whelp1
NdT: Signori e signore, state per addentrarvi nella
traduzione della meravigliosa storia di jharad17 ( l’originale potete trovarla
qui ). Questa storia mi è piaciuta così tanto che ho fatto forza su me stessa,
ho alzato il mio pigro sedere dalla sedia, e ho iniziato la mia prima
traduzione.
Generalmente ho tentato di tradurre in modo più vicino
possibile all’originale, tranne quando è stato impossibile a causa di.. ehmn…
incongruenze linguistiche? Cercate di capire.
Come ho detto è la mia prima traduzione, ho fatto il meglio
che ho potuto, se trovate qualcosa che non vi torna o che suona strano
scrivetemelo e sarete accontentati; se, tra quelli che leggeranno la storia (in
molti si spera) c’è qualcuno che volesse prendersi l’onere di Betare parli e
sarà ascoltato ;D.
Warnings:
Si parla di abusi e violenze, almeno nei primi capitoli. Harry è
affamato, picchiato e lasciato a se stesso, nonchè trattato
peggio di uno schiavo. Se vi dovesse dar fastidio, nonostante la parte
descrittiva sia solo nei primi capitoli, non leggete.
La storia è completa, ha un sequel e consta di 27 capitoli.
Ora filate a leggere.
Whelp capitolo I
Di jharad 17
Traduzione a cura di Jillien
Era tarda notte, e il bambino di sette anni si rannicchiò in
un angolo del cortile, vestito solo di uno slip e di una vecchia, malandata maglietta di suo cugino
Dudley. E di un collare. Faceva caldo questo pomeriggio, quando zio Vernon aveva messo la
lunghezza della catena attorno al suo collo e l'aveva agganciata a una linea di piombo attaccata al
capanno. Ma ora faceva freddo, e lui non voleva altro che essere affamato, come prima, e giacere nel
suo ripostiglio sotto le scale. Invece era infreddolito, bagnato e molto stanco. E forse anche un po'
spaventato. Si portò le ginocchia al petto e le strinse forte, ci posò la testa sopra e provò a
non pensare a ciò che l'aveva portato a questo.
Cercando di non pensare a qualcosa che comunque non avrebbe funzionato. L’avrebbe dovuto capire molto
tempo fa.
Flashback
“Ragazzo! Vieni qui, ora!”
L'avevano sempