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Autore: Yoko Hogawa    29/07/2011    4 recensioni
Non c'è nessuno, nei forum dedicati alla scrittura creativa, che non conosca Sakurai.
La sua fama è pari solo al suo talento, al numero dei suoi fan dispersi per il mondo e, probabilmente, al mistero che circonda quel misero nickname.
Perchè sì, di Sakurai non si sa nulla. Tanto che alcuni pensano che non ci sia nessuno, dietro quel nome fittizio.
Come Andrew. Nella sua perfetta vita da bello e impossibile, lui non riesce a credere che una persona del genere possa realmente esistere. E' lui il primo a sostenere che "Sakurai" sia soltanto una colossale bufala.
Finchè non riuscirà, per uno strano scherzo del fato, a carpire il segreto di Sakurai... e, automaticamente, della persona che vi si nasconde dietro. Finchè non si caccerà nei guai, come diceva sua madre appena le era possibile, perchè i misteri di Sakurai non si limitano al mondo in lettere e prosa, ma sconfinano in una corsa disperata contro il tempo e quasi distaccata dalla realtà.
Andrew si troverà, suo malgrado, a prendere parte ad un gioco on-line che ha risvolti sulla vita reale. E quando gli influssi di quel gioco si faranno sentire anche sulla sua vita, cominciando a distuggerla, l'unica persona su cui potrà contare... sarà proprio Sakurai.
[Linguaggio colorito in alcuni punti]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non ci ho messo più di un anno per l’anima della tenca, mi preme dirlo.

Avevo da fare. Esami, terzo anno, laurea... un po’ di roba impellente, insomma. Un po’ di vita.

Purtroppo c’è anche quella.

Comunque, alla fine, ci sono riuscita. Ho fatto un po’ di fatica a rientrare nell’ottica dei nostri amici, ma ammetto che mi erano mancati e dunque ne è valsa totalmente la pena XD motivo per cui ora il quarto capitolo – probabilmente dato per disperso – è qui!

 

Qualche precisazione che mi preme: più avanti troverete delle frasi scritte in spagnolo. Sappiate che per me lo spagnolo ha la stessa valenza dell’ostrogoto, ovvero non ne so una mezza parola. Le perle di saggezza di questo capitolo provengono da un traduttore automatico, e spero che non siano delle grandi castronerie e basta!

E sì, ho anche che le frasi escalamative andrebbero fra doppi punti esclamativi ma no, ok? Mi pesava il sedere cercare su Word come si facesse, e il programma non collaborava.

 

Beh... in tutto ciò, direi che posso augurarvi una buona lettura <3

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Capitolo 4

 

Every time, just for time;

I will travel into a world I barely know nothing about.

(Cherryblossom; Dive to World)

 

 

Lui, personalmente, non aveva proprio niente contro Dan Lance.

Anzi, fino ad un certo punto lo stimava anche. Scriveva in modo a dir poco divino, e a guardarlo in faccia – con quell’espressione sempre imbronciata con cui gli si presentava davanti praticamente ogni volta che aveva il dispiacere di incontrarlo – non avresti mai detto che avesse così tanta fantasia da creare cose come “Unseen”, la fanfic a capitoli che al momento più spopolava in Rete.

Però c’erano dei momenti, fin troppi in realtà, in cui avrebbe volentieri stampato la suola seghettata delle sue scarpe a tennis su quel suo sogghigno scazzato.

E uno di quei momenti era quando il cellulare suonava alla mezzanotte meno un quarto. Ovvero quando si stava preparando per andare a dormire, dato che di mattina la sveglia suonava sempre alla stessa ora: ogni giorno fin troppo presto.

Fu un sms, in realtà, quindi il cellulare non squillò propriamente. Ma quando lo agguantò, borbottando qualcosa di indefinibile a mezza voce, e lesse il nome “Sakurai” sullo schermo, fu ampiamente tentato di ignorarlo con tutto se stesso e concentrarsi sulle successive sette ore di sonno che lo attendevano.

Tuttavia, e fece questo ragionamento fissando accigliato il telefonino, aveva seriamente timore di cosa sarebbe riuscito a fare Dan Lance se non gli avesse risposto. Aveva l’aria di uno che poteva decidere il lancio di un missile nucleare solo alzando la cornetta e contattando un qualche suo amico di Internet. Tipo una spia professionista.

Quando l’immagine di Lance in tenuta Man in Black gli fece capire di essere ormai arrivato al capolinea della propria sanità mentale, sospirò rassegnato.

A dire il vero l’sms non diceva molto. Anzi, si limitava all’essenziale.

“Ci vediamo fra mezz’ora a casa mia”.

Andrew osservò lo schermo con un misto fra l’incredulità, il pensiero che fosse uno scherzo di cattivo gusto e la sensazione di galleggiamento che potrebbe dare un allucinogeno. L’espressione da beota esprimeva tutto ciò senza avere bisogno di una descrizione apposita.

Senza dire niente, senza nemmeno respirare, spostò lo sguardo su se stesso e sui pantaloncini da basket stropicciati che si sforzava di usare come pigiama.

Non aveva la minima intenzione di alzarsi, prendere la macchina e perdere ore di sonno solo perché il mocciosetto aveva le turbe adolescenziali. Glielo disse.

La risposta lo convinse a scendere dal letto.

 

La famiglia Lance non abitava esattamente nelle vicinanze, ed Andrew impiegò più di quaranta minuti per arrivare nella zona esclusiva in cui Dan viveva.

Casa sua era fuori Cleveland, verso il lago Eire. E quando ci arrivò di fronte, sovrastato dal cancello in ferro battuto con ghirigori e araldi vari, si chiese se in realtà non fosse il figlio di una qualche star del cinema o di un premio Nobel.

Ciò che si era trovato davanti non era nemmeno lontanamente definibile con il termine “casa”. A malapena lo era la parola “villa”, piuttosto.

Oltre il cancello si snodava un vialetto ghiaiato circondato da un giardino ben curato, con alberi di cipresso lungo i bordi e altri – di cui non riconosceva il genere a causa del buio – più discostati verso l’interno del giardino. Alcuni lampioncini erano l’unica illuminazione consentita ai suoi occhi per poter riconoscere qualcosa, uniti alla luce dell’entrata che illuminava di giallo un portone in legno rossiccio con batacchio dorato e spioncino. La “casetta” – un cazzo, questa è una reggia! Pensò - aveva di sicuro due piani e Dio solo sapeva quante stanze. Davanti all’ingresso, un portico con colonne doriche copriva tre miseri scalini e le statue di due doberman seduti diligentemente ai lati della porta.

E per fortuna che erano solo statue.

« Andrew Collins, ma chi te lo ha fatto fare... » borbottò a se stesso con un sospiro, afferrando malamente il cellulare dal sedile di fianco. Appena lo schermo si illuminò, il constatare che mancassero dieci minuti all’una gli fece passare di mente l’idea di attaccarsi con il dito al campanello finché i Lance non avessero chiamato la polizia. Solo per pura vendetta, ovviamente.

Non era così bastardo.

Cercò velocemente in rubrica il nome di Sakurai e, una volta selezionato, fece partire la chiamata.

Bastarono due squilli. « Ohi » rispose la voce di Dan: « ti sei perso? ».

« Non sono una schiappa al volante » rispose lui, per uno qualche strano motivo sempre più seccato: « sono davanti al cancello » aggiunse.

Ci fu un attimo di silenzio. « Qual’é il tuo scopo nello stare impalato davanti al cancello? » domandò l’altro, genuinamente sorpreso.

Il sopracciglio sinistro di Andrew scattò in alto per conto proprio. « È chiuso, tipo » picchettò acido, usando quel tono irritante di quando si domanda una cosa ovvia.

Ma insomma, era o non era casa sua? Doveva dirgli lui che quel maledetto cancello era dannatamente chiuso?! Cos’è, la finestra di camera sua era troppo lontana dalle strade dei comuni mortali e non aveva un binocolo a portata di mano?!

Fece leva su se stesso e sulla sua calma interiore, richiamando con ogni stilla di presenza psichica la pace del suo stato zen. Calma Andrew, calma.

Lo sentì borbottare qualcosa che non capì, unito a rumori non ben definiti di cose che venivano spostate. « Vengo subito » disse poi, riattaccando.

Non gli ci volle molto, e nell’attesa posteggiò e spense il motore della macchina. Solo quando lo vide camminare lungo il vialetto ghiaiato scese dall’auto, chiuse tutto e si mise le chiavi nella tasca frontale della felpa, che aveva indossato sopra i primi jeans che aveva trovato a disposizione.

La visione di Dan in versione notturna gli fece quasi temere di avere sbagliato indirizzo.

Ciabattando rumorosamente sui sassi, si avvicinava al cancello con il passo tipico di un elefante di due tonnellate scorrazzante nella vastità della savana africana; aveva i capelli racchiusi in una coda un po’ più alta del normale, ma che non tratteneva una miriade di ciocche più corte che erano frettolosamente tenute lontane dalla faccia con l’uso di un laccetto ferma-capelli. Indossava un paio di pantaloni scoloriti palesemente troppo lunghi per lui, derivanti sicuramente da un pigiama, e per camminare era costretto a tenerli sollevati con le mani, il che lo faceva sembrare un lottatore di sumo con novanta chili in meno. Sopra quest’esempio di pigiama rupestre, faceva sfoggio di una maglietta nera a mezze maniche con la scritta rossa “nerv” e quella che sembrava metà di una foglia d’acero(1).

Ok che nemmeno lui era vestito di tutto punto, ma vederlo in pigiama non era una delle priorità della sua vita. Possibile che nessuno gli avesse insegnato un po’ di buon senso? Del tipo “se hai ospiti a casa almeno vestiti in maniera un po’ decente”? Certo, non c’era scritto da nessuna parte che non potesse aprirgli la porta con solo stivali e cappello alla texana, ma si capiva al volo che non era il caso, no?

Cancellò rapidamente l’immagine dalla sua testa prima ancora che il suo cervello avesse il tempo di elaborare il pensiero e visualizzarne il risultato.

« Ti pare questa l’ora? » chiese invece con tono scazzato, mani in tasca, entrando lentamente quando Dan gli aprì.

« Cos’è, vai a letto con le galline, tu? » rispose però quello, che a quanto pareva era ancora più seccato di lui per un motivo che non gli era dato sapere (e non gli interessava nemmeno, in effetti). « Oppure sei cultore delle otto ore di sonno? » continuò imperterrito, lanciando battutine dal retrogusto acido: « dovrei presentarti mio nonno, anche lui va a dormire verso le sette... » lasciò cadere, richiudendo con cura il cancello e riprendendo fra le mani il lembo di pantalone per tenere l’orlo sollevato da terra. Se li mollava, Andrew era matematicamente sicuro che se li sarebbe pestati con il tallone già dal secondo passo.

Per una qualche sorta di resistenza intrinseca, non rispose alle provocazioni. Probabilmente era il sonno, ma aveva la sensazione che se si fosse messo a discutere con il moccioso sarebbe finito per non tornare a casa prima dell’alba. Era meglio non stuzzicarlo oltre.

In silenzio, percorsero il vialetto al contrario fino ad arrivare all’ingresso... che però scartarono, andando verso destra. Costeggiarono il muro della casa fino ad arrivare sul retro, dove una porta scorrevole in vetro dava su quella che era la più grande terrazza mai vista. Nemmeno gli hotel belvedere piantati a monculo sulle Dolomiti avevano terrazze così grandi.

« Cos’è, ci giocate a calcetto qui dentro? » commentò ironicamente, cercando di cogliere qualsiasi particolare riuscisse a scorgere alla fioca luce presente. Dan si limitò a lanciargli un’occhiataccia, ma non replicò.

Andrew continuò a seguire il moro lungo la stanza, passando per la cucina, un corridoio e l’ingresso vero e proprio, in cui svettavano due colonne in marmo e una rampa di scale che pareva progettata dallo staff che si occupava dei castelli della Walt Disney. La salirono, dirigendosi questa volta a sinistra ed entrando nella prima porta a destra.

Per qualche istante, credé fermamente di essere precipitato in una sorta di dimensione parallela. La stanza di Dan, se possibile, era ancora più allibente di tutta la casa in sé: a parte un letto ad una piazza e mezzo abbandonato contro il muro e sovrastato da una libreria a parete che dire stra-colma non significava rendere nemmeno metà dell’idea, il resto della camera era permeato da oggetti di un livello tecnologico al di là della semplice “nuova uscita”. Sembrava seriamente che andasse a cena con Bill Gates una volta alla settimana, o che fosse creditore di qualche genere di favore a Steve Jobs(2).

Un televisore a cristalli liquidi era ben riposto sul proprio supporto, girato in direzione del letto, e ad esso erano collegate minimo tre console per videogame. Era sicuro di vederci una XBox e una Playstation 3, ma non era propriamente convinto di cosa fosse la terza. Sulla scrivania c’era uno schermo ultrapiatto di un computer fisso aperto sulla pagina di eMule e, subito al suo fianco, un altro monitor appartenente ad un secondo computer che mostrava una barra di scorrimento e uno sfondo blu pieno di codici.

Poco distante – dato che la scrivania sembrava essere utilizzata semplicemente come poggia-monitor – su di un tavolinetto basso un computer portatile era aperto e in uso, collegato alla corrente elettrica e alla linea internet tramite un fascio di cavi bene ordinati che si perdevano nel mezzo di un altro insieme di fili elettrici di ogni sorta. A terra, davanti allo schermo, un paio di cuscini che dovevano – a quanto sembrava – servire da sedie.

« Sai Lance, la gente normale concepisce l’uso della scrivania come una delle più belle invenzioni del genere umano » ironizzò Andrew, seguendolo con lo sguardo mentre si accomodava su uno dei cuscini e prendeva posizione davanti al pc.

« Il genere umano non è degno di considerazione » tagliò corto Dan, ticchettando qualcosa sulla tastiera del computer ad una velocità che per Andrew era allucinante. Con due click del mouse, poi, chiuse quella che sembrava tanto essere una pagina di Word.

Il prossimo capitolo di “Unseen”? Mh... avrebbe dovuto pensare a come corromperlo per farglielo leggere in anteprima, decisamente.

« Hai portato quello che ti ho chiesto? » domandò successivamente Dan, tendendo la mano con impazienza.

Andrew, capendo che aria tirava, si limitò ad annuire con un sospiro e ad estrarre dallo zaino il suo notebook, che passò poi a Lance. « Non incasinarmelo » aggiunse come monito, anche se forse era totalmente inutile: in quella stanza, l’unico ignorante in fatto di computer era lui.

Sakurai lo aprì velocemente, accendendolo per cominciarne il caricamento delle impostazioni. Una volta che il desktop comparve (« lo stemma della squadra di calcio? Accidenti Collins, che originalità... »), cominciò ad armeggiare con il Pannello di Controllo e guardare diverse cose che Andrew non sapeva nemmeno esistessero, quindi figuriamoci se possedeva l’abilità di ripeterne i nomi.

Passò qualche minuto in quello stato di osservatore passivo, ascoltando solamente il rumore ipnotico delle dita di Dan sulla tastiera del suo computer. Ogni tanto veniva intramezzato anche da alcuni click del mouse, ma notò stranamente che Dan sapeva usare benissimo anche i controlli a tastiera.

