa commestibile al campus. Ed era molto vero.
Per
passare il tempo si guardò intorno, e gli occhi caddero immediatamente sulla
quantità disumana di libri con cui la libreria era stipata.
Sua
madre era una che leggeva molto, soprattutto grazie al mestiere che faceva, ma
non arrivava ad averne così tanti. C’erano classici dell’ottocento come La Signora delle Camelie di Dumas e
tutta la serie di Arthur Conan Doyle. Figuravano titoli come il Frankestein di Mary Shelley e il Dracula di Bram Stoker, romanzi più
moderni come Harry Potter – tutti e
sette i libri, e vedeva anche le Fiabe di
Beda il Bardo – e... porca vacca, era Twilight
quello?!
« Hai letto Twilight?! » domandò infatti,
con un tono a metà fra lo sorpreso e il lievemente schifato.
« Tutti e quattro » rispose
semplicemente quello, probabilmente con metà del cervello dato che l’altra metà
era impegnata in contumacia a potenziare roba sul suo computer.
Arricciando
il naso alla scoperta, continuò la visita visiva della libreria.
Asimov
occupava quasi un intero scaffale. Quello sotto, invece, era colmo di libri sui
linguaggi di programmazione, alcuni dai nomi talmente strani che cominciava
seriamente a temere che fossero testi universitari.
Anzi,
in realtà cominciava ad avere una certa fifa del corso di informatica che
avrebbe dovuto affrontare il prossimo semestre.
Almeno
aveva scoperto che l’altro non aveva fatto tutto da solo passando giorni interi
al computer. Qualcosa aveva anche studiato, per riuscire a fare tutto ciò che
stava mettendo in pratica sul suo computer in quell’istante.
Si
lasciò sfuggire, chissà come, un lieve sorriso. « Leggi molto, vedo. Anche libri di informatica
» disse così, senza
particolari inflessioni di voce o volontà canzonatoria.
Tuttavia,
le velocissime dita di Dan si fermarono. E ci mise un poco, per rispondergli: « già... è un buon
passatempo per quelli come me che non amano la vita all’aria aperta » disse vagamente,
ricominciando a ticchettare subito dopo.
Collins
fece finta di niente, ma lo osservò di sottecchi. Doveva aver colpito un tasto
dolente, o nervo scoperto che dir si voglia. Però resistette alla voglia di
infilare più a fondo il dito nella piaga, preferendo glissare sull’argomento e
passare in silenzio i cinque minuti successivi.
Tempo
che fu sufficiente a Dan per terminare qualsiasi cosa stesse facendo e
dedicargli, quindi, di nuovo la sua attenzione.
« Adesso hai un
computer decente, Collins. Beh, desktop a parte » ironizzò con calma, allungandosi sul
tavolino fino ad arrivare dall’altra parte, in cerca di chissà cosa in mezzo ai
vari gadget avvenieristico-tecnologici che sembravano infestare la stanza come
funghi.
Andrew
evitò di rispondere alla lieve presa per i fondelli solo per una questione di
gentilezza verso se stesso. Voleva evitarsi un mal di stomaco a quell’ora di
notte, e soprattutto non aveva intenzione di svegliare i genitori di Dan che
sicuramente, contrariamente a quest’ultimo, stavano dormendo.
Sempre
che avessero la possibilità di sentirli discutere, in quella casa immensa.
Attese
dunque che Dan tornasse in posizione sul cuscino, prendendo fra le mani ciò che
gli passò subito dopo.
Si
ritrovò a sorreggere una sottospecie di occhiali grossissimi, grigi e pesanti,
collegati con un filo abbastanza resistente a quella se sembrava una presa USB.
Alla stessa presa erano uniti anche i due guanti rossi in coordinato con gli
occhiali e sui quali, dito per dito, si potevano vedere una miriade di fili
sottili come capelli e dalle guarnizioni di diversi colori. Insieme ai guanti e
al visore, aveva anche un paio di cuffie bianche e impersonali munite di
microfono. Proprio come quelle che usavano le centraliniste, pensò.
« Che roba è? » domandò dunque il
castano, osservando il tutto con il suo migliore sguardo accigliato.
Dan,
che nel frattempo aveva indossato un set simile e si stava sistemando il guanto
destro sulla relativa mano, gli rispose quasi frettolosamente: « Indossali ed
accendili, lo capirai fra poco » facendo bene aderire le cuffie alle orecchie. Le sue,
però, erano di un colore nero metallizzato e sopra avevano disegnato un fiore
di ciliegio stilizzato. Un po’ femminili, notò, ma doveva ammettere che non
erano per niente brutte.
E
poi, considerato il nome che si portava addosso come una seconda pelle, erano
propriamente adatte al personaggio.
Fece
di nuovo opera di convincimento a se stesso. Seguendo le direttive dell’altro
indossò le cuffie, mise i guanti e si calò sugli occhi quegli occhiali
scomodissimi.
Non
vide niente.
« Dovrebbe succedere
qualcosa? » domandò quindi,
utilizzando appositamente un tono seccato.
« Porta pazienza » lo riprese Sakurai,
inserendo all’interno dello slot apposito un CD – riusciva a capirlo dal rumore
meccanico che faceva lo slot aprendosi e chiudendosi.
Andrew
sentì il disco cominciare a girare all’interno del computer, poi qualche doppio
click del mouse e, finalmente, cominciò a vedere qualcosa.
E
fu una scritta. Solo che non era una scritta normale, come quando si fa partire
un gioco per computer e compaiono i titoli di testa con il logo della casa
produttrice. Questa sembrava in 3D, anzi, sembrava reale come un cartellone
pubblicitario vero e proprio.
Rimase
a guardarlo a bocca aperta. Dunque era quella la realtà virtuale? Quella roba
che aveva addosso, dunque...
