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Tutti i dignitari, i comandanti e i
condottieri lasciarono velocemente la stanza senza che Nobunaga dovesse neppure
scomodarsi ad ordinarglielo.
L’ultima ad
andarsene fu Nohime, che non mancò, subito prima di
fare l’inchino al marito e chiudersi la porta alle spalle, di rivolgere alla
principessa un’ultima occhiataccia.
Subito fuori della
stanza, ai piedi della scalinata di legno che vi consentiva l’accesso, si formò
un piccolo assembramento di persone, tutte ugualmente sorprese per
l’eccezionalità dell’evento; era da quando si era sposata che lady Oichi non
metteva piede al castello.
I più preoccupati
sembravano Iayasu e Hideyoshi; Ieyasu, da acuto
stratega quale era, intuiva che probabilmente dietro a questa mossa del suo
signore vi era l’estremo tentativo di causare l’ennesima guerra e scongiurare
la minaccia di un conflitto civile all’interno degli alleati degli Oda.
«Se gli Azai
dovessero infrangere l’alleanza, altri potrebbero seguirli.» disse quando gli
fu chiesto di esporre la propria opinione «E la rete di alleanze che il nostro
signore è riuscito a costruire in anni di fatiche e di intese politiche
minaccerebbe di andare in pezzi».
L’intuizione di
Ieyasu si rivelò essere corretta.
Rimasti soli nella
stanza Nobunaga e Oichi stettero a lungo in silenzio, lui in piedi e di spalle
e affacciato dalla finestra che dominava tutta la città lei inginocchiata ai
piedi dello scranno con lo sguardo basso e le mani poggiate sulle ginocchia.
Sembravano così
diversi, e allo stesso tempo così simili; stessi occhi scuri, stessi capelli
neri, ma se Nobunaga trasudava di vigore e di spirito guerriero, Oichi al
contrario emanava un’aura come di mistero, un che di mistico che rendeva il suo
fascino ancor più magnetico.
Uomini e dignitari
dei quattro angoli del Paese avevano offerto mari e monti alla famiglia Oda per
averla in sposa, e invece Nobunaga, che in quanto fratello e unico consanguineo
aveva su di lei un’autorità quasi assoluta, l’aveva data in moglie a Nagamasa,
l’unico che non glielo avesse espressamente chiesto.
A Nobunaga era
sempre piaciuto quel ragazzo; un grande guerriero, ma soprattutto un giovane di
nobilissimo animo, gentile e cortese, educato secondo le più antiche e nobili
tradizioni. Proprio per questo lo aveva voluto al suo fianco, offrendogli la
propria sorella in sposa per rendere l’alleanza con lui qualcosa di più
profondo rispetto a ciò che lo legava alla maggior parte degli altri daimyo suoi alleati o vassalli.
Proprio per questo
voleva evitare che si arrivasse ad una guerra; quel ragazzo gli piaceva troppo,
e non sopportava l’idea di vederlo buttare via la sua vita in quel modo, prima
di aver fatto quelle cose grandi e memorabili che era destinato a fare.
Ma c’era un’altra
ragione, più politica e di convenienza; se proprio Nagamasa, il suo fratello di
matrimonio, si fosse schierato contro di lui, molti altri avrebbero potuto
imitarlo, gettando le basi per una vera e propria guerra civile interna
all’alleanza degli Oda.
Oichi era il
collante che teneva Nagamasa legato a lui, e allo stesso tempo era sia il
braciere che alimentava la fiamma del suo nobile spirito sia la catena che lo
imbrigliava, impedendogli di espandersi più del dovuto così da spingerlo sulla
brutta strada o a compiere azioni che potessero ferire la sua amatissima
moglie.
O almeno, questo
era quello che Nobunaga sperava.
«È passato molto
tempo, sorella.»
«Molto, fratello.
L’ultima volta è stato al mio matrimonio, alla fortezza di Odani.»
«Mi mancano molto
le verdi pianure di Omi, e l’aria pura di Odani. Mi piacerebbe tornarci uno di questi giorni.
E il mio amato
fratello di matrimonio come sta?»
«Abbastanza bene,
fratello. Negli ultimi tempi ha molti pensieri.»
«Anche io sono
stato molto impegnato».
Seguì una lunga
pausa, carica di tensione; Oichi guardò in basso, verso le proprie mani
appoggiate sulle ginocchia, Nobunaga invece cercò di seguire con lo sguardo i
rapidi movimenti di un passero che volteggiava nel cielo eseguendo maestose
acrobazie.
«Tu lo sai perché
ti ho mandata a chiamare, vero?».
Oichi abbassò
ancora di più gli occhi e non rispose, almeno non a parole. A quel punto
Nobunaga si volse verso di lei, si avvicinò e si inginocchiò, così che furono
viso a viso.
Lei lo guardò come
stranita; probabilmente era l’unica persone con la quale il potente signore
degli Oda si abbassava a fare una cosa del genere.
«Nagamasa è un
guerriero di valore. Un uomo di sani principi, che dà uguale valore tanto
all’onore per sé stesso e il suo clan quanto all’amore per la sua sposa.
Non posso
permettere che un uomo di sì fatta grandezza, destinato a compiere imprese memorabili,
venga condotto alla rovina per una stupida alleanza sancita dai suoi antenati.»
quindi le sfiorò il mento, sollevandolo perché lo guardasse «Tu non lo vuoi,
vero? Non vuoi che Nagamasa abbia a pagare per colpa di un vile senza orgoglio
come Yoshikage Asakura».
Oichi non replicò,
troppo provata e confusa per poterlo fare.
Nonostante il
matrimonio con Nagamasa le fosse stato imposto amava sinceramente il suo sposo,
e lui amava lei. Ma non era una sciocca; sapeva bene che suo fratello l’aveva
fatta sposare solo per cementare un alleanza, e non certo perché tenesse a
vederla maritata con l’uomo migliore del Paese.
Tuttavia, questa
era una cosa che non le importava; essere al fianco di quell’uomo così gentile
e premuroso, esserne la sposa, era un dono per il quale ringraziava ogni giorno
gli dèi, e avrebbe dato qualsiasi cosa, compresa la vita, per saperlo al
sicuro.
«Lui ti ama più
della sua stessa vita, sorella. Non farebbe mai niente che andasse contro il
desiderio e le suppliche della sua amatissima moglie.
Tu devi farlo
ragionare. Con il tempo e le parole posso fare in modo che la sua alleanza con
gli Asakura venga infranta, ma devo essere sicuro che, almeno per ora, non farà
niente di stupido.» quindi Nobunaga si alzò, tornando a sedere sul suo scranno
e ridiventando così il potere signore di Owari
«Proteggilo, Oichi. Fa che la sua giovane vita non sia destinata a spegnersi
così presto.»
«Se questo è il
vostro desiderio, fratello.» rispose lei prostrandosi leggermente «Io lo
esaudirò».
Poco dopo la portantina
di lady Oichi lasciò il castello scortata da un manipolo di guardie e dalla
fedele dama di compagnia della principessa; Hideyoshi e Ieyasu la osservavano
dal torrione che dominava l’ingresso.
«Che ne dici?»
domandò Ieyasu
«Dico che per un
po’ possiamo smettere di preoccuparci di Nagamasa. Lady Oichi forse non se ne
rende conto, ma quell’uomo è come fango nelle sue mani. Lord Nobunaga questo lo
sa, e ha dimostrato di saperne trarre vantaggio.»
«Secondo me state
sopravvalutando troppo quella ragazzina. Così come state sottovalutando
Nagamasa. Un paio di occhietti e un viso da dea in terra non lo tratterranno a
lungo dal fare ciò che potrebbe ritenere giusto.»
«Forse. Ma questo
in ogni caso non fermerà il nostro signore. Se alla fine Nagamasa dovesse scegliere
di impugnare le armi contro di noi, lo farà a proprio rischio e pericolo».
Ieyasu guardò
Hideyoshi molto male, quasi con astio. Per un uomo d’onore come lui, pur con
tutti i suoi difetti, appariva sconveniente e vergognoso che si manipolasse a
proprio piacimento una persona ingenua e buona d’animo come la principessa
Oichi in un modo tanto spregiudicato.
D’accordo che
questo avrebbe permesso di evitare una guerra, anche se solo per poco, e di
questo ne era sicuro, ma anche così non riusciva ad accettarlo.
«Dove vai?» domandò
Hideyoshi vedendolo andar via
«Torno a Mikawa. È tanto che manco dalle mie terre. Ho voglia di
rivedere la mia famiglia.»
«Come sta tuo
figlio Nobuyasu? Quanti anni ha?»
«Nove anni. Sta
bene. E un giorno sarà un guerriero valoroso tanto se non più di suo padre.»
«Non ne dubito.»
disse tra sé Hideyoshi rimasto solo.
Ieyasu, seguito
dalla propria scorta, abbandonò quindi Nagoya dirigendosi a nord, verso i suoi
domini, fermandosi per la notte in una radura aperta non lontano da un piccolo
villaggio al limitare del dominio degli Oda.
Aveva molti
pensieri per la testa. Tentò di scacciarli con un po’ di esercizio, impugnando
la spada di suo padre e maneggiandola con incredibile maestria.
Se ripensava alla
sua vita, si sentiva un verme.
La sua famiglia,
per quanto antica e ricchissima, governava su di un feudo molto piccolo,
circondato da potenziali nemici ingordi e ambiziosi. Per proteggere la propria
gente, aveva giurato fedeltà a Imagawa Yoshimoto, che a quel tempo sembrava il più potente signore
della guerra in circolazione. Ma poi Yoshimoto era
stato sconfitto e ucciso ad Okehazama, e a Ieyasu non
era rimasta altra scelta che implorare la clemenza di colui che era stato
l’artefice della morte del suo signore, un ragazzino sbucato dal nulla:
Nobunaga Oda.
A dire la verità,
Nobunaga gli era piaciuto fin dall’inizio; un ragazzo sveglio, con una mente
acuta e una forte predilezione per la raffinata strategia militare, proprio
come lui. Forse anche Nobunaga pensava la stessa cosa, infatti lo risparmiò e
lo prese al suo servizio, facendone uno dei suoi più stretti collaboratori.
Ma a Ieyasu questo
non bastava.
Non si accontentava
di essere un secondo, un servitore, come suo padre e suo nonno.
Lui voleva di più.
Aveva in mente
tante cose per portare unità e pace nel Paese, cose grandiose, e sapeva che mai
avrebbe potuto compierle fino a che fosse vissuto all’ombra di qualcun altro.
Tuttavia, le sue
aspirazioni di gloria e di rivalsa non pregiudicavano il senso di lealtà che lo
legava al suo signore; solo, a differenza della maggior parte dei vassalli
degli Oda, sentiva che avrebbe potuto fare grandi cose anche da solo. E semmai
un giorno il cielo avesse voluto accordargli un’occasione, l’avrebbe colta
immediatamente. Di questo era sicuro.
Riposta la spada si
preparò per dormire.
«Hanzo.» disse prima di entrare nella tenda
«Sì, mio signore?»
rispose Hanzo Hattori
sbucando da un angolo buio.
Come tutti gli shinobi, i suoi occhi sembravano vuoti, senza vita, mentre
il resto del volto era coperto dalla maschera scura che indossava, e che gli
permetteva di aggirarsi nella notte più nera come un fantasma invisibile,
oscuro messaggero di morte per i nemici del suo signore.
Eppure, c’era
qualcosa di strano, di diverso in lui; per quanto vuoti, i suoi occhi non
sembravano completamente spenti, come se sotto quel guscio vi fosse ancora un
cuore capace di battere.
«Tieni d’occhio la
principessa Oichi e gli Azai.»
«Come desiderate.»
«Nobunaga e Hideyosh credono di aver messo il bavaglio a Nagamasa, ma
secondo me sono solo due ingenui. È la tigre in gabbia quella maggiormente
imprevedibile».
Hakuba
Aprile
1569
Iguro aveva finalmente cominciato a
comprendere il significato di tutti quei massacranti quanto insoliti
allenamenti, ma gli ci era voluta una lezione coi fiocchi per riuscirci.
All’inizio non
riusciva a capire cosa servisse tutto ciò che veniva costretto a fare con il
diventare un vero assassino.
Ogni mattina,
spesso anche prima dell’alba, iniziavano le sue giornate, fatte di allenamenti
al limite dell’umano, e a volte talmente strani e apparentemente inutili che
gli veniva da domandarsi a cosa mai potessero servire.
Oltre alla corsa,
gli esercizi che Magoichi gli imponeva comprendevano
il correre su e giù per le scale del tempo, guadare fiumi, nuotare avanti e
indietro senza mai fermarsi, restare fermo e cercare di schivare i sassi che
tutti i bambini del villaggio gli tiravano dietro, trascinare enormi pesi per
tutta la foresta servendosi solo della forza delle spalle e passare giorni
interi appeso al ramo di un albero a testa in giù.
La corda della
sopportazione per quella specie di incubo si era tesa fino al punto da
spezzarsi, e un giorno Iguro, distrutto dall’ennesima corsa al limite dello
svenimento e provocato dalle parole sprezzanti di Magoichi
sulla sua dubbia bravura, nonché discendenza dal sangue del suo eroico padre,
quale esso si volesse considerare tale, il ragazzo era infine sbottato.
«Ne ho abbastanza
di tutto questo! Ne ho abbastanza dei tuoi ridicoli allenamenti, dei tuoi
insulti, delle tue provocazioni, di tutto il resto! Sono stufo di essere
bastonato, provocato, insultato! Stufo di svenire sulla strada, di correre
tutto il giorno con niente nella pancia, di giocare a fare il bersaglio per i
sassi, di trasportare vecchi avanti e indietro dal tempio!
Basta! Basta!».
Di tutta risposta Magoichi gli aveva puntato contro il suo archibugio, con
tanto di baionetta innestata sotto.
«Se è così che la
pensi, non ha più senso per te rimanere.» e aveva preso a lanciare un affondo
dietro l’altro.
Iguro, spiazzato,
aveva capito subito che il suo maestro non stava scherzando, ma era talmente
scosso che l’unica cosa che gli riuscì di fare tu tentare di schivare i colpi.
E fu a quel punto
che se ne accorse; al villaggio, subito dopo che quella foga di uccidere lo
aveva abbandonato, era ridiventato un semplice contadino, vulnerabile e
indifeso. Ora invece, e senza che la foga ci mettesse del suo, riusciva ad
opporsi agli affondi e agli altri colpi di Magoichi
con una certa facilità. Non solo riusciva a schivare ogni attacco, ma per
confondere l’avversario compiva notevoli acrobazie, come abbassarsi al volo,
strisciare sul terreno come sul ghiaccio e compiere salti altissimi servendosi
degli alberi come di un trampolino.
Mesi di allenamento
apparentemente insensato lo avevano invece temprato fin nel profondo; le gambe
e le braccia erano diventate forti, le ossa resistenti, i muscoli elastici e i
riflessi allenati.
Accortosi dello
sguardo del suo allievo, Magoichi si era alla fine
fermato, e poggiatosi l’archibugio sulla spalla era tornato a sfoggiare quel
sorriso provocatorio e ammiccante che Iguro aveva visto la prima volta.
«Capisci adesso?
Niente di ciò che hai fatto negli ultimi sei mesi è stato inutile.»
«Io… io non me ne rendevo conto.»
«Direi che come inizio
non c’è male. Ma c’è da lavorarci ancora su».
Da quel giorno
Iguro aveva cominciato a considerare l’allenamento con altri occhi, ma ciò non
toglieva che tutti quegli esercizi restavano qualcosa di inumano, capaci di
privare di ogni energia anche il più reattivo e perseverante degli uomini.
Un pomeriggio, il
ragazzo riuscì a tornare a casa un po’ prima del solito dopo aver corso per
otto chilometri, nuotato per tre, camminato nell’acqua per uno e trasportato
vecchi semi-paralizzati su e giù dal tempio per quattro o più. Quel giorno,
stranamente, Magoichi non lo aveva seguito, delegando
l’incarico a uno degli altri maestri del villaggio, se possibile ancor più
sadico di lui, e Iguro sentiva di non avere più un solo briciolo di forza in
tutto il corpo.
«Non ce la faccio
più.» disse crollando letteralmente sul tatami «Se muovo un altro passo, mi
romperò come un vaso».
Stava quasi per
addormentarsi quando, vanificando sul nascere la sua speranza di trascorrere in
tranquillità quanto restava della giornata, un altro discepolo bussò alla
porta.
«Magoichi-sama vuole che tu vada alla villa. Deve parlarti
con urgenza.»
«Arrivo.» rispose
lui sconsolato.
Chissà cosa voleva Magoichi. Forse lamentarsi del suo scarso rendimento e
appioppargli del lavoro extra per il giorno dopo; non sarebbe stata la prima
volta.
Con l’umore a pezzi
Iguro raggiunse la villa, facendo appello a tutte le forze che gli restavano
per salire e spalancare il portone; non vi era più tornato da quel giorno, il
giorno del suo arrivo, perché il suo basso grado non glielo permetteva. Appena
entrato, una delle inservienti lo condusse nella stessa saletta dove lui e Magoichi avevano parlato per la prima volta sei mesi prima:
il suo maestro, posato l’archibugio, lo aspettava seduto davanti ad un pregiatissimo
goban in legno massiccio e lavorato, sorseggiando la
solita tazza di tè.
«Benvenuto.»
«Magoichi.» rispose il ragazzo un po’ allibito «Che cosa…»
«Mi stavo un po’
annoiando. Immagino saprai giocare. Che ne dici di una partita?».
Iguro sapeva
giocare a go fin da quando aveva cinque anni; glielo aveva insegnato suo padre,
e capitava spesso che durante la sera dopo cena giocassero insieme, a go come a
shogi. Certo, non era un campione, ma la sua bella
figura sapeva farla.
Sedutosi di fronte
a Magoichi, aprì lo scrigno contenente le sue pedine
e fece la prima mossa. Magoichi replicò con la
propria, e in breve la scacchiera si riempì di pedine bianche e nere che si
fronteggiavano le une con le altre descrivendo un intricato disegno strategico.
Anche Magoichi ci sapeva fare con il go, infatti si portò subito
in vantaggio mettendo all’angolo uno dei gruppi d’armata di Iguro e riuscendo
nel contempo a limitare i movimenti di un altro.
«E questo cosa
avrebbe a che fare con l’addestramento?» domandò Iguro posizionando un’altra
pedina
«Un assassino non
deve essere ferrato solo nell’agilità e nell’omicidio. Deve anche possedere una
mente acuta, che possa aiutarlo a toglierlo d’impaccio nelle situazioni più
difficili».
La partita
continuò; con un paio di buone mosse, e con un certo stupore da parte del suo
maestro, Iguro riuscì a rompere l’assedio al suo secondo gruppo e a catturare
il gruppo che aveva tentato di accerchiarlo, ma per riuscirci dovette
rinunciare alla sua prima armata.