Per diventare così bravo, a lui ci sarebbero voluti anni. Oppure due mesi intensivi chiuso in camera a studiare ogni meandro del sistema operativo in uso, finché non avrebbe saputo recitare a memoria il percorso da effettuare per trovare una qualsivoglia componente.

Roba che non aveva assolutamente intenzione di fare dato che, differentemente dal NERD che in quel momento si divertiva a trafficare con il suo hard disk, lui una vita sociale la possedeva.

« Di grazia, cosa stai facendo? » domandò dopo un po’ Andrew, decidendo per il bene del suo già citato stato zen di andare ad accomodarsi sul secondo cuscino sistemato accanto a quello occupato da Dan.

Dal canto suo, il moro gli rispose senza nemmeno spostare lo sguardo dal monitor. « Ti sto potenziando la capacità di elaborazione del sistema per fargli supportare la realtà virtuale » rispose distrattamente.

Collins era fermamente convinto che se Dan gli avesse risposto una cosa come “boh, spingo tasti a caso per far vedere che sono figo e perché mi piace il suono che fanno i tasti del pc” avrebbe capito esattamente la stessa cosa, cioè niente.

« Che? » si espresse infatti, osservandolo accigliato.

Sakurai gli rivolse uno sguardo in tralice da sopra la spalla sinistra. Probabilmente si arrese all’evidenza che non si sarebbe spiegato nemmeno facendogli un disegno, quindi lasciò perdere direttamente e tornò al suo lavoro.

Collins, dal canto suo, non ci tenne particolarmente a riprendere il discorso per farsi dare una risposta esaustiva. Si limitò a distendersi sul gomiti, adocchiando nel mentre l’orologio a lato dello schermo: l’una e trenta del mattino... addio lezione di analisi fattoriale, se la sarebbe dormita tutta quant’era vero che l’insalata della mensa era l’unica cosa commestibile al campus. Ed era molto vero.

Per passare il tempo si guardò intorno, e gli occhi caddero immediatamente sulla quantità disumana di libri con cui la libreria era stipata.

Sua madre era una che leggeva molto, soprattutto grazie al mestiere che faceva, ma non arrivava ad averne così tanti. C’erano classici dell’ottocento come La Signora delle Camelie di Dumas e tutta la serie di Arthur Conan Doyle. Figuravano titoli come il Frankestein di Mary Shelley e il Dracula di Bram Stoker, romanzi più moderni come Harry Potter – tutti e sette i libri, e vedeva anche le Fiabe di Beda il Bardo – e... porca vacca, era Twilight quello?!

« Hai letto Twilight?! » domandò infatti, con un tono a metà fra lo sorpreso e il lievemente schifato.

« Tutti e quattro » rispose semplicemente quello, probabilmente con metà del cervello dato che l’altra metà era impegnata in contumacia a potenziare roba sul suo computer.

Arricciando il naso alla scoperta, continuò la visita visiva della libreria.

Asimov occupava quasi un intero scaffale. Quello sotto, invece, era colmo di libri sui linguaggi di programmazione, alcuni dai nomi talmente strani che cominciava seriamente a temere che fossero testi universitari.

Anzi, in realtà cominciava ad avere una certa fifa del corso di informatica che avrebbe dovuto affrontare il prossimo semestre.

Almeno aveva scoperto che l’altro non aveva fatto tutto da solo passando giorni interi al computer. Qualcosa aveva anche studiato, per riuscire a fare tutto ciò che stava mettendo in pratica sul suo computer in quell’istante.

Si lasciò sfuggire, chissà come, un lieve sorriso. « Leggi molto, vedo. Anche libri di informatica » disse così, senza particolari inflessioni di voce o volontà canzonatoria.

Tuttavia, le velocissime dita di Dan si fermarono. E ci mise un poco, per rispondergli: « già... è un buon passatempo per quelli come me che non amano la vita all’aria aperta » disse vagamente, ricominciando a ticchettare subito dopo.

Collins fece finta di niente, ma lo osservò di sottecchi. Doveva aver colpito un tasto dolente, o nervo scoperto che dir si voglia. Però resistette alla voglia di infilare più a fondo il dito nella piaga, preferendo glissare sull’argomento e passare in silenzio i cinque minuti successivi.

Tempo che fu sufficiente a Dan per terminare qualsiasi cosa stesse facendo e dedicargli, quindi, di nuovo la sua attenzione.

« Adesso hai un computer decente, Collins. Beh, desktop a parte » ironizzò con calma, allungandosi sul tavolino fino ad arrivare dall’altra parte, in cerca di chissà cosa in mezzo ai vari gadget avvenieristico-tecnologici che sembravano infestare la stanza come funghi.

Andrew evitò di rispondere alla lieve presa per i fondelli solo per una questione di gentilezza verso se stesso. Voleva evitarsi un mal di stomaco a quell’ora di notte, e soprattutto non aveva intenzione di svegliare i genitori di Dan che sicuramente, contrariamente a quest’ultimo, stavano dormendo.

Sempre che avessero la possibilità di sentirli discutere, in quella casa immensa.

Attese dunque che Dan tornasse in posizione sul cuscino, prendendo fra le mani ciò che gli passò subito dopo.

Si ritrovò a sorreggere una sottospecie di occhiali grossissimi, grigi e pesanti, collegati con un filo abbastanza resistente a quella se sembrava una presa USB. Alla stessa presa erano uniti anche i due guanti rossi in coordinato con gli occhiali e sui quali, dito per dito, si potevano vedere una miriade di fili sottili come capelli e dalle guarnizioni di diversi colori. Insieme ai guanti e al visore, aveva anche un paio di cuffie bianche e impersonali munite di microfono. Proprio come quelle che usavano le centraliniste, pensò.

« Che roba è? » domandò dunque il castano, osservando il tutto con il suo migliore sguardo accigliato.

Dan, che nel frattempo aveva indossato un set simile e si stava sistemando il guanto destro sulla relativa mano, gli rispose quasi frettolosamente: « Indossali ed accendili, lo capirai fra poco » facendo bene aderire le cuffie alle orecchie. Le sue, però, erano di un colore nero metallizzato e sopra avevano disegnato un fiore di ciliegio stilizzato. Un po’ femminili, notò, ma doveva ammettere che non erano per niente brutte.

E poi, considerato il nome che si portava addosso come una seconda pelle, erano propriamente adatte al personaggio.

Fece di nuovo opera di convincimento a se stesso. Seguendo le direttive dell’altro indossò le cuffie, mise i guanti e si calò sugli occhi quegli occhiali scomodissimi.

Non vide niente.

« Dovrebbe succedere qualcosa? » domandò quindi, utilizzando appositamente un tono seccato.

« Porta pazienza » lo riprese Sakurai, inserendo all’interno dello slot apposito un CD – riusciva a capirlo dal rumore meccanico che faceva lo slot aprendosi e chiudendosi.

Andrew sentì il disco cominciare a girare all’interno del computer, poi qualche doppio click del mouse e, finalmente, cominciò a vedere qualcosa.

E fu una scritta. Solo che non era una scritta normale, come quando si fa partire un gioco per computer e compaiono i titoli di testa con il logo della casa produttrice. Questa sembrava in 3D, anzi, sembrava reale come un cartellone pubblicitario vero e proprio.

Rimase a guardarlo a bocca aperta. Dunque era quella la realtà virtuale? Quella roba che aveva addosso, dunque...

« Segui le istruzioni ora, non dovrebbe essere troppo difficile » sentì dire da Dan, la voce leggermente attutita a causa delle cuffie. Senza nemmeno parlare, annuì semplicemente con il capo.