« Segui le istruzioni
ora, non dovrebbe essere troppo difficile » sentì dire da Dan, la voce leggermente
attutita a causa delle cuffie. Senza nemmeno parlare, annuì semplicemente con
il capo.
Ci
vollero ancora alcuni secondi, poi una voce metallica – probabilmente facente
parte del gioco stesso – risuonò nella sua testa come se chi la utilizzava gli
stesse sussurrando nelle orecchie. Intuì subito che era per effetto delle cuffie
che portava.
« Benvenuto. È la prima volta che vieni qui? »
Davanti
a lui apparvero due caselle di testo galleggianti a mezz’aria, lievemente
trasparenti, con le scritte “sì” e “no”. Rimanevano lì come se lui dovesse fare
qualcosa per selezionarle.
« Come...? » domandò a voce,
indeciso e in minima parte timoroso di fare un casino colossale. La voce di
Sakurai, questa volta, gli arrivò direttamente nelle cuffie e non più dalla
stanza in cui in realtà erano seduti e che lui non vedeva nemmeno per sbaglio.
La sua vista era completamente impegnata in quel mondo virtuale con quei due
quadratini che si aspettavano da lui una risposta.
«
Sul
guanto destro, nell’indice e nel medio hai dei tasti » spiegò Dan « usando il pollice clicca
quello dell’indice » terminò brevemente.
Andrew
seguì alla lettera le istruzioni, e fu come se avesse selezionato il “sì” della
schermata, che scomparve subito dopo accompagnato da un suono cristallino
tipico dei giochi in genere.
Al
loro posto, apparve una barra di caricamento.
« Se provi a
toccarteli, scoprirai che hai dei tasti anche su indice e medio della mano
sinistra » ricominciò Dan,
approfittando del momento di caricamento: « sono i tasti da utilizzare quando non si
ha ancora il controllo del gioco tramite i semplici movimenti del corpo, e
quelli che ti permetteranno di selezionare le varie opzioni. Per il momento usa
solo quelli sulla destra, la sinistra ti servirà dopo » concluse.
Collins
annuì piano con il capo, attendendo la fine del caricamento in un silenzio
concentrato. Non sapeva cosa aspettarsi, ma nonostante la sua completa
incompatibilità con i giochi per computer persino lui riusciva a capire che
quella si prospettava essere una grandissima figata.
Una
volta che la barra di caricamento fu completamente colorata, davanti a lui
apparve una lista di opzioni recanti indicazioni di diverse parti del corpo.
Roba come “fisico”, “capelli” e persino “viso” gli si mostrava davanti e
rimaneva lì sospesa, esattamente come la scelta precedente.
« Prego, scegliere le caratteristiche del proprio avatar
» disse la voce metallica, rimbombandogli
gentilmente nelle orecchie.
Questa
volta, però, non dovette chiedere nulla a Dan. Cercò di fare da solo, toccando
man mano con il pollice i tasti sul polpastrello del guanto destro. Come se
stesse muovendo un cursore invisibile, le voci che venivano selezionate si
ingrandivano di un poco e cambiavano colore.
« Costruisci il tuo
avatar il più possibile simile a te. Ti sarà d’aiuto per capire come muoverti » gli disse il moro,
probabilmente osservando a sua volta ciò che stava facendo, anche se Andrew non
riusciva a capire come o da dove, dato che non lo vedeva.
Tuttavia,
come un bambino che viene messo per la prima volta davanti ad un pallone da
calcio, cominciò gradualmente ad aprire ogni voce, scegliendo man mano le
caratteristiche che pensava si avvicinassero ad una rappresentazione di se
stesso da imprimere nel suo avatar.
Capelli
castani a taglio scalato, occhi un po’ allungati, labbra sottili. Lo vestì con
ciò che indossava in quel momento, ovvero un paio di jeans ed una felpa grigia
con cappuccio, mettendogli ai piedi delle scarpe a tennis. Come nome,
ovviamente, mise “Adrew”.
Una
volta che ebbe terminato, diede l’ok e aspettò di nuovo il caricamento.
« Da questo momento, il comando vocale e il comando di
movimento sono abilitati ai giocatori. Andrew e Dan, buon divertimento e
benvenuti in DreamLand » annunciò di nuovo
la voce del videogioco poco prima che tutto ciò che stava vedendo cambiasse
rapidamente: la schermata nera scomparve, lasciando spazio ad un’altra
completamente candida; il bianco puro di quello che doveva essere il cielo, o
al massimo il soffito, si estendeva quasi all’infinito, fondendosi
all’orizzonte con quello che sembrava un pavimento fatto di acqua dagli stessi
riflessi di uno specchio.
Ipnotizzato,
abbassò la testa... e vide se stesso. O meglio, vide le sue braccia e le sue
gambe senza guanti di nessun genere e, specchiandosi nella superficie sotto ai
suoi piedi, poté notare di avere l’aspetto che aveva scelto come avatar.
E
sembrava maledettamente reale.
« Cosa diavolo...? »
« È la magia della
realtà virtuale » disse una voce – quella
di Dan, ormai la riconosceva anche senza collegare ad esse l’immagine del
ragazzo – proveniente da poco più avanti. Alzando gli occhi, infatti, poté
vederlo.
Capelli
neri e lunghi raccolti nella solita coda, jeans, Converse ed una maglia nera
semplice a maniche lunghe. Avanzava camminando sull’acqua come se nulla fosse,
le mani nelle tasche, lo sguardo d’ambra fusa puntato dritto su di lui. O
meglio... su quell’immagine virtuale di lui.
Quando
si fermò, rimase in silenzio come se si aspettasse che Andrew avrebbe fatto una
domanda. Cosa che, effettivamente, accadde.
« Cos’è questo posto?
» domandò, osservando
i dintorni tutti uguali.
« DreamLand » disse Sakurai,
alzando entrambe le braccia ed indicando il bianco infinito che li circondava: « è un programma
creato per far prendere confidenza con la realtà virtuale, ovvero con il set
che ti ho fatto indossare. Per spiegarti i comandi, in poche parole » disse, riponendo le
mani in tasca e cominciando a camminare descrivendo un cerchio intorno a lui. « Ciò che ti ho dato
è un po’ il set base di un utilizzatore di realtà virtuale. Il visore per poter
vedere “in prima persona” ciò che ti accade intorno, i guanti per poter
riprodurre i movimenti all’interno del mondo virtuale, le cuffie per sentire e,
ovviamente, il microfono per impartire gli ordini vocali al programma ».
Il
castano ascoltava, concentrato ed attento. Non si sentiva seduto su un cuscino
nella camera di Lance, in quel momento ogni fibra del suo corpo si sentiva in
piedi in un mondo completamente illusorio fatto di bianco ed acqua su cui
poteva stare in piedi, e su cui l’altro stava camminando senza problema alcuno.
Non
disse nulla, continuando diligentemente ad ascoltare le parole di Sakurai.
Interessato, per lo più.
Insomma,
quante volte poteva capitarti una cosa del genere, anche se non si era patiti
per i videogiochi? Raramente. Forse mai. Tanto valeva approfittarne.
Notando
il silenzio assorto dell’altro, Dan continuò con la spiegazione. « In questo momento,
sia il comando di movimento che quello vocale sono in funzione. Ciò vuol dire
che il programma leggerà attraverso i sensori posti suoi guanti » e alzò entrambe le
mani davanti al volto per farsi capire « ogni movimento che tu compirai con le
mani. Prova a muoverle » gli disse poi.
Indeciso,
Andrew le sollevò. Il movimento era del tutto naturale e sarebbe stato strano
se solamente l’azione che lui sentiva effettivamente di compiere con le mani, e
il movimento che il programma gli mostrava delle sue mani “virtuali”, non fosse
stato in sincrono... cosa che invece era in un modo perfetto. Tanto che, ad un principiante come lui ma anche a
qualsiasi esperto, sembrava di muovere le mani nella realtà vera, e non in un
programma virtuale di allenamento ai comandi.
Insomma,
sembrava di essere stati fisicamente catapultati all’interno di quello spazio
bianco ed immenso.
« Cazzo, sembra
vero... » sussurrò divertito,
osservando le sue dita muoversi come su di una tastiera di pianoforte.
« In un certo senso,
lo è » disse Sakurai,
attirando di nuovo la sua attenzione « tu stai effettivamente muovendo le mani,
in camera mia » disse, facendo poi
una piccola pausa. « Ti faccio una
domanda... » riprese poi: « secondo te puoi
sentire dolore, qui dentro? » domandò.
L’altro
si prese qualche istante, per rispondere.
« Credo di no.
Dopotutto non è reale, no? » rispose dunque, sincero.
Insomma,
anche se gli tirava un pugno sul naso, non essendo reale non avrebbe sentito
proprio niente. A meno che Dan non avesse addosso lo stesso set dall’altra
parte – Dio, come gli faceva senso dire “dall’altra parte” per indicare
l’ambiente della camera di Dan rispetto a DreamLand! – e, non vedendo dove
sferrava il pugno, non lo avesse colpito per sbaglio, non vedeva proprio come
avrebbe potuto provare dolore per qualcosa che non lo avrebbe nemmeno sfiorato.
Dunque
no, di sicuro. No.
Ma
quando vide il sorrisetto di Dan, un lieve dubbio gli venne.
« Armi! » disse il moro ad
alta voce, alzando la mano come per afferrare qualcosa: « pugnale! » aggiunse
successivamente.
Come
per magia, nella sua mano si materializzò un pugnale. Peggio: un pugnale da
lancio.
Andrew
non ebbe nemmeno il tempo di collegare quello che stava succedendo: prima
ancora che l’idea potesse sfiorargli il cervello, Dan lanciò in sua direzione
il pugnale, colpendolo alla gamba destra senza che lui avesse avuto la
possibilità di spostarsi o schivarlo.
E
fece un male immondo.
Lanciò
un urlo, portandosi istintivamente le mani alla gamba in cui era conficcata la
lama. Vedeva i suoi jeans macchiarsi di sangue sempre più, e un certo panico lo
pervase quando si rese conto che il dolore diveniva man mano più intenso.
« Pezzo di merda! » gridò in direzione
del moro, che lo guardava con un sorrisetto tranquillo stampato in faccia: « maledetto pezzo di
merda, cosa ti salta in mente?! » urlò, quasi isterico.
Dan
rise. Andrew decise sul momento che lo avrebbe fatto a pezzi talmente piccoli
che sua madre, per riconoscerlo, avrebbe dovuto ricomporre il puzzle.
« Datti una calmata,
Collins » disse Dan fra una
risatina e l’altra: « se ti concentrerai,
anche se so che per te è difficile, ti accorgerai che in realtà non ti sta
facendo male » disse solamente,
tornando in posa di attesa.
Non
arrivò immediatamente a capire cosa intendesse l’altro con quelle parole. Prima
di tutto, perché aveva il manico nero di un coltello da lancio che gli usciva
da una coscia manco ci fosse arrivato da solo e, in secondo luogo, trovava
effettivamente difficile concentrarsi quando la suddetta arma sembrava così realmente tutt’uno con la sua gamba.
Tuttavia
tentar non nuoce e dunque forza, signor Collins. Diamo ascolto al sadico pazzo
che si spaccia per liceale.
