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L’ultimo ponte
Aveva pensato di essere preparato a tutto,
ormai. Aveva creduto di poter affrontare ben più che un ritrovo al parco
con i suoi amici. Allora perché le parole di Hayner
gli davano quell’odiosa sensazione di... paura?
Il silenzio si protraeva
e la mano di Olette esitava ancora, bollente sulla sua spalla improvvisamente
fredda. Con un sospiro, Roxas si risolse ad alzare il
capo, senza tuttavia sentirsi pronto per la conclusione del discorso.
Prima che potesse anche
solo pensare a cosa rispondere, un’ombra calò su di loro.
«Salute, figli
dello skate. Posso rapirvi la pecorella smarrita da sotto il naso?»
Roxas fu l’ultimo a
voltarsi, trattenendo un gemito. Il tono di Axel non
gli piaceva per niente.
Hayner, Olette
e Pence, le cui espressioni rilassate tradivano il
sollievo di aver potuto superare un’imbarazzante impasse, lo accolsero
con allegria.
«Ehi, guardate chi
si è rifatto vivo!»
«Axel! Di ritorno tra i comuni mortali?»
«Già»
rise lui, «alla fine ho, come dire, chiuso tutti i ponti rimasti
aperti.»
Roxas lo fissò
attonito, chiedendosi se con quelle parole intendesse rivolgersi proprio a lui.
No, meglio non esagerare; non poteva attribuirgli doti come la telepatia, sarebbe stato troppo.
L’altro
ricambiò lo sguardo, apparentemente divertito dalla sua confusione. Roxas cercò di darsi un tono.
«Non dovevi andare
a trovare qualcuno, oggi?»
Axel si rabbuiò, ma
dopo un attimo il suo sguardo tornò scintillante.
«Già fatto.
Ci ho messo meno tempo del previsto.» Dimostrando di non voler
approfondire l’argomento, superò Olette
e andò a posargli pesantemente una mano sulla spalla, tornando a
rivolgersi agli altri. «Allora, posso rapirlo o no?»
Roxas si sentì
arrossire. Mentre i tre amici gli lanciavano risolini allegri, sperò di
non avere uno sguardo troppo preoccupato.
«Ma certo»
fece Hayner. «Non c’è problema. A
patto che ce lo riporti presto, chiaro.»
«Chiaro»
sorrise Axel, trionfante.
No, non gli piaceva
proprio per niente.
«Ah, Roxas, un attimo.» Pence
s’illuminò di colpo. Cominciò a frugarsi nelle tasche
enormi della tuta. «Devo darti una cosa... Solo un secondo, deve essere
qui da qualche parte... Sì, eccola!»
Aveva estratto un
involto sottile... no, una busta da lettere, e gliela porgeva con un grande
sorriso. Confuso, Roxas andò con gli occhi
dalla busta nelle sue mani alla sua espressione pacifica.
«Ehm... Che
cos’è?»
«Un
regalino.» Pence sorrise più
apertamente. «Prendila e aprila più tardi, con comodo, va
bene?»
Roxas fissò di nuovo
la busta. Si sentiva addosso gli sguardi di tutti, mentre l’afferrava con
dita incerte. Qualunque fosse il contenuto, era più spesso della normale
carta da lettere.
«Va bene»
mormorò. «Grazie, Pence.»
Hayner e Olette
si scambiarono un sorriso complice. Roxas sentiva il
disagio crescere, come la pressione della mano di Axel.
«Andiamo?»
gli ricordò infatti lui.
Annuì sospirando.
* * *
«Tenente, devo raccontarle una cosa...
strana.»
Tifa Lockhart
si allontanò dalla macchina per il caffè. Odiava
quell’aggeggio: rimpianse amaramente il caffè che aveva assaggiato
al Good Samaritan Hospital,
di gran lunga il migliore che avesse avuto modo di bere negli ultimi anni. Si
voltò a guardare l’agente che la fissava torcendo le dita in modo
convulso.
«Che
succede?»
Cloud Strife
distolse per un attimo lo sguardo, come per trovare un coraggio al quale
avrebbe rinunciato volentieri. Infine la guardò con occhi neutrali e
rispose senza inflessioni.
«Questa mattina mi
hanno incaricato di scortare in tribunale un uomo, uno che è stato
appena scarcerato. Un certo Saïx.»
«Sì, ne
sono al corrente.»
«Quando l’ho
lasciato alle altre guardie» proseguì il giovane, sempre
monocorde, «Saïx si è voltato a
guardarmi e mi ha chiesto di provvedere perché qualcuno presenti
“i suoi omaggi” a... a Marluxia.»
Tifa sentì
soltanto il rumore soffocato del bicchiere di plastica che colpiva il
pavimento. Sbigottita, si avvicinò a Strife e
gli strinse un gomito con improvvisa energia.
«Il nostro Marluxia?
Ne sei sicuro?»
Lui annuì.
«Più che sicuro, tenente. Non so perché, ma lo so.»