Ci vollero ancora alcuni secondi, poi una voce metallica – probabilmente facente parte del gioco stesso – risuonò nella sua testa come se chi la utilizzava gli stesse sussurrando nelle orecchie. Intuì subito che era per effetto delle cuffie che portava.

« Benvenuto. È la prima volta che vieni qui? »

Davanti a lui apparvero due caselle di testo galleggianti a mezz’aria, lievemente trasparenti, con le scritte “sì” e “no”. Rimanevano lì come se lui dovesse fare qualcosa per selezionarle.

« Come...? » domandò a voce, indeciso e in minima parte timoroso di fare un casino colossale. La voce di Sakurai, questa volta, gli arrivò direttamente nelle cuffie e non più dalla stanza in cui in realtà erano seduti e che lui non vedeva nemmeno per sbaglio. La sua vista era completamente impegnata in quel mondo virtuale con quei due quadratini che si aspettavano da lui una risposta.

« Sul guanto destro, nell’indice e nel medio hai dei tasti » spiegò Dan « usando il pollice clicca quello dell’indice » terminò brevemente.

Andrew seguì alla lettera le istruzioni, e fu come se avesse selezionato il “sì” della schermata, che scomparve subito dopo accompagnato da un suono cristallino tipico dei giochi in genere.

Al loro posto, apparve una barra di caricamento.

« Se provi a toccarteli, scoprirai che hai dei tasti anche su indice e medio della mano sinistra » ricominciò Dan, approfittando del momento di caricamento: « sono i tasti da utilizzare quando non si ha ancora il controllo del gioco tramite i semplici movimenti del corpo, e quelli che ti permetteranno di selezionare le varie opzioni. Per il momento usa solo quelli sulla destra, la sinistra ti servirà dopo » concluse.

Collins annuì piano con il capo, attendendo la fine del caricamento in un silenzio concentrato. Non sapeva cosa aspettarsi, ma nonostante la sua completa incompatibilità con i giochi per computer persino lui riusciva a capire che quella si prospettava essere una grandissima figata.

Una volta che la barra di caricamento fu completamente colorata, davanti a lui apparve una lista di opzioni recanti indicazioni di diverse parti del corpo. Roba come “fisico”, “capelli” e persino “viso” gli si mostrava davanti e rimaneva lì sospesa, esattamente come la scelta precedente.

« Prego, scegliere le caratteristiche del proprio avatar » disse la voce metallica, rimbombandogli gentilmente nelle orecchie.

Questa volta, però, non dovette chiedere nulla a Dan. Cercò di fare da solo, toccando man mano con il pollice i tasti sul polpastrello del guanto destro. Come se stesse muovendo un cursore invisibile, le voci che venivano selezionate si ingrandivano di un poco e cambiavano colore.

« Costruisci il tuo avatar il più possibile simile a te. Ti sarà d’aiuto per capire come muoverti » gli disse il moro, probabilmente osservando a sua volta ciò che stava facendo, anche se Andrew non riusciva a capire come o da dove, dato che non lo vedeva.

Tuttavia, come un bambino che viene messo per la prima volta davanti ad un pallone da calcio, cominciò gradualmente ad aprire ogni voce, scegliendo man mano le caratteristiche che pensava si avvicinassero ad una rappresentazione di se stesso da imprimere nel suo avatar.

Capelli castani a taglio scalato, occhi un po’ allungati, labbra sottili. Lo vestì con ciò che indossava in quel momento, ovvero un paio di jeans ed una felpa grigia con cappuccio, mettendogli ai piedi delle scarpe a tennis. Come nome, ovviamente, mise “Adrew”.

Una volta che ebbe terminato, diede l’ok e aspettò di nuovo il caricamento.

« Da questo momento, il comando vocale e il comando di movimento sono abilitati ai giocatori. Andrew e Dan, buon divertimento e benvenuti in DreamLand » annunciò di nuovo la voce del videogioco poco prima che tutto ciò che stava vedendo cambiasse rapidamente: la schermata nera scomparve, lasciando spazio ad un’altra completamente candida; il bianco puro di quello che doveva essere il cielo, o al massimo il soffito, si estendeva quasi all’infinito, fondendosi all’orizzonte con quello che sembrava un pavimento fatto di acqua dagli stessi riflessi di uno specchio.

Ipnotizzato, abbassò la testa... e vide se stesso. O meglio, vide le sue braccia e le sue gambe senza guanti di nessun genere e, specchiandosi nella superficie sotto ai suoi piedi, poté notare di avere l’aspetto che aveva scelto come avatar.

E sembrava maledettamente reale.

« Cosa diavolo...? »

« È la magia della realtà virtuale » disse una voce – quella di Dan, ormai la riconosceva anche senza collegare ad esse l’immagine del ragazzo – proveniente da poco più avanti. Alzando gli occhi, infatti, poté vederlo.

Capelli neri e lunghi raccolti nella solita coda, jeans, Converse ed una maglia nera semplice a maniche lunghe. Avanzava camminando sull’acqua come se nulla fosse, le mani nelle tasche, lo sguardo d’ambra fusa puntato dritto su di lui. O meglio... su quell’immagine virtuale di lui.

Quando si fermò, rimase in silenzio come se si aspettasse che Andrew avrebbe fatto una domanda. Cosa che, effettivamente, accadde.

« Cos’è questo posto? » domandò, osservando i dintorni tutti uguali.

« DreamLand » disse Sakurai, alzando entrambe le braccia ed indicando il bianco infinito che li circondava: « è un programma creato per far prendere confidenza con la realtà virtuale, ovvero con il set che ti ho fatto indossare. Per spiegarti i comandi, in poche parole » disse, riponendo le mani in tasca e cominciando a camminare descrivendo un cerchio intorno a lui. « Ciò che ti ho dato è un po’ il set base di un utilizzatore di realtà virtuale. Il visore per poter vedere “in prima persona” ciò che ti accade intorno, i guanti per poter riprodurre i movimenti all’interno del mondo virtuale, le cuffie per sentire e, ovviamente, il microfono per impartire gli ordini vocali al programma ».

Il castano ascoltava, concentrato ed attento. Non si sentiva seduto su un cuscino nella camera di Lance, in quel momento ogni fibra del suo corpo si sentiva in piedi in un mondo completamente illusorio fatto di bianco ed acqua su cui poteva stare in piedi, e su cui l’altro stava camminando senza problema alcuno.

Non disse nulla, continuando diligentemente ad ascoltare le parole di Sakurai. Interessato, per lo più.

Insomma, quante volte poteva capitarti una cosa del genere, anche se non si era patiti per i videogiochi? Raramente. Forse mai. Tanto valeva approfittarne.

Notando il silenzio assorto dell’altro, Dan continuò con la spiegazione. « In questo momento, sia il comando di movimento che quello vocale sono in funzione. Ciò vuol dire che il programma leggerà attraverso i sensori posti suoi guanti » e alzò entrambe le mani davanti al volto per farsi capire « ogni movimento che tu compirai con le mani. Prova a muoverle » gli disse poi.

Indeciso, Andrew le sollevò. Il movimento era del tutto naturale e sarebbe stato strano se solamente l’azione che lui sentiva effettivamente di compiere con le mani, e il movimento che il programma gli mostrava delle sue mani “virtuali”, non fosse stato in sincrono... cosa che invece era in un modo perfetto. Tanto che, ad un principiante come lui ma anche a qualsiasi esperto, sembrava di muovere le mani nella realtà vera, e non in un programma virtuale di allenamento ai comandi.

Insomma, sembrava di essere stati fisicamente catapultati all’interno di quello spazio bianco ed immenso.

« Cazzo, sembra vero... » sussurrò divertito, osservando le sue dita muoversi come su di una tastiera di pianoforte.