Inspirò,
poi espirò lentamente. Ripeté il meccanismo un paio di volte poi, quando si
sentì un po’ più in pace con il suo ego – al momento sul piede di guerra e
affamato di sangue – riaprì gli occhi.
Effettivamente,
se si concentrava, la ferita non faceva male. Inquietava molto ma, come aveva
pensato, non essendo reale non poteva
fare male.
Dovette
ammettere la sua inferiorità. « Hai ragione » disse.
« Prima lezione » gli rispose quello,
alzando l’indice della destra: « doppia, anzi. Primo, ti ho appena fornito un esempio
di comando vocale. Siccome i tasti che hai sui polpastrelli delle dita dei
guanti ti serviranno per muovere le gambe, cose come le varie opzioni, le armi,
gli oggetti conquistati ecc. possono venire “evocati” tramite la voce,
esattamente come ho fatto io con il coltello » una piccola pausa. « Secondo » e alzò anche il
medio della stessa mano « all’interno della
realtà virtuale, se vieni colpito provi dolore. Non è un dolore reale, ma il
dolore in sé e per sé sta tutto nella mente: essendo la tua concentrazione
completamente impegnata sul gioco, il tuo cervello assume comportamenti che
fanno parte della sua abitudine e ne scatena le relative reazioni. Quindi se
vieni colpito fa male, anche se non è reale e tu non sei stato ferito davvero » concluse,
riprendendo lentamente e girargli intorno.
Andrew
annuì e continuò ad osservarlo. Aveva capito il senso, ma davvero Dan pensava
che non si sarebbe vendicato di quel souvenir che gli spuntava dalla gamba? E
poi, suvvia, non c’era occasione migliore per testare un po’ la logica di tutto
quello.
« Armi! » pronunciò a sua
volta, alzando la mano in un punto qualsiasi dello spazio affianco a sé: « coltello! » scandì, attendendo.
Ci
volle meno di un battito di ciglia. Sentì la consistenza nella sua mano di un
manico in plastica, così come notò con la coda dell’occhio il luccichio della
lama; senza attendere oltre, quindi, lo lanciò in direzione di Dan, che a
giudicare dall’espressione lievemente accigliata era stato preso completamente
– o quasi completamente – alla sprovvista.
Ma
il piano così come lo aveva progettato non andò in porto. Non funzionò perché, altrettanto
improvvisamente, Dan Lance non si trovava più dov’era prima... ma a cinque
maledetti centimetri dal suo naso e, prendendogli il polso con la mano, gli
rigirò il braccio dietro la schiena con la stessa facilità con cui si piega un
foglio di carta.
Un
fulmine, ecco cos’era stato. Non lo aveva minimamente visto: un momento prima
stava osservando il suo sguardo sorpreso, e il momento dopo il suo braccio era
dolorosamente contratto contro la propria schiena.
« Bel tentativo,
ottimo uso dei comandi » commentò Sakurai da
dietro di lui: « però... cosa
pensavi di fare con questo coltello da marmellata? ».
« Eh? » esclamò Andrew, e questa
volta quello sorpreso fu proprio lui. Quando Dan lo lasciò – probabilmente
ritenendo che l’umiliazione subita con quell’improvvisata fosse stata
sufficiente per quietarlo – poté effettivamente osservare... che l’ “arma
micidiale” era in effettivo una normalissima stoviglia da cucina.
Lo
osservò a bocca aperta come se lo stesso coltello da marmellata avesse
irrimediabilmente tradito la sua fiducia.
Dan,
ancora dietro di lui, ridacchiò. « È
“pugnale”, non “coltello”. “Coltello” è troppo generico, può uscirti
fuori di tutto » spiegò brevemente.
Il
castano sospirò affranto. « E funziona così da
tutte le parti? ».
« No, non sempre » ammise Sakurai,
affiancandolo: « in alcuni
videogiochi è necessario aprire l’intera lista, in altri alcune parole fanno
comparire l’unica arma di quel tipo che si possiede. DreamLand è un po’
diverso, da questo punto di vista » fece qualche passo in avanti e alzò lo
sguardo allo sconfinato cielo latteo, prima di continuare: « è stato progettato
come programma per abituarsi al funzionamento della realtà virtuale, dunque
all’interno di questo spazio può essere creato di tutto, sia a livello di
oggetti che di paesaggi ed ambienti » disse, senza mai spostare gli occhi da
quel soffitto bianco.
Detta
così, nonostante la sua totale inesperienza in quel campo, almeno riusciva a
capire le ampie possibilità che possedeva un giocatore usando DreamLand: era
come avere fra le mani una matita e tutto ciò che lo circondava come infinito
foglio bianco.
Rimasero
in silenzio per alcuni istanti.
Quando
il silenzio divenne talmente lungo da sembrare strano, Andrew decise che era il
momento di interromperlo. « Beh, se non c’è
altro io andrei a casa, domani ho lezione » disse, stiracchiandosi.
Girandosi
in sua direzione come se fosse sorpreso di trovarlo lì – come se Sakurai si
fosse perso con la mente in un altro mondo, un universo tutto suo – Dan annuì
appena.
« Game Over » disse ad alta voce;
il videogioco si disattivò da solo ed Andrew fu libero di togliersi il visore
dagli occhi.
Ci
mise un poco per riadattare la vista, abituata ad un bianco brillante quasi di
luce propria, alla stanza con pochissima luce in cui aveva lasciato il mondo
reale quando si era infilato il visore. Si massaggiò gli occhi con le dita
della mano destra, cercando di far sparire quelle fastidiose farfalle bianche
che gli impedivano di vedere in modo decente.
Si
sentì stanco tutto d’un tratto.