Nonostante tutto
però Magoichi alla fine ebbe la meglio, chiudendo la
partita con un una vittoria a dir poco schiacciante.
«Anche su questo
aspetto ci sarà da lavorare. Ad ogni modo, preparati. Da domani inizierai ad
allenarti anche nel combattimento.»
«Dici sul serio!?»
esclamò Iguro
«Aspetta a
festeggiare. Questo non significa che i miei allenamenti saranno interrotti. Al
contrario, da ora in poi la strada rischia di farsi ancor più in salita».
Questo a Iguro non
importava.
Finalmente, avrebbe
potuto apprendere sul serio i rudimenti del combattimento, e questo gli bastava
per farlo sentire al settimo cielo, arrivando quasi a fargli scordare la
fatica.
Andò a letto con
l’animo molto sollevato, e la mattina dopo si presentò al campo di allenamento
anche più presto del solito; là lo attendeva già il suo nuovo insegnante, Keiji Maeda, in piedi e immobile
come una statua al centro del quadrato di sabbia.
«Ti vedo euforico.»
fu il suo primo commento «Menare le mani ti piace così tanto?»
«È solo che da mesi
non facevo che allenarmi negli esercizi fisici. Non nascondo che l’idea di
poter finalmente imparare a combattere mi entusiasma.»
«Come vuoi. Ma se
pensi che sarà una cosa da niente, ti ricrederai fin troppo presto.» disse Keiji, che a quel punto gli lanciò una delle due bokken che aveva con sé «Avanti, fammi vedere che sai
fare».
Senza farselo
troppo ripetere Iguro si mise in posa di guardia, mentre al contrario Keiji restò rilassato e disteso come se niente fosse,
tenendo la sua arma con una sola mano e con uno sguardo a dir poco
disinteressato stampato sulla faccia.
Iguro sapeva che
quello davanti a lui era un guerriero formidabile, l’aveva visto combattere con
i suoi occhi, ma un simile atteggiamento lo faceva comunque andare su di giri;
davvero credeva di avere di fronte un ragazzetto come quelli che lo aveva visto
bastonare durante i suoi soliti allenamenti?
Suo padre gli aveva
insegnato, e lui stesso aveva praticato l’arte della spada fin da bambino.
Volle prendersi
ancora qualche secondo, giusto per essere sicuro di non agire senza riflettere,
quindi, lanciando un urlo, partì all’attacco menando un fendente dall’alto in
basso. La risposta di Keiji tuttavia fu spiazzante e
inesorabile; con due soli attacchi prima disarmò il ragazzo colpendolo ai polsi
e poi minacciò di sfondargli lo stomaco affondandogli il filo della spada
subito sotto l’ultima costola.
Così, dopo soli due
secondi da che aveva iniziato il suo attacco, Iguro si ritrovò inginocchiato a
terra con i conati di vomito e un doppio dolore al polso e allo stomaco; non
era neppure sicuro di aver capito appieno cosa fosse appena successo, ma quel dolore
tremendo gli diceva chiaramente che aveva avuto la peggio.
«Decisamente
mediocre.» fu il commento spietato di Keiji.
Punto sul vivo
Iguro si rialzò, re impugnò l’arma e si preparò ad un secondo tentativo; di
nuovo, Keiji restò impassibile, e di nuovo, all’assalto
del ragazzo, rispose con prontezza e inclemenza. Stavolta di colpi gliene
servirono tre, uno per deviare, uno per aprirsi un varco e uno per colpire alla
spalla, ma il risultato fu esattamente lo stesso di prima.
«Ti manca tutto. Tecnica,
precisione, rapidità, resistenza. E i nemici che ti attendono fuori di qui non
impugnano spade di legno».
Nonostante il
dolore tremendo in tutto il corpo Iguro, facendo appello più al suo orgoglio
che alla sua forza, si rimise faticosamente in piedi, assumendo per la terza
volta una posa di sfida. Keiji, accortosene, assunse
un’espressione come di stizza.