« In un certo senso, lo è » disse Sakurai, attirando di nuovo la sua attenzione « tu stai effettivamente muovendo le mani, in camera mia » disse, facendo poi una piccola pausa. « Ti faccio una domanda... » riprese poi: « secondo te puoi sentire dolore, qui dentro? » domandò.

L’altro si prese qualche istante, per rispondere.

« Credo di no. Dopotutto non è reale, no? » rispose dunque, sincero.

Insomma, anche se gli tirava un pugno sul naso, non essendo reale non avrebbe sentito proprio niente. A meno che Dan non avesse addosso lo stesso set dall’altra parte – Dio, come gli faceva senso dire “dall’altra parte” per indicare l’ambiente della camera di Dan rispetto a DreamLand! – e, non vedendo dove sferrava il pugno, non lo avesse colpito per sbaglio, non vedeva proprio come avrebbe potuto provare dolore per qualcosa che non lo avrebbe nemmeno sfiorato.

Dunque no, di sicuro. No.

Ma quando vide il sorrisetto di Dan, un lieve dubbio gli venne.

« Armi! » disse il moro ad alta voce, alzando la mano come per afferrare qualcosa: « pugnale! » aggiunse successivamente.

Come per magia, nella sua mano si materializzò un pugnale. Peggio: un pugnale da lancio.

Andrew non ebbe nemmeno il tempo di collegare quello che stava succedendo: prima ancora che l’idea potesse sfiorargli il cervello, Dan lanciò in sua direzione il pugnale, colpendolo alla gamba destra senza che lui avesse avuto la possibilità di spostarsi o schivarlo.

E fece un male immondo.

Lanciò un urlo, portandosi istintivamente le mani alla gamba in cui era conficcata la lama. Vedeva i suoi jeans macchiarsi di sangue sempre più, e un certo panico lo pervase quando si rese conto che il dolore diveniva man mano più intenso.

« Pezzo di merda! » gridò in direzione del moro, che lo guardava con un sorrisetto tranquillo stampato in faccia: « maledetto pezzo di merda, cosa ti salta in mente?! » urlò, quasi isterico.

Dan rise. Andrew decise sul momento che lo avrebbe fatto a pezzi talmente piccoli che sua madre, per riconoscerlo, avrebbe dovuto ricomporre il puzzle.

« Datti una calmata, Collins » disse Dan fra una risatina e l’altra: « se ti concentrerai, anche se so che per te è difficile, ti accorgerai che in realtà non ti sta facendo male » disse solamente, tornando in posa di attesa.

Non arrivò immediatamente a capire cosa intendesse l’altro con quelle parole. Prima di tutto, perché aveva il manico nero di un coltello da lancio che gli usciva da una coscia manco ci fosse arrivato da solo e, in secondo luogo, trovava effettivamente difficile concentrarsi quando la suddetta arma sembrava così realmente tutt’uno con la sua gamba.

Tuttavia tentar non nuoce e dunque forza, signor Collins. Diamo ascolto al sadico pazzo che si spaccia per liceale.

Inspirò, poi espirò lentamente. Ripeté il meccanismo un paio di volte poi, quando si sentì un po’ più in pace con il suo ego – al momento sul piede di guerra e affamato di sangue – riaprì gli occhi.

Effettivamente, se si concentrava, la ferita non faceva male. Inquietava molto ma, come aveva pensato, non essendo reale non poteva fare male.

Dovette ammettere la sua inferiorità. « Hai ragione » disse.

« Prima lezione » gli rispose quello, alzando l’indice della destra: « doppia, anzi. Primo, ti ho appena fornito un esempio di comando vocale. Siccome i tasti che hai sui polpastrelli delle dita dei guanti ti serviranno per muovere le gambe, cose come le varie opzioni, le armi, gli oggetti conquistati ecc. possono venire “evocati” tramite la voce, esattamente come ho fatto io con il coltello » una piccola pausa. « Secondo » e alzò anche il medio della stessa mano « all’interno della realtà virtuale, se vieni colpito provi dolore. Non è un dolore reale, ma il dolore in sé e per sé sta tutto nella mente: essendo la tua concentrazione completamente impegnata sul gioco, il tuo cervello assume comportamenti che fanno parte della sua abitudine e ne scatena le relative reazioni. Quindi se vieni colpito fa male, anche se non è reale e tu non sei stato ferito davvero » concluse, riprendendo lentamente e girargli intorno.

Andrew annuì e continuò ad osservarlo. Aveva capito il senso, ma davvero Dan pensava che non si sarebbe vendicato di quel souvenir che gli spuntava dalla gamba? E poi, suvvia, non c’era occasione migliore per testare un po’ la logica di tutto quello.

« Armi! » pronunciò a sua volta, alzando la mano in un punto qualsiasi dello spazio affianco a sé: « coltello! » scandì, attendendo.

Ci volle meno di un battito di ciglia. Sentì la consistenza nella sua mano di un manico in plastica, così come notò con la coda dell’occhio il luccichio della lama; senza attendere oltre, quindi, lo lanciò in direzione di Dan, che a giudicare dall’espressione lievemente accigliata era stato preso completamente – o quasi completamente – alla sprovvista.

Ma il piano così come lo aveva progettato non andò in porto. Non funzionò perché, altrettanto improvvisamente, Dan Lance non si trovava più dov’era prima... ma a cinque maledetti centimetri dal suo naso e, prendendogli il polso con la mano, gli rigirò il braccio dietro la schiena con la stessa facilità con cui si piega un foglio di carta.

Un fulmine, ecco cos’era stato. Non lo aveva minimamente visto: un momento prima stava osservando il suo sguardo sorpreso, e il momento dopo il suo braccio era dolorosamente contratto contro la propria schiena.

« Bel tentativo, ottimo uso dei comandi » commentò Sakurai da dietro di lui: « però... cosa pensavi di fare con questo coltello da marmellata? ».

« Eh? » esclamò Andrew, e questa volta quello sorpreso fu proprio lui. Quando Dan lo lasciò – probabilmente ritenendo che l’umiliazione subita con quell’improvvisata fosse stata sufficiente per quietarlo – poté effettivamente osservare... che l’ “arma micidiale” era in effettivo una normalissima stoviglia da cucina.

Lo osservò a bocca aperta come se lo stesso coltello da marmellata avesse irrimediabilmente tradito la sua fiducia.

Dan, ancora dietro di lui, ridacchiò. « È “pugnale”, non “coltello”. “Coltello” è troppo generico, può uscirti fuori di tutto » spiegò brevemente.

Il castano sospirò affranto. « E funziona così da tutte le parti? ».

« No, non sempre » ammise Sakurai, affiancandolo: « in alcuni videogiochi è necessario aprire l’intera lista, in altri alcune parole fanno comparire l’unica arma di quel tipo che si possiede. DreamLand è un po’ diverso, da questo punto di vista » fece qualche passo in avanti e alzò lo sguardo allo sconfinato cielo latteo, prima di continuare: « è stato progettato come programma per abituarsi al funzionamento della realtà virtuale, dunque all’interno di questo spazio può essere creato di tutto, sia a livello di oggetti che di paesaggi ed ambienti » disse, senza mai spostare gli occhi da quel soffitto bianco.

Detta così, nonostante la sua totale inesperienza in quel campo, almeno riusciva a capire le ampie possibilità che possedeva un giocatore usando DreamLand: era come avere fra le mani una matita e tutto ciò che lo circondava come infinito foglio bianco.

Rimasero in silenzio per alcuni istanti.

Quando il silenzio divenne talmente lungo da sembrare strano, Andrew decise che era il momento di interromperlo. « Beh, se non c’è altro io andrei a casa, domani ho lezione » disse, stiracchiandosi.