« Ti lascio il set e
il CD con DreamLand per la settimana. Vorrei che imparassi ad usare le funzioni
base finché non ti trovi a tuo agio con i comandi » stava dicendo
contemporaneamente Sakurai, spegnendo il suo portatile e mettendo tutto in una
sporta con i manici di carta recuperata nemmeno sapeva in quale angolo della
stanza. « Prima che tu me lo
chieda, ti serve perché Unseen usa la
stessa tecnologia, dunque ti ci devi abituare per poter sperare di non morire
in uno dei livelli che sarai costretto ad affrontare non appena ti farò giocare
con il mio personaggio » continuò Dan,
passandogli la sporta.
Collins,
i cui neuroni erano fritti peggio dei gamberetti che la madre gli aveva
cucinato la sera stessa a cena, non fece altro che annuire. Si sentiva troppo
assonnato persino per pensare a qualche cattiveria sui NERD e i reclusi, cosa
che a regime normale gli sarebbe venuta in mente peggio dell’aria che
respirava.
Non
riuscì nemmeno a ricordare come e soprattutto quando erano arrivati prima alla
porta di casa, poi al cancello. Con un moto di disgusto intrinseco, notò però
che il cielo aveva una tonalità di blu più chiara...
Doveva
essere notte fonda se non mattina presto. E temeva che la realtà si avvicinasse
molto di più alla seconda considerazione che non alla prima.
Ma
Dan non andava a scuola? Quando caspita aveva intenzione di dormire, e
soprattutto quanto?
Per
il suo bene, lasciò perdere qualsiasi ragionamento che poteva tranquillamente
essere rimandato dopo le almeno sette ore di sonno che aveva tutta l’intenzione
di prendersi, saltando la lezione o meno. Tanto avrebbe dormito in ogni caso,
con la differenza che a casa avrebbe dormito su un letto, dunque molto più
comodamente.
Quando
Dan gli aprì il cancello, Andrew semplicemente deambulò fuori dalla tenuta
Lance con tutta l’intenzione di concentrare i suoi pochi neuroni rimasti vigili
sulla guida. Insomma... a casa doveva pur tornarci, in un qualche modo, e il
tutto prevedeva come minimo mezz’ora di macchina. Tuttavia non si dimenticò di
essere educato... più o meno.
« Beh, Lance, buona
notte » biascicò « grazie mille per
avermi tenuto sveglio fino alla distruzione totale di ogni mia capacità mentale
» ironizzò, tirando
fuori le chiavi della Ford e facendole tintinnare.
« Disse quello che ha
passato due ore a farsi pestare in realtà virtuale solo perché non l’aveva mai
provata » ribatté Sakurai,
sagace come al solito.
Ma
la materia grigia di quel tizio non conosceva mai un attimo di
rincoglionimento, cosa dovuta a chiunque stia attaccato allo schermo di vari
computer fino alle cinque del mattino?
Ah,
già... non doveva mettere uno come Sakurai allo stesso livello degli esseri
umani normali. Sarebbe stato uno sbaglio enorme. Quello era, tipo, l’imperatore
dei NERD, una roba assurda...
Quando
arrivò ad immaginarsi Dan Lance che rideva sguaiatamente seduto su di un trono
di tastiere per computer e sorseggiava microchip senza piegare il mignolo,
annuì a se stesso e alla propria idea di raggiungere il proprio letto il prima
possibile.
« Beh, è stata una
figata » disse, alzando la
mano in segno di saluto: « ci vediamo, se
proprio devi... » salutò di nuovo a
voce, incamminandosi verso la propria auto. L’aria era veramente fresca, a
quell’ora del mattino.
« Collins! » lo chiamò poi il
moro; Andrew si girò.
« Non ti è ancora
successo nulla a causa del gioco? » domandò allora il moro, rimanendo in
attesa. Dall’espressione, non propriamente diversa da quella scazzata che aveva
di solito, si poteva però capire che la domanda possedeva una certa
importanza...
...importanza
che Collins, che pareva uscito da una nube di marijuana per quanto era stanco,
non arrivava a capire. « Boh, che io sappia
no » rispose dunque, per
la maggior parte a casaccio.
Ma
Dan sembrò soddisfatto così, quindi tanto meglio.
Si erano guardati un momento negli
occhi: Nick con lo spazzolino in bocca e il dentifricio che minacciava di
colargli sul mento, mentre Andrew con l’aria di una persona strafatta di crack.
Un paio di istanti dopo, Nick gli aveva indicato la sua camera con il pollice
ed Andrew, con l’ultimissimo residuo d’intelligenza rimasto integro quella
notte, lo aveva mentalmente ringraziato per non aver informato sua madre, che
sicuramente ne avrebbe fatto una catastrofe nazionale.
Una
volta arrivato in camera, vedendo il proprio letto ancora mezzo sfatto come se
fosse una sorta di visone divina, non si era nemmeno sprecato di cambiarsi,
buttandosi sopra le coperte vestito e dormendo direttamente così.
Addio
veglia, benvenuto mondo del sonno e dei sogni. Morfeo, guidami con saggezza
sulla via del riposo. Tanto ormai era scontato che l’università lo avrebbe
visto presente solo il giorno successivo, lui non aveva intenzione di aprire
gli occhi prima delle tre del pomeriggio.
Cosa
che, ovviamente, non successe. Alle nove del mattino, il telefono di casa prese
a squillare.
La
prima volta, non lo sentì minimamente.
La
seconda volta, sentì solo l’ultimo squillo prima che tacesse, dunque non si
sforzò nemmeno di aprire gli occhi.
La
terza volta, lo ignorò bellamente.