«Non ne hai già
prese abbastanza?»
«Affatto!» rispose
lui lanciandosi nuovamente all’attacco.
E nuovamente, come
era accaduto le prime due volte, Iguro fu sconfitto e abbattuto, ma stavolta la
sua perseveranza e ostinazione costrinsero Keiji ad
impegnarsi un pelino di più, e ad assestare molti più colpi, per riuscire ad
avere finalmente ragione di quel ragazzetto scatenato.
«Per oggi basta
così. Ma mi tremano le vene al pensiero di quanto ci sarà da lavorare».
Il ragazzo aveva il
morale sotto i piedi.
Anche nel
combattimento, dove pure sentiva di potersela cavare, era invece ancora
terribilmente immaturo, e nonostante ci avesse messo tutto sé stesso in quella
piccola battaglia simulata al suo avversario era bastato davvero poco per
metterlo al tappeto.
Ma non volle farsi
prendere dallo sconforto; aveva deciso che non sarebbe più accaduto. Se era
debole, poteva diventare più forte; se il suo stile era mediocre, poteva
migliorarlo.
In un modo o nell’altro,
si diceva, sarebbe diventato un guerriero, anche se si fosse trattato di
sputare su quella sabbia tutto il sangue che aveva; solo così avrebbe avuto i
mezzi per compiere la sua vendetta, quella vendetta che era uno dei pochi
pensieri che gli dessero la forza di sopportare tutto ciò che stava passando.
Nagasaki
Giugno
1569
Valignano era davvero un
uomo straordinario.
Dopo il suo arrivo,
in soli cinque mesi aveva imparato il giapponese quasi alla perfezione, quindi
aveva spostato la sua attenzione sulla dottrina shinto
e gli insegnamenti del Buddha, questi ultimi già in parte assimilati nel corso
del suo recente viaggio in Cina.
Aveva fatto venire
all’abazia il padre superiore di un vicino tempio zen e accolto molti altri
monaci viandanti ai quali aveva offerto cibo e protezione a patto che,
giornalmente, si intrattenessero con lui in lunghe ed appassionate dispute
teologiche e filosofiche.
Pur essendo un uomo
di fede Valignano aveva una mentalità all’apparenza
molto aperta, gli piaceva la filosofia e amava dibattere su qualsiasi materia,
e soprattutto sulla fede. I suoi insegnamenti avevano influenzato molti dei
dotti coi quali dibatteva, ma anche lui a sua volta era stato influenzato da
alcune delle loro dottrine e teorie.
La cosa non piaceva
particolarmente ad alcuni dei monaci, soprattutto a quelli esterni all’ordine,
come i francescani del monastero vicino che saltuariamente si recavano lì in
visita, ma a Valignano questo non importava.
Infine, aveva
voluto documentarsi sulla storia del Paese, e su sua disposizione Paolo gli
aveva procurato tutti i testi e i trattati di storia che era riuscito a mettere
insieme; il resto se lo faceva raccontare da quei religiosi, che come gli
antichi cantori si tramandavano la storia del proprio ordine e del Paese in
generale di maestro in allievo da secoli.
Una mattina di
inizio estate, Paolo raggiunse il suo maestro sotto il solito gazebo; come
previsto, lo trovò intento a leggere un vecchio libro regalatogli da un monaco.
Era un libro di poesie; ultimamente si era interessato anche a quello.
«Amico mio.» esordì
Valignano accortosi di non essere solo «Il cielo non
voglia che un giorno qualcuno là fuori intraprenda una guerra con il tuo popolo.
Anche se perdeste, fareste pentire ai vostri nemici di averla cominciata.»
«Che intendete
dire?»
«Il tuo popolo deve
la propria forza non alla potenza delle sue armi o alla vastità dei suoi
eserciti, ma dalla grandezza delle proprie virtù. Vivono nel nome della guerra,
sono preparati a morire, ma allo stesso tempo anelano e apprezzano la caducità
e la bellezza della vita. Un simile connubio può creare una sola cosa: un
soldato impossibile da sconfiggere».