La donna lo
lasciò andare e si premette le mani sulle tempie. Possibile? Un nuovo
elemento in quell’assurda catena di legami tra cose, luoghi e persone?
Doveva vederci chiaro.
«Grazie per avermi
informato, Cloud.» Recuperata la sua
efficienza, Tifa Lockhart raccolse il bicchiere e
tornò alla macchina del caffè. «Come mi pare di avere
già detto, mai sottovalutare
un giudizio azzardato.»
* * *
«Axel, questa
è veramente una stupidaggine!»
«Non si
discute.»
«Ma
insomma...»
«Sai che sei
carino col broncio?»
«Cosa?!»
«Non
sbirciare!»
Roxas sibilò qualcosa
di incomprensibile, ma obbedì. Aveva le guance rosse rosse
e l’aria molto molto scocciata. Axel sorrise. Non aveva detto una bugia.
Aveva cercato dentro di
sé il coraggio di raccontargli del viaggetto in autobus fino al carcere,
di Marluxia e di ciò che si erano detti;
avrebbe davvero voluto dirglielo, ma alla fine aveva deciso che era meglio di
no. Roxas aveva già sofferto troppo per la sua
famiglia: non sarebbe stato lui a riaprire vecchie ferite. Mai.
Continuò a
pilotarlo in silenzio. Il ragazzo camminava a occhi chiusi, la mano saldamente
aggrappata al suo braccio. A tratti incespicava nell’erba.
«Mi vuoi dire dove
stiamo andando?»
«Ma se ti ho detto
che è una sorpresa...»
«Io odio le sorprese.» Roxas sbuffò. «E non so se fidarmi delle
tue.»
«Antipatico.»
«Come ti
pare.»
«Ecco, siamo
arrivati.» Axel si fermò.
«Aspettami qui. Non sbirciare, mi raccomando.»
«Dove vai?»
Nella vocina di Roxas si affacciò una nota
isterica, quando lui si sottrasse alla sua presa. «Dove mi hai portato? Axel!»
«Stai tranquillo,
bimbo. E non sbirciare!»
Il biondino rimase fermo
al suo posto, contrariato. Avrebbe obbedito comunque; si fidava, e lo sapevano
entrambi.
Axel lo osservò per
un istante. Vederlo là sulle sue gambe, con gli occhi ancora chiusi e i
capelli scomposti sulla fronte, gli dava un colpo al cuore e uno allo stomaco.
Oggi più del solito.
Si voltò e
raggiunse l’unico spettatore di quella scena bizzarra, che lo fissava con
aria totalmente stupefatta. Mentre gli si avvicinava, il ragazzo infilò
le mani nelle tasche e sentì la filigrana frusciargli tra le dita.
L’affitto di Vexen avrebbe dovuto aspettare
ancora un po’.
Il parco giochi era
evidentemente chiuso, ma lui sapeva che ogni pomeriggio il responsabile
arrivava sempre con un po’ di anticipo, sperando che qualche bravo
bambino che avesse finito presto i compiti riuscisse a trascinare fin lì
la mamma o il papà. Era lo stesso uomo che ora lo osservava imbambolato,
e che fece sparire le sopracciglia sotto la visiera del berretto quando si vide
sventolare davanti al naso il mucchietto di banconote da cinquanta e da cento.
«Bastano per
garantirci un po’ di privacy?» sogghignò Axel.
L’uomo lo
squadrò, guardò il denaro, lanciò una rapida occhiata
tutt’intorno. Forse temeva di essere vittima di una qualche candid camera. Alla fine però annuì, secco,
arraffò le banconote e si allontanò intascandole con
disinvoltura.
Soddisfatto, Axel tornò da Roxas.
«Eccoci. Dammi la
mano e seguimi... Tieni gli occhi chiusi.»
Il ragazzo sbuffò
sonoramente. «Razza di despota.»
Strinse di nuovo la sua
manica, rincamminandosi a piccoli passi esitanti dietro di lui.
«Mi sento
veramente stupido» bofonchiò.
«Non sarà
mica la prima volta.»
«Vai a
farti...!»
«Ehi, bimbo, dove
diavolo hai imparato queste espressioni così scurrili?»
«Prova un
po’ a indovinare!»
Axel rise e lo costrinse
gentilmente a fermarsi. «Ci siamo. Ora puoi guardare.»
«Era o...»
Quando poté
rivedere il celeste scuro delle sue iridi, non poté fare a meno di
chiedersi cosa sarebbe venuto dopo il lampo di stupore.
* * *
Il
ginocchio gli fa ancora male. Si siede sul bordo del tappeto elastico, dal lato
opposto a quello dove sta la mamma: vuole far finta di essere stanco, ma non ha
intenzione di far capire a quel cretino di suo fratello che gli prude la
sbucciatura – così l’ha chiamata la mamma. Che strana
parola, ‘sbucciatura’. Come se la pelle fosse un frutto e il sangue
la polpa... Bleah, che schifo!
Però brucia sul serio. È fastidioso. Cercando
di non farsi notare da Sora, Roxas solleva la gamba
dei pantaloni e studia attentamente la ferita.
«Ti fa male?»
Sobbalza, spaventato: qualcuno è appena arrivato alle
sue spalle.
Si volta in fretta e cerca di nascondere il ginocchio.
Dietro di lui c’è un bambino con i capelli color sabbia e gli
occhi scuri e curiosi. Non sembra che lo stia prendendo in giro, comunque.
Roxas non
riesce ad evitare di dirgli la verità.
«Un po’. Ma ora passa» aggiunge subito.
Il bambino gli sorride amichevole. «Speriamo. Facciamo
a chi salta più in alto?»
Che strano. Non si sono mai visti, eppure lo tratta come un
amico. Roxas ricambia timidamente il sorriso e
annuisce.
«Va bene.» Si rialza e, mentre lo segue sul
tappeto accanto a quello di Sora, si ricorda di una cosa. «Come ti
chiami?»
«Hayner.»
«Ciao, Hayner.»
«E tu?»
«Roxas.»
«Ciao, Roxas.»
Ridono insieme mentre spiccano il primo salto.
Roxas fissò a lungo la
fila di tappeti elastici, vuoti e silenziosi. Per qualche minuto ricordò
le risate, i colori, il modo in cui quel posto gli era sembrato grande e bello
e divertentissimo, da piccolo. Ora vedeva chiaramente che era soltanto una
piattaforma rettangolare, sopraelevata rispetto al terreno, divisa in tante
corsie per assicurare un tappeto personale a ciascun bambino: soltanto un
posto, un posto qualsiasi, un posto vuoto, il cui significato si era perso da
qualche parte di sette anni prima.
«È impensabile che lasci perdere
tutto, chiaro? Non puoi mollare. Non adesso che hai dimostrato a tutti di
potercela fare...»
All’improvviso
capì cosa fosse quella stretta al petto.
Non voleva che anche lo
skateboard diventasse un ricordo.
Non osava alzare lo
sguardo su Axel, immobile al suo fianco. In cuor suo
avrebbe voluto ringraziarlo; sapeva perché lo aveva portato lì:
era l’ultima cosa rimasta in sospeso, l’ultimo ponte rimasto
aperto. L’ultimo, certo, a parte...
Ebbe un lieve sussulto
al ricordo della busta che Pence gli aveva dato pochi
minuti prima, e che adesso teneva nella tasca anteriore della felpa. La
sfiorò con una mano e sentì il cuore accelerare i battiti. Sapeva cosa c’era dentro.
Fece un passo verso la
piattaforma. Forse per la prima volta da quando si era ritrovato in piedi a
camminare verso Axel, si rese pienamente conto di
cosa rappresentasse la sua capacità di mettere di nuovo un piede davanti
all’altro. Allo stesso tempo, tirò fuori la busta e se ne fece
scivolare il contenuto nella mano aperta, il cuore assordante nelle orecchie.
Il riflesso di se stesso
a tredici anni lo osservava dalla fotografia, sorridente e felice tra Pence e Olette, con la mano di Hayner
sulla spalla e una vecchia tavola rossa, bianca e blu tra le braccia.
«... Promettiamo che la nostra squadra sarà
sempre unita. Sempre amici. Io prometto!»
«Roxas...?»
Era quasi innaturale
sentire tanta esitazione nella voce di Axel.
Sospirò
profondamente, poi si voltò a guardarlo con un sorriso.
«Grazie»
mormorò. «Ho capito, adesso.»
Axel non disse nulla, ma il
suo sguardo si rasserenò.
Roxas si voltò di
nuovo. Si avvicinò ancora alla piattaforma, un passo dopo l’altro,
assaporandoli tutti fino in fondo. Per quel giorno, si disse, via libera alle
stupidaggini.
Saltò.
* * *
Notte. Il suo regno. Da sempre.
Si strinse addosso il
vecchio impermeabile, rabbrividendo. Era una notte fredda. Ma era stato facile
trovare l’edificio; le vecchie conoscenze nei bassifondi più
infimi tornavano sempre utili, specie quando si vociferava su uno sporco
traditore.
C’era una luce
accesa, alla finestra dell’ultimo piano.
Così è troppo facile.
Meglio aspettare, meglio
concedergli un falso senso di sicurezza... Sarebbe stato più eccitante,
poi, guardargli il passato negli occhi.
Si accese una sigaretta
– oh, quanto, quanto gli era
mancato – e sorrise beato. Dissipò con una mano il primo filo di
fumo che gli uscì dalle labbra, pregustando il momento in cui, allo
stesso modo, avrebbe sparpagliato al vento una colpa.
Sarebbe arrivato presto.
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Io non sono io se non metto insieme il
fluff più assurdo e l’angst più
pesante, dico bene? E così non poteva mancare l’epilogo minaccioso
in un capitolo che invece voleva essere una sorta di risoluzione per
l’ultima cosa che Roxas aveva deciso di
lasciarsi alle spalle. Sì, sono un caso clinico. Strana forte.
Meno sei capitoli, gente!
Aya ~