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Autore: Lady Yoritomo    31/07/2011    2 recensioni
Può l'odio per il proprio nemico mortale tramutarsi in amore? E può succedere dopo che si sacrifica la propria vita per ucciderlo? Jill Valentine non credeva possibile tutto questo, nel momento in cui si è buttata dalla finestra di Villa Spencer trascinando con sé Albert Wesker... ma lentamente, nel periodo trascorso alla mercé del suo aguzzino, si renderà conto che si sbagliava. E da quel momento in poi, il carceriere diventerà liberatore e quelli che aveva creduto suoi amici saranno i suoi nemici.
Ovviamente JillxWesker. OOC dopo un certo punto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albert Wesker, Jill Valentine
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9
“Piano lessons” – Jill
 
Ho dormito malissimo, stanotte. Nonostante il morbido piumone che mi ha protetta dal freddo, il cuscino in cui mi sembrava di affondare, il profumo di lenzuola pulite e la quiete che permeava la stanza, non ho chiuso occhio. Continuavo a guardare di fronte a me la sagoma del pianoforte al quale ti ho visto seduto e a pensare a tutto quello che è successo dal mio risveglio. Dovevo essere morta e non lo sono. Dovevi essere morto con me e non lo sei. Dovevo odiarti… e ora non so cosa mi prende. Il mio passato ha continuato per tutta la notte a stuzzicarmi, proponendomi immagini e ricordi che credevo di aver nascosto in un cantuccio segreto della mia mente in cui non avrei mai più potuto ritrovarli.
Il tempo mi scorreva addosso come acqua mentre vedevo il buio farsi lentamente luce dalla piccola finestra alla destra del mio letto. I ricordi, anch’essi come una cascata, mi hanno inondato la mente, ora rischio di annegarvi dentro.
Deve essere mattina presto quando la porta della mia stanza si riapre e ricompari tu. Niente cassetta del pronto soccorso, stavolta, niente sorrisetto sarcastico, solo il tuo volto impassibile ed i tuoi occhi luminosi che mi squadrano con attenzione. Il silenzio si fa pesante mentre mi sollevo a sedere e cerco di sostenere il tuo sguardo con aria di sfida. Non so cosa ti passi per la testa, a dire il vero non so nemmeno cosa passi per la mia, ma una cosa è certa: non mi vedrai aver paura. Non ti temo, Wesker.
«Buongiorno.» mi saluti. Il tuo tono sembra neutro, così come l’espressione sul tuo viso. «Dormito bene?»
La tua domanda mi strappa un risolino: probabilmente stai cercando di iniziare una conversazione, ma non sono più abituata a sentirti proferire frasi del genere. Sentire l’assassino dei miei compagni che mi domanda se ho dormito bene mi agghiaccia e insieme mi diverte.
«Sì.» mento. Non voglio che tu sappia della mia debolezza. Potresti approfittartene… di più di quanto tu non stia già facendo.
«Bene.» mi rispondi. Ti avvicini al letto e mi aiuti a scendere. Oggi mi reggo già meglio in piedi, ma ho comunque bisogno di appoggiarmi al tuo braccio, cosa che non manchi di farmi notare con tono divertito. Nonostante il lieve sorriso che ti increspa le labbra, non sembra che tu voglia schernirmi… potresti togliermi l’appoggio e guardarmi cadere per ricordarmi quanto ora tu sia vitale per me, ma non lo fai. Oggi non sembri intenzionato a rammentarmi la tua grandezza, né ad umiliarmi. La cosa mi inquieta più che se ti avessi visto arrivare armato di strumenti di tortura.
«È ora che recuperi l’uso degli arti, Jill.» mi dici. «Oggi comincerai con le mani.»