Posato il libro Valignano sorseggiò una tazza di tè.
«Qual è la
situazione su al nord?» chiese poi
«Per il momento,
abbastanza pacifica. Ma ho il sentore che non lo sarà ancora per molto.»
«A cosa ti
riferisci?»
«Nobunaga si trova
in una brutta posizione. Ultimamente gli atti intimidatori nei suoi confronti
da parte degli Asakura si sono fatti sempre più sfrontati. A livello di forze
gli Asakura non sono niente; il problema è che Nagamasa Azai, il genero di
Nobunaga, è alleato sia degli Oda che degli Asakura. A ragione di ciò, al
momento Nobunaga si trova in una brutta situazione; teme che se decidesse di
entrare in guerra con gli Asakura Nagamasa potrebbe tradirlo, spingendo altri a
fare lo stesso.»
«Suo genero, hai
detto?»
«Nagamasa ha
sposato la sorella di Nobunaga, Oichi. Si dice che sia talmente bella da poter
rivaleggiare con il sole e la luna messi insieme. In questi mesi si vocifera
sia riuscita a trattenere Nagamasa dal voltare le spalle agli Oda, ma
probabilmente è solo una questione di tempo.»
«Brutta cosa le
donne belle.» commentò Valignano tornando a leggere
«La loro bellezza finisce spesso per essere la rovina degli uomini, e cambiare
il corso della storia.
Basti pensare a
Cleopatra, o a Elena di Troia.»
«Mi sono permesso
di fare anche qualche ulteriore ricerca, nella speranza di scoprire qualcosa di
più circa l’ubicazione della confraternita degli Assassini.»
«E?»
«Nulla di fatto,
purtroppo. Come potete facilmente immaginare, di villaggi perduti e nascosti i
cui abitanti sembrano possedere capacità sovrumane ce ne sono tanti in questo
Paese, e il volto ama esagerare con i suoi racconti. Per condurre una buona
ricerca serviranno indagini meticolose e personali.»
«Capisco.
Comunque, per il
momento, credo che la cosa migliore da fare sia aspettare.»
«Sono d’accordo con
Voi. Anche perché, in ogni caso, anche nell’eventualità in cui Nobunaga riesca
ad impedire il tradimento di Nagamasa, le cose per lui non si stanno mettendo
comunque bene. I Takeda e gli Uesugi,
che da tempo si facevano la guerra tra di loro, hanno stabilito una tregua, e
vista la loro natura belligerante non passerà molto tempo prima che decidano di
contendere a Nobunaga il controllo su Kyoto e reclamare per sé il titolo di
Shogun.»
«Devo dire di
essere molto colpito, Paolo. La tua rete di informazione è davvero eccezionale.
Un giorno o l’altro
mi dovrai raccontare come fai».
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!^_^
Chiedo
scusa per questo lungo periodo di silenzio. Il fatto è che tre anni di
università sono duri da sopportare, soprattutto quando si è trascorso le estati
a preparare esami o a fare tirocinio, quindi quest’anno avevo più che mai
bisogno di una vacanza. Ho quindi approfittato dell’invito di un mio amico e mi
sono concesso due piacevoli (e bagnate) settimane nel Regno Unito, tra Londra e
la Scozia.
Questo
capitolo avevo iniziato a scriverlo subito prima della partenza, e nel tempo
libero laggiù l’ho abbozzato nella sua interezza per poi metterlo insieme una
volta tornato.
Essendo
un po’ che manco dal sito sono indietro anche nelle recensioni, ma adesso
cercherò di rimettermi in pari.
Grazie
come sempre a Skydragon
e Glaucopis per le loro recensioni, e ad entrambi
dico che leggerò quanto prima i loro aggiornamenti.
A
presto!^_^
Carlos
Olivera