Girandosi in sua direzione come se fosse sorpreso di trovarlo lì – come se Sakurai si fosse perso con la mente in un altro mondo, un universo tutto suo – Dan annuì appena.

« Game Over » disse ad alta voce; il videogioco si disattivò da solo ed Andrew fu libero di togliersi il visore dagli occhi.

Ci mise un poco per riadattare la vista, abituata ad un bianco brillante quasi di luce propria, alla stanza con pochissima luce in cui aveva lasciato il mondo reale quando si era infilato il visore. Si massaggiò gli occhi con le dita della mano destra, cercando di far sparire quelle fastidiose farfalle bianche che gli impedivano di vedere in modo decente.

Si sentì stanco tutto d’un tratto.

« Ti lascio il set e il CD con DreamLand per la settimana. Vorrei che imparassi ad usare le funzioni base finché non ti trovi a tuo agio con i comandi » stava dicendo contemporaneamente Sakurai, spegnendo il suo portatile e mettendo tutto in una sporta con i manici di carta recuperata nemmeno sapeva in quale angolo della stanza. « Prima che tu me lo chieda, ti serve perché Unseen usa la stessa tecnologia, dunque ti ci devi abituare per poter sperare di non morire in uno dei livelli che sarai costretto ad affrontare non appena ti farò giocare con il mio personaggio » continuò Dan, passandogli la sporta.

Collins, i cui neuroni erano fritti peggio dei gamberetti che la madre gli aveva cucinato la sera stessa a cena, non fece altro che annuire. Si sentiva troppo assonnato persino per pensare a qualche cattiveria sui NERD e i reclusi, cosa che a regime normale gli sarebbe venuta in mente peggio dell’aria che respirava.

Non riuscì nemmeno a ricordare come e soprattutto quando erano arrivati prima alla porta di casa, poi al cancello. Con un moto di disgusto intrinseco, notò però che il cielo aveva una tonalità di blu più chiara...

Doveva essere notte fonda se non mattina presto. E temeva che la realtà si avvicinasse molto di più alla seconda considerazione che non alla prima.

Ma Dan non andava a scuola? Quando caspita aveva intenzione di dormire, e soprattutto quanto?

Per il suo bene, lasciò perdere qualsiasi ragionamento che poteva tranquillamente essere rimandato dopo le almeno sette ore di sonno che aveva tutta l’intenzione di prendersi, saltando la lezione o meno. Tanto avrebbe dormito in ogni caso, con la differenza che a casa avrebbe dormito su un letto, dunque molto più comodamente.

Quando Dan gli aprì il cancello, Andrew semplicemente deambulò fuori dalla tenuta Lance con tutta l’intenzione di concentrare i suoi pochi neuroni rimasti vigili sulla guida. Insomma... a casa doveva pur tornarci, in un qualche modo, e il tutto prevedeva come minimo mezz’ora di macchina. Tuttavia non si dimenticò di essere educato... più o meno.

« Beh, Lance, buona notte » biascicò « grazie mille per avermi tenuto sveglio fino alla distruzione totale di ogni mia capacità mentale » ironizzò, tirando fuori le chiavi della Ford e facendole tintinnare.

« Disse quello che ha passato due ore a farsi pestare in realtà virtuale solo perché non l’aveva mai provata » ribatté Sakurai, sagace come al solito.

Ma la materia grigia di quel tizio non conosceva mai un attimo di rincoglionimento, cosa dovuta a chiunque stia attaccato allo schermo di vari computer fino alle cinque del mattino?

Ah, già... non doveva mettere uno come Sakurai allo stesso livello degli esseri umani normali. Sarebbe stato uno sbaglio enorme. Quello era, tipo, l’imperatore dei NERD, una roba assurda...

Quando arrivò ad immaginarsi Dan Lance che rideva sguaiatamente seduto su di un trono di tastiere per computer e sorseggiava microchip senza piegare il mignolo, annuì a se stesso e alla propria idea di raggiungere il proprio letto il prima possibile.

« Beh, è stata una figata » disse, alzando la mano in segno di saluto: « ci vediamo, se proprio devi... » salutò di nuovo a voce, incamminandosi verso la propria auto. L’aria era veramente fresca, a quell’ora del mattino.

« Collins! » lo chiamò poi il moro; Andrew si girò.

« Non ti è ancora successo nulla a causa del gioco? » domandò allora il moro, rimanendo in attesa. Dall’espressione, non propriamente diversa da quella scazzata che aveva di solito, si poteva però capire che la domanda possedeva una certa importanza...

...importanza che Collins, che pareva uscito da una nube di marijuana per quanto era stanco, non arrivava a capire. « Boh, che io sappia no » rispose dunque, per la maggior parte a casaccio.

Ma Dan sembrò soddisfatto così, quindi tanto meglio.

 

 

Era arrivato a casa ad un orario assurdo come le sei meno un quarto del mattino, incontrando per il corridoio suo padre in mutande che cercava di capire quale cravatta stesse meglio sulla camicia azzurra che aveva intenzione di indossare quel giorno.

Si erano guardati un momento negli occhi: Nick con lo spazzolino in bocca e il dentifricio che minacciava di colargli sul mento, mentre Andrew con l’aria di una persona strafatta di crack. Un paio di istanti dopo, Nick gli aveva indicato la sua camera con il pollice ed Andrew, con l’ultimissimo residuo d’intelligenza rimasto integro quella notte, lo aveva mentalmente ringraziato per non aver informato sua madre, che sicuramente ne avrebbe fatto una catastrofe nazionale.

Una volta arrivato in camera, vedendo il proprio letto ancora mezzo sfatto come se fosse una sorta di visone divina, non si era nemmeno sprecato di cambiarsi, buttandosi sopra le coperte vestito e dormendo direttamente così.

Addio veglia, benvenuto mondo del sonno e dei sogni. Morfeo, guidami con saggezza sulla via del riposo. Tanto ormai era scontato che l’università lo avrebbe visto presente solo il giorno successivo, lui non aveva intenzione di aprire gli occhi prima delle tre del pomeriggio.

Cosa che, ovviamente, non successe. Alle nove del mattino, il telefono di casa prese a squillare.

La prima volta, non lo sentì minimamente.

La seconda volta, sentì solo l’ultimo squillo prima che tacesse, dunque non si sforzò nemmeno di aprire gli occhi.

La terza volta, lo ignorò bellamente.

La quarta volta cominciò effettivamente a pensare che fosse qualcuno che avesse bisogno. Aprì gli occhi, osservò la sveglia, ma si rifiutò di alzare il culo almeno finché il numero davanti ai puntini lampeggianti non avesse raggiunto le due cifre, telefono o meno.

La quinta volta decise che, però, così non era possibile.

Imprecò. Violentemente. Ma dato che quel trillo acuto era fastidioso come se non più di un muratore italo-americano che cantava “O Sole Mio” davanti alla finestra della sua camera, prese la fatidica decisione di andare a rispondere e, con uno scatto che dimostrava quanto fosse atletico, si fiondò giù per le scale.

Ovviamente fece finta di non accorgersi che un piede era nudo e nell’altro aveva ancora una scarpa.

« Pronto » sputò con astio malcelato, alzando la cornetta dopo almeno il sesto squillo.

« Ci siamo svegliati male, Collins? » disse una voce profonda dall’altra parte; non appena Andrew la sentì, la sua collera si placò di qualche punto percentuale.

« Coach? » domandò spiazzato, sorpreso di sentire la voce del suo allenatore e, soprattutto, di sentirla sul telefono di casa.

« Proprio io. Come si deve fare per parlare con te, Collins? Vuoi un invito scritto in carta bollata? Oppure devo prima chiedere il permesso al Presidente degli Stati Uniti? » domandò sarcastico l’uomo.