Non ho idea di che esercizio tu abbia in mente per farmi riprendere dall’atrofia alle dita, ma qualsiasi cosa mi va bene, basta che dopo mi obbediscano di nuovo. Ti rivolgo un’occhiata veloce e tu mi indichi il pianoforte con un cenno della testa. Noto che ci sono due sgabelli davanti ad esso e sento che mi stai indirizzando verso uno dei due. Mi siedo, sempre sentendo le tue mani e le tue braccia che mi vengono in aiuto lì dove non riesco a muovermi bene, poi alzo le braccia con fatica e appoggio le mani sui tasti. Non mi ci vuole molto per ritrovare dimestichezza con la tastiera, ma le mie dita non vogliono saperne di rispondermi. Tu nel frattempo ti sei seduto al mio fianco, sento chiaramente la tua gamba contro alla mia e il tuo gomito che tocca leggermente il mio.
Cominci a suonare, con calma e metodicità. Riconosco subito la melodia: "Moonlight Sonata". Beethoven è sempre stato il tuo preferito, non è vero? Suoni senza staccare gli occhi dalla tastiera, sembri completamente assorto. Noto la dolcezza con cui tocchi i tasti, una dolcezza di cui credevo che le tue mani non fossero più capaci da molto, molto tempo. Quelle mani hanno ucciso centinaia di persone e condannato alla corruzione altrettante, eppure io riesco ancora a ricordarmi quando mi accarezzavano il viso. Quella dolcezza, una volta, la riservavi a me.
Lentamente, con grande sforzo, comincio anch’io a muovere le dita sui tasti. Comincio supportando la tua melodia con pochi e semplici accordi, di quelli che non mi richiedono di muovere molte dita contemporaneamente. Mi inserisco lentamente, a stento, sbagliando di tanto in tanto i tasti a causa delle dita intorpidite, ma tu non batti ciglio ai miei errori, continui a suonare imperterrito, a volte chiudendo persino gli occhi, come a voler godere da solo della tua melodia. Di tanto in tanto ti sbircio di sottecchi, sollevando lo sguardo dalla tastiera e rischiando di steccare pesantemente, ma non posso farne a meno. Vederti così assorto, così sereno, mi ricorda i bei giorni trascorsi insieme. Non c’è nemmeno il bagliore dei tuoi occhi da rettile a ricordarmi che non sei più il mio capitano, ma un Albert Wesker nuovo e pericoloso.
Continuiamo a suonare a lungo, per un periodo che non riesco a quantificare. Tu non sembri volerti fermare, quindi neanche io arresto il movimento delle mie dita. Lentamente, sento che stanno tornando a rispondere ai miei comandi e posso finalmente passare, con timida reverenza, all’esecuzione di accordi più complessi. Le note sbagliate diminuiscono, i miei accordi si mescolano alla tua melodia, finché ogni nota non risulta perfetta. Mentre continui a suonare, un sorriso ti attraversa le labbra e, per un attimo, mi pare che le tue sopracciglia perennemente aggrottate si distendano. Di nuovo, l’immagine di te che avevo in passato torna a sovrapporsi a quella di te che ho adesso. Il mio capitano, l’assassino. L’uomo che amavo, il mio peggiore nemico. Non capisco più quale dei due tu sia.
Quando finalmente terminiamo di suonare, dopo quelle che mi sono parse ore senza fine, ho recuperato perfettamente l’uso delle dita e tu mi sorridi. Non un sogghigno, non un sorriso intriso di sarcasmo. Un sorriso incoraggiante, quasi dolce, in cui però stonano, come una nota sbagliata nella melodia che abbiamo suonato insieme, i tuoi occhi. Inumani, luminosi di un bagliore arancione, così inquietanti da farmi correre un brivido lungo la schiena anche nel momento in cui mi ero sentita riscaldare il cuore dalla tua espressione.
Non sembri notare la mia inquietudine, o forse non ti interessa.
«Brava.» mormori. Niente di più, non una parola di troppo, che mi faccia capire cosa stai pensando. Mi aiuti ad alzarmi e mi riaccompagni a sedere sul letto. Fuori dalla finestra, la luce del sole si è fatta più intensa, probabilmente è mattino inoltrato. Abbiamo veramente suonato per alcune ore.
E, nonostante i miei propositi di odio, è stato meraviglioso.
  
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