La
quarta volta cominciò effettivamente a pensare che fosse qualcuno che avesse
bisogno. Aprì gli occhi, osservò la sveglia, ma si rifiutò di alzare il culo
almeno finché il numero davanti ai puntini lampeggianti non avesse raggiunto le
due cifre, telefono o meno.
La
quinta volta decise che, però, così non era possibile.
Imprecò.
Violentemente. Ma dato che quel trillo acuto era fastidioso come se non più di
un muratore italo-americano che cantava “O Sole Mio” davanti alla finestra
della sua camera, prese la fatidica decisione di andare a rispondere e, con uno
scatto che dimostrava quanto fosse atletico, si fiondò giù per le scale.
Ovviamente
fece finta di non accorgersi che un piede era nudo e nell’altro aveva ancora
una scarpa.
« Pronto » sputò con astio
malcelato, alzando la cornetta dopo almeno il sesto squillo.
« Ci siamo svegliati
male, Collins? » disse una voce
profonda dall’altra parte; non appena Andrew la sentì, la sua collera si placò
di qualche punto percentuale.
« Coach? » domandò spiazzato,
sorpreso di sentire la voce del suo allenatore e, soprattutto, di sentirla sul
telefono di casa.
« Proprio io. Come si
deve fare per parlare con te, Collins? Vuoi un invito scritto in carta bollata?
Oppure devo prima chiedere il permesso al Presidente degli Stati Uniti? » domandò sarcastico
l’uomo.
Non
capì. « Cosa? » domandò infatti.
« Capisco. Questa
mattina hai una reazione allergica all’intelligenza, eh? » ironizzò
conseguentemente, per poi aggiungere, semplificando ai minimi termini: « dov’è finito il tuo
cellulare, Collins? Te l’ha mangiato il cane? ».
Il
cellulare? Ah, ora aveva capito. Il coach chiamava sempre sul cellulare quando
aveva bisogno, solo se lì si era irreperibili arrivava agli estremi rimedi per
mali estremi ed usava il numero di casa. La sera prima la batteria del suo
cellulare aveva due tacche, e ripromettendosi di metterlo in carica alla fine
non lo aveva fatto. Poi ci aveva chiamato il NERD per farsi aprire il cancello
e, così facendo, aveva dichiarato il decesso della poca carica che la batteria
aveva strenuamente mantenuto fino ad allora.
Probabilmente
era sul suo comodino scarico, e dunque spento.
« Non abbiamo cani » disse Andrew,
sbadigliando sommessamente: « e il cellulare deve essere scarico, stanotte non ero a
casa » spiegò brevemente.
« Beata gioventù » commentò quello,
per poi continuare: « beh, vedi di farti
un caffè a tiratura industriale, Collins. Ti voglio nel mio ufficio fra
quaranta minuti al massimo » disse, e sì, era un maledetto ordine.
C’erano
due cose che mal sopportava del suo allenatore, anche se per quieto vivere
evitava di palesarle in pubblico o al coach stesso.
Primo,
la sua fissa di aggiungere “Collins” come intercalare ad ogni frase. Sapeva
come faceva di cognome, porco immondo, non aveva bisogno di sentirlo usare alla
stregua di una virgola.
Secondo,
aveva la brutta abitudine di non dare spiegazioni. Perché dai, come la prende
uno con due ore scarse di sonno la frase “ti voglio nel mio ufficio fra
quaranta minuti” quando l’ufficio in questione è a, tipo, venti minuti da casa
e nel centro esatto dell’edificio amministrativo del campus universitario?
Nel
caso la domanda non fosse abbastanza retorica di per sé, la prende male.
« ...posso chiedere
il perché? » domandò allora il
castano, facendo forza per l’ennesima volta sulla presenza di spirito del suo
lato zen. Anche se, se lo sentiva, il suddetto lato zen stava per piantargli
con violenza il rastrellino su di uno stinco.
Sentì
l’uomo sospirare esasperato. Tuttavia, probabilmente, ritenne la domanda
abbastanza pertinente e lo graziò con una risposta un po’ più esplicativa.
« La carissima
signora Rosaline ha trovato qualcosa che non va con il tuo libretto
universitario. Roba leggera, tipo che se non si risolve ti togliamo la borsa di
studio, cosa vuoi che sia? » ironizzò con voce leggera, e Collins e lo immaginò
seduto alla scrivania del suo ufficio a fissarsi le unghie contro luce.
Lui,
d’altro canto, ebbe quasi un attacco di cuore.
« Sono già lì » rispose subito
Andrew, catapultandosi al piano superiore a recuperare l’altra scarpa.
« Saggia decisione » ribatté
l’allenatore, riagganciando il telefono.
Nonostante
Andrew fosse uno studente del primo anno, era abbastanza risaputo che fra il
coach Finch e la sua segretaria Rosaline scorresse sangue amaro come il veleno.
In
breve: Finch era molto bravo ad insegnare alle persone come si gioca a calcio
in modo decente e ad allenarle fino al massacro fisico e mentale, ma era un
completo incapace quando si trattava di burocrazia. E con il termine “burocrazia”
era compreso un lasso di operazioni su carta che andavano dalla denuncia dei
redditi alla semplice compilazione dell’agenda.
Motivo
per cui, all’ennesimo ritardo nella consegna delle valutazioni, il Magnifico
Rettore aveva saggiamente deciso di assumere Rosaline.
Con
un nome del genere, ti aspetteresti una persona gentile e posata, con un paio
di occhialini da professionista e un chignon ben stretto sulla nuca, magari
corredato da un sorriso gentile ed un ordine invidiabile. Sì.
Peccato
che il nome completo di Rosaline fosse “Rosaline Agnese Maria Sánchez”, che fosse spagnola di nascita, che
portasse una quinta di seno bene in vista stretta in un corpetto nero con pizzo
in coordinato e che, almeno si vociferava, avesse partecipato per ben dieci
anni di fila alla corsa dei tori di Pamplona. Insomma, se sapeva prendere i
tori per le corna... era stato detto tutto.