Non capì. « Cosa? » domandò infatti.

« Capisco. Questa mattina hai una reazione allergica all’intelligenza, eh? » ironizzò conseguentemente, per poi aggiungere, semplificando ai minimi termini: « dov’è finito il tuo cellulare, Collins? Te l’ha mangiato il cane? ».

Il cellulare? Ah, ora aveva capito. Il coach chiamava sempre sul cellulare quando aveva bisogno, solo se lì si era irreperibili arrivava agli estremi rimedi per mali estremi ed usava il numero di casa. La sera prima la batteria del suo cellulare aveva due tacche, e ripromettendosi di metterlo in carica alla fine non lo aveva fatto. Poi ci aveva chiamato il NERD per farsi aprire il cancello e, così facendo, aveva dichiarato il decesso della poca carica che la batteria aveva strenuamente mantenuto fino ad allora.

Probabilmente era sul suo comodino scarico, e dunque spento.

« Non abbiamo cani » disse Andrew, sbadigliando sommessamente: « e il cellulare deve essere scarico, stanotte non ero a casa » spiegò brevemente.

« Beata gioventù » commentò quello, per poi continuare: « beh, vedi di farti un caffè a tiratura industriale, Collins. Ti voglio nel mio ufficio fra quaranta minuti al massimo » disse, e sì, era un maledetto ordine.

C’erano due cose che mal sopportava del suo allenatore, anche se per quieto vivere evitava di palesarle in pubblico o al coach stesso.

Primo, la sua fissa di aggiungere “Collins” come intercalare ad ogni frase. Sapeva come faceva di cognome, porco immondo, non aveva bisogno di sentirlo usare alla stregua di una virgola.

Secondo, aveva la brutta abitudine di non dare spiegazioni. Perché dai, come la prende uno con due ore scarse di sonno la frase “ti voglio nel mio ufficio fra quaranta minuti” quando l’ufficio in questione è a, tipo, venti minuti da casa e nel centro esatto dell’edificio amministrativo del campus universitario?

Nel caso la domanda non fosse abbastanza retorica di per sé, la prende male.

« ...posso chiedere il perché? » domandò allora il castano, facendo forza per l’ennesima volta sulla presenza di spirito del suo lato zen. Anche se, se lo sentiva, il suddetto lato zen stava per piantargli con violenza il rastrellino su di uno stinco.

Sentì l’uomo sospirare esasperato. Tuttavia, probabilmente, ritenne la domanda abbastanza pertinente e lo graziò con una risposta un po’ più esplicativa.

« La carissima signora Rosaline ha trovato qualcosa che non va con il tuo libretto universitario. Roba leggera, tipo che se non si risolve ti togliamo la borsa di studio, cosa vuoi che sia? » ironizzò con voce leggera, e Collins e lo immaginò seduto alla scrivania del suo ufficio a fissarsi le unghie contro luce.

Lui, d’altro canto, ebbe quasi un attacco di cuore.

« Sono già lì » rispose subito Andrew, catapultandosi al piano superiore a recuperare l’altra scarpa.

« Saggia decisione » ribatté l’allenatore, riagganciando il telefono.

 

 

Nonostante Andrew fosse uno studente del primo anno, era abbastanza risaputo che fra il coach Finch e la sua segretaria Rosaline scorresse sangue amaro come il veleno.

In breve: Finch era molto bravo ad insegnare alle persone come si gioca a calcio in modo decente e ad allenarle fino al massacro fisico e mentale, ma era un completo incapace quando si trattava di burocrazia. E con il termine “burocrazia” era compreso un lasso di operazioni su carta che andavano dalla denuncia dei redditi alla semplice compilazione dell’agenda.

Motivo per cui, all’ennesimo ritardo nella consegna delle valutazioni, il Magnifico Rettore aveva saggiamente deciso di assumere Rosaline.

Con un nome del genere, ti aspetteresti una persona gentile e posata, con un paio di occhialini da professionista e un chignon ben stretto sulla nuca, magari corredato da un sorriso gentile ed un ordine invidiabile. Sì.

Peccato che il nome completo di Rosaline fosse “Rosaline Agnese Maria Sánchez”, che fosse spagnola di nascita, che portasse una quinta di seno bene in vista stretta in un corpetto nero con pizzo in coordinato e che, almeno si vociferava, avesse partecipato per ben dieci anni di fila alla corsa dei tori di Pamplona. Insomma, se sapeva prendere i tori per le corna... era stato detto tutto.

Parlava fluentemente la loro lingua, essendo vissuta in America per ben 17 anni, ma essendo di origini ispaniche aveva la bruttissima abitudine di sfogare la rabbia nella propria lingua madre.

Il che significava, con uno come Finch alla porta accanto ogni santo giorno, che raramente si sentiva Rosaline parlare in inglese.

Quando Andrew entrò trafelato all’interno del dipartimento di Scienze Motorie – un nome figo per dire che quello era l’ufficio dei vari coach del campus, dal nuoto al basket al calcio al football – non era una giornata diversa dal solito.

« Maldecido a oportunista! » sbottò la donna con malagrazia dall’ufficio del coach: « yo curro cada día por poco dinero y él también tiene el ánimo de quejarse de mi trabajo! ».

« Lingua, Rosa! LINGUA! » rispose Finch a voce altrettanto alta: « se parli in quel cazzo di spagnolo non ci capisco un tubo! Parla come mangi! ».

« E tu mangia de meno, sottospecie de vacca indiana! » ribatté la donna con forte accento spagnolo: « los bocadillos que te llevo del comedor podrían saciarse el tercer mundo! Y paras de llamarme a “Rosa”! » detto ciò, uscì sbattendo la porta a vetri.

Andrew rimase per qualche istante a guardarla, in piedi sulla porta con un fiatone considerevole. Praticamente era volato lì e, a testimonianza della fretta, aveva ancora fra le mani le chiavi della Ford.

Sistemandosi attentamente la maglietta, poi, Rosalina si rivolse a lui. « Avevi bisogno de qualcosa? » gli domandò, ora gentile e cordiale come solo una buona donna poteva essere.

A vederla non si sarebbe detto, ma sentire la potenza insita al suo spagnolo dava seriamente a pensare che venisse direttamente dai peggiori bar di Caracas.

« Sono stato chiamato circa mezz’ora fa per dei documenti che... »

« Ah, sì » lo interruppe quasi subito, sedendosi alla scrivania ed estraendo un foglio da un ordinatissimo contenitore di plastica blu: « Collins, giusto? Accomodate pure, el professore te spiegherà todo » disse, indicandogli la porta. Poi, improvvisamente, urlò: « Profesor! Hay el señor Collins por ti! »(3).

« Lingua, maledizione! » urlò Finch da dentro l’ufficio e, nonostante non gli avesse dato l’avanti – probabilmente perché non aveva capito niente di quello che aveva urlato Rosaline – la donna gli fece comunque segno di entrare, cosa che fece subito.

« Coach, sono qui » si annunciò.

« Collins! Alla buon’ora. Entra pure e chiudi fuori quell’arpia » disse, facendo un gesto vago con la mano in direzione della porta. Andrew obbedì, chiudendo fuori la successiva cascata in lingua spagnola che invase l’anticamera dell’ufficio.

« Siediti » gli disse Finch, indicandogli una delle sedie davanti alla scrivania.

L’ufficio del coach Finch era più o meno come tutti quelli degli altri allenatori: targhe, medaglie, coppe. Fotografie. Una pianta di ficus che dava l’idea di morire disidratata da un giorno all’altro. Un riproduzione in scala 1:10 della Coppa del Mondo in vernice dorata e, appeso alla parete di fianco, un biglietto della finale di Coppa del Mondo del 1994, quando la nazione ospitante erano gli Stati Uniti. Ma la cosa più inquietante era la parete alla sinistra dell’entrata, su cui facevano mostra di sé le fotografie di ogni squadra allenata da Finch in perfette file parallele e in maniacale ordine cronologico anno per anno. E la prossima sarebbe stata la loro, inesorabilmente.

Andrew cominciava a farsi l’idea che quell’uomo fosse un tantino fissato.

L’unica cosa che fortunatamente staccava un po’ erano i due quadretti ben ritti in un angolo della scrivania disordinata e piena di riviste di sport e calcio, uno raffigurante lui e la moglie e l’altro con la fotografia di una bambina con due fiocchi rosa nei capelli. La figlia, probabilmente.

Cioè... qualcuno aveva avuto il coraggio di sposarlo e procreare la sua prole?!

« Collins, ti ho chiamato perché abbiamo riscontrato un problema nei dati del tuo libretto, dunque nella verbalizzazione degli esami » cominciò a dirgli Finch, distogliendolo dalla fantasia e richiamandolo alla realtà.

« Rosalina ha notato che la media dei voti dei tuoi esami non soddisfa i requisiti per la borsa di studio che ti è stata data. Tu sai benissimo che ti è concessa solo se la media totale degli esami supera la B, giusto? »(4) domandò seriamente, appoggiandosi con la schiena alla poltrona e intrecciando le mani sul ventre.

Oh, certo che lo sapeva. Ma lui era rimasto ad un punto precedente del discorso...

« Non supera la B? » chiese stranito, spalancando la bocca per la sorpresa. « Coach, io su quattro esami dati ho preso una A, due B+ e una B. È matematicamente impossibile che la media non superi la B! » disse, prendendo coscienza solo in quel momento di quanto profondamente affogato in un lago di panico e sudore freddo si fosse improvvisamente ritrovato.

C’era un motivo se aveva preferito la borsa di studio per meriti sportivi alla frequentazione standard del college: la retta era salata. Il motivo era semplice. E nonostante la sua famiglia avesse un reddito anche di un poco sopra la media, suo padre andava al lavoro in autobus e sua madre in treno. Solo lui aveva l’onore di possedere un’auto che potesse meritare quell’appellativo, dato che suo padre era sentimentalmente legato a quel Minivan azzurro cielo scassato ed incidentato, la cui unica utilità sarebbe stata quella di essere rottamato e ridotto ad un cubo di lamiera. Diceva che gli ricordava i suoi anni migliori, ma Andrew era convinto che gli anni migliori di quel Minivan fossero finiti ormai da mezzo secolo. Il che la diceva lunga.

Inoltre, ultimamente il mercato del pesce non andava alla grande, e suo padre praticamente viveva di quello, essendo vice responsabile di una ditta d’import/export del pescato.

Non aveva semplicemente il fegato di chiedere ai suoi genitori una retta astronomica per farlo studiare, anche se probabilmente entrambi sarebbero stati più che bendisposti di pagargliela. Si era guadagnato la possibilità di avere gli studi pagati per la maggior parte grazie alla sua abilità di essere un campione del calcio e non aveva la minima intenzione di rinunciarvi. Soprattutto per un dannatissimo errore amministrativo!

Aspetta. Errore... amministrativo?

« Collins, hai il libretto cartaceo, giusto? » chiese nel frattempo Finch, ma non ottenne nessuna risposta immediata.

Errore... ne era veramente sicuro?

« Collins! » lo chiamò il coach all’attenzione, facendolo sobbalzare. « Su che pianeta sei? » ironizzò spazientito.

« S-Sì... » annuì allora alla domanda, estraendo il libretto dalla tasca del giubbotto ed allungandolo all’allenatore. Quello osservò i voti verbalizzati e, con un sopracciglio inarcato, guardò prima le pagine del libretto e poi Andrew.

« Beh, suppongo sia stato un errore della Segreteria Didattica » disse poi, restituendogli il libretto: « ci penserà Rosalina ad avvertirli, tu vai a casa e aspetta notizie, ma non credo che dovrai preoccuparti più di tanto. Ci sarà stato sicuramente qualche imbecille che ha cliccato il tasto sbagliato al computer » commentò sbadatamente.

Ma fu quello stesso commento che fece scattare la scintilla definitiva ad Andrew. Così come gli proiettò in mente una frase, anzi... una domanda.

“Non ti è ancora successo nulla a causa del gioco?”

Possibile? Possibile che avessero già colpito, chiunque fossero i pazzi scatenati che si divertivano a sparare proiettili anti-sommossa a sera tarda? Possibile che quello fosse una sorta di avvertimento?

“Sappiamo chi sei e cos’hai intenzione di fare. Attenzione a quello che fai”.

Uscendo dall’ufficio in un cupo silenzio, il castano si fermò per un secondo nel centro esatto del vialetto. Nei giardini del campus erano pochi gli studenti che leggevano o chiacchieravano seduti in circolo sull’erba, dato che la maggior parte di loro era probabilmente a lezione.

Alzò gli occhi verso il cielo limpido di quella mattina e, quando un raggio di sole lo colpì direttamente in viso, dovette forzatamente abbassare gli occhi.

All’inizio aveva pensato che Sakurai, alias Dan Lance, fosse preda di una qualche crisi delirante.

Ora che, secondo una sua teoria finora alquanto astratta, il gioco aveva cominciato ad influire sulla realtà, non era più sicuro che scherzasse.

Così come non era più del tutto convinto di volere immischiarsi in questa storia.

 

 

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1. La “NERV” (si legge “nerf”, in tedesco significa “nervo”) è la famigerata organizzazione a difesa dell’umanità del manga “Evangelion” di Yoshiyuki Sadamoto. La scritta maiuscola rossa con la mezza foglia di acero è il suo logo.

2. Credo che tutti sappiano chi è Bill Gates, ma nel caso... è il proprietario della Microsoft. Steve Jobs, invece, è il fondatore della Apple.

3. La traduzione di ciò che dice Rosalina XD in ordine testuale:

« Maledetto opportunista! » (...) « io lavoro ogni giorno per pochi soldi e lui ha anche il coraggio di lamentarsi del mio lavoro! »

(...) « i panini che ti prendo dalla mensa potrebbero sfamare il terzo mondo! E non chiamarmi "Rosa"! »

« Professore! C'è il signor Collins per te! »

4. Nei college americani i voti non vengono formulati con i numeri, ma con le lettere. A è il massimo, F l'insufficienza. Praticamente, l'A+ sarebbe il nostro 30 e lode.

 

E finalmente il capitolo 4 è stato partorito. Potrei piangere di commozione ma, ahimé, forse è meglio di no ;D

Siccome è passato più di un anno (sì, sì, mi fustigherò) dall’ultimo capitolo inserito di Sakura Wars, per questa volta ho pensato di non stare qui a rispondere ai commenti ricevuti. Non avrebbero molto senso, no? XD

Inoltre EFP si è digievoluto e adesso da la possibilità di rispondere direttamente ai commenti. Nonostante io sia fan delle risposte all’antica, ovvero quelle scritte a fine capitolo, credo proprio che mi evolverò a mia volta e per i prossimi capitoli risponderò direttamente utilizzando le funzioni del sito. Almeno posso farlo subito senza aspettare di aver scritto altre 10 pagine di Word X°D

Ringrazio comunque sentitamente le persone che commentarono – e hanno commentato anche in tempi più recenti ;D – il precedente capitolo, ovvero Leliwen, Shichan, AcchanBaka, Isy_264, CloudRibbon e Gioielle.

 

Beh, al prossimo capitolo! <3

   
 
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