Parlava fluentemente la loro lingua, essendo vissuta
in America per ben 17 anni, ma essendo di origini ispaniche aveva la
bruttissima abitudine di sfogare la rabbia nella propria lingua madre.
Il che significava, con uno come Finch alla porta
accanto ogni santo giorno, che raramente si sentiva Rosaline parlare in
inglese.
Quando Andrew entrò trafelato all’interno del
dipartimento di Scienze Motorie – un nome figo per dire che quello era
l’ufficio dei vari coach del campus, dal nuoto al basket al calcio al football
– non era una giornata diversa dal solito.
« Maldecido a oportunista! » sbottò la donna con malagrazia dall’ufficio del coach: « yo curro cada
día por poco dinero y él también tiene el ánimo de quejarse de mi trabajo! ».
« Lingua, Rosa! LINGUA! » rispose Finch a voce altrettanto alta: « se parli in quel cazzo di spagnolo non ci capisco
un tubo! Parla come mangi! ».
« E tu mangia de meno,
sottospecie de vacca indiana! » ribatté la donna con forte accento spagnolo: « los
bocadillos que te llevo del comedor podrían saciarse el tercer mundo! Y paras de llamarme a “Rosa”! » detto ciò, uscì sbattendo la porta a vetri.
Andrew rimase per qualche istante a guardarla, in
piedi sulla porta con un fiatone considerevole. Praticamente era volato lì e, a
testimonianza della fretta, aveva ancora fra le mani le chiavi della Ford.
Sistemandosi attentamente la maglietta, poi,
Rosalina si rivolse a lui. « Avevi bisogno de qualcosa? » gli domandò, ora gentile e cordiale come solo una buona donna poteva
essere.
A vederla non si sarebbe detto, ma sentire la
potenza insita al suo spagnolo dava seriamente a pensare che venisse
direttamente dai peggiori bar di Caracas.
« Sono stato chiamato circa
mezz’ora fa per dei documenti che... »
« Ah, sì » lo interruppe quasi subito, sedendosi alla
scrivania ed estraendo un foglio da un ordinatissimo contenitore di plastica
blu: « Collins, giusto? Accomodate
pure, el professore te spiegherà todo
» disse, indicandogli la
porta. Poi, improvvisamente, urlò: « Profesor! Hay el señor Collins por
ti! »(3).
« Lingua, maledizione! » urlò Finch da dentro l’ufficio e, nonostante non
gli avesse dato l’avanti – probabilmente perché non aveva capito niente di
quello che aveva urlato Rosaline – la donna gli fece comunque segno di entrare,
cosa che fece subito.
« Coach, sono qui » si annunciò.
« Collins! Alla buon’ora.
Entra pure e chiudi fuori quell’arpia » disse, facendo un gesto vago con la mano in direzione della porta.
Andrew obbedì, chiudendo fuori la successiva cascata in lingua spagnola che
invase l’anticamera dell’ufficio.
« Siediti » gli disse Finch, indicandogli una delle sedie
davanti alla scrivania.
L’ufficio del coach Finch era più o meno come tutti
quelli degli altri allenatori: targhe, medaglie, coppe. Fotografie. Una pianta
di ficus che dava l’idea di morire disidratata da un giorno all’altro. Un
riproduzione in scala 1:10 della Coppa del Mondo in vernice dorata e, appeso
alla parete di fianco, un biglietto della finale di Coppa del Mondo del 1994,
quando la nazione ospitante erano gli Stati Uniti. Ma la cosa più inquietante
era la parete alla sinistra dell’entrata, su cui facevano mostra di sé le
fotografie di ogni squadra allenata da Finch in perfette file parallele e in
maniacale ordine cronologico anno per anno. E la prossima sarebbe stata la
loro, inesorabilmente.
Andrew cominciava a farsi l’idea che quell’uomo
fosse un tantino fissato.
L’unica cosa che fortunatamente staccava un po’
erano i due quadretti ben ritti in un angolo della scrivania disordinata e
piena di riviste di sport e calcio, uno raffigurante lui e la moglie e l’altro
con la fotografia di una bambina con due fiocchi rosa nei capelli. La figlia,
probabilmente.
Cioè... qualcuno aveva avuto il coraggio di sposarlo
e procreare la sua prole?!
« Collins, ti ho chiamato
perché abbiamo riscontrato un problema nei dati del tuo libretto, dunque nella
verbalizzazione degli esami » cominciò a dirgli Finch, distogliendolo dalla fantasia e richiamandolo
alla realtà.
« Rosalina ha notato che la
media dei voti dei tuoi esami non soddisfa i requisiti per la borsa di studio
che ti è stata data. Tu sai benissimo che ti è concessa solo se la media totale
degli esami supera la B, giusto? »(4) domandò seriamente, appoggiandosi con la schiena
alla poltrona e intrecciando le mani sul ventre.
Oh, certo che lo sapeva. Ma lui era rimasto ad un
punto precedente del discorso...
« Non supera la B? » chiese stranito, spalancando la bocca per la
sorpresa. « Coach, io su quattro esami
dati ho preso una A, due B+ e una B. È matematicamente impossibile che la media
non superi la B! » disse, prendendo coscienza
solo in quel momento di quanto profondamente affogato in un lago di panico e
sudore freddo si fosse improvvisamente ritrovato.
C’era un motivo se aveva preferito la borsa di
studio per meriti sportivi alla frequentazione standard del college: la retta
era salata. Il motivo era semplice. E nonostante la sua famiglia avesse un
reddito anche di un poco sopra la media, suo padre andava al lavoro in autobus
e sua madre in treno. Solo lui aveva l’onore di possedere un’auto che potesse
meritare quell’appellativo, dato che suo padre era sentimentalmente legato a
quel Minivan azzurro cielo scassato ed incidentato, la cui unica utilità
sarebbe stata quella di essere rottamato e ridotto ad un cubo di lamiera.
Diceva che gli ricordava i suoi anni migliori, ma Andrew era convinto che gli
anni migliori di quel Minivan fossero finiti ormai da mezzo secolo. Il che la
diceva lunga.
Inoltre, ultimamente il mercato del pesce non andava
alla grande, e suo padre praticamente viveva di quello, essendo vice
responsabile di una ditta d’import/export del pescato.
Non aveva semplicemente il fegato di chiedere ai
suoi genitori una retta astronomica per farlo studiare, anche se probabilmente
entrambi sarebbero stati più che bendisposti di pagargliela. Si era guadagnato
la possibilità di avere gli studi pagati per la maggior parte grazie alla sua
abilità di essere un campione del calcio e non aveva la minima intenzione di
rinunciarvi. Soprattutto per un dannatissimo errore amministrativo!
Aspetta. Errore... amministrativo?
« Collins, hai il libretto
cartaceo, giusto? » chiese nel frattempo Finch,
ma non ottenne nessuna risposta immediata.
Errore... ne era veramente sicuro?
« Collins! » lo chiamò il coach all’attenzione, facendolo
sobbalzare. « Su che pianeta sei? » ironizzò spazientito.
« S-Sì... » annuì allora alla domanda, estraendo il libretto
dalla tasca del giubbotto ed allungandolo all’allenatore. Quello osservò i voti
verbalizzati e, con un sopracciglio inarcato, guardò prima le pagine del
libretto e poi Andrew.
« Beh, suppongo sia stato un
errore della Segreteria Didattica » disse poi, restituendogli il libretto: « ci penserà Rosalina ad avvertirli, tu vai a casa e aspetta notizie, ma
non credo che dovrai preoccuparti più di tanto. Ci sarà stato sicuramente
qualche imbecille che ha cliccato il tasto sbagliato al computer » commentò sbadatamente.
Ma fu quello stesso commento che fece scattare la
scintilla definitiva ad Andrew. Così come gli proiettò in mente una frase,
anzi... una domanda.
“Non ti è ancora
successo nulla a causa del gioco?”
Possibile? Possibile che avessero già colpito,
chiunque fossero i pazzi scatenati che si divertivano a sparare proiettili
anti-sommossa a sera tarda? Possibile che quello fosse una sorta di
avvertimento?
“Sappiamo chi sei e cos’hai intenzione di fare.
Attenzione a quello che fai”.
Uscendo dall’ufficio in un cupo silenzio, il castano
si fermò per un secondo nel centro esatto del vialetto. Nei giardini del campus
erano pochi gli studenti che leggevano o chiacchieravano seduti in circolo
sull’erba, dato che la maggior parte di loro era probabilmente a lezione.
Alzò gli occhi verso il cielo limpido di quella
mattina e, quando un raggio di sole lo colpì direttamente in viso, dovette
forzatamente abbassare gli occhi.
All’inizio aveva pensato che Sakurai, alias Dan
Lance, fosse preda di una qualche crisi delirante.
Ora che, secondo una sua teoria finora alquanto
astratta, il gioco aveva cominciato ad influire sulla realtà, non era più
sicuro che scherzasse.
Così come non era più del tutto convinto di volere
immischiarsi in questa storia.
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1.
La “NERV” (si legge “nerf”, in tedesco
significa “nervo”) è la famigerata organizzazione a difesa dell’umanità del
manga “Evangelion” di Yoshiyuki Sadamoto. La scritta maiuscola rossa con la
mezza foglia di acero è il suo logo.
2. Credo che tutti sappiano chi è Bill Gates, ma nel caso... è il
proprietario della Microsoft. Steve Jobs, invece, è il fondatore della Apple.
3. La traduzione di ciò che dice Rosalina XD in ordine testuale:
« Maledetto opportunista! » (...) « io lavoro ogni giorno per pochi soldi e lui ha anche il coraggio di lamentarsi
del mio lavoro! »
(...) « i panini che ti prendo dalla mensa potrebbero sfamare il terzo mondo! E
non chiamarmi "Rosa"! »
« Professore! C'è il signor
Collins per te! »
4. Nei college americani i voti non vengono formulati con i numeri, ma con
le lettere. A è il massimo, F l'insufficienza. Praticamente, l'A+ sarebbe il
nostro 30 e lode.
E finalmente il capitolo 4 è stato partorito. Potrei
piangere di commozione ma, ahimé, forse è meglio di no ;D
Siccome è passato più di un anno (sì, sì, mi
fustigherò) dall’ultimo capitolo inserito di Sakura Wars, per questa volta ho pensato di non stare qui a
rispondere ai commenti ricevuti. Non avrebbero molto senso, no? XD
Inoltre EFP si è digievoluto e adesso da la
possibilità di rispondere direttamente ai commenti. Nonostante io sia fan delle
risposte all’antica, ovvero quelle scritte a fine capitolo, credo proprio che
mi evolverò a mia volta e per i prossimi capitoli risponderò direttamente
utilizzando le funzioni del sito. Almeno posso farlo subito senza aspettare di
aver scritto altre 10 pagine di Word X°D
Ringrazio comunque sentitamente le persone che
commentarono – e hanno commentato anche in tempi più recenti ;D – il precedente
capitolo, ovvero Leliwen, Shichan, AcchanBaka, Isy_264,
CloudRibbon e Gioielle.
Beh, al prossimo capitolo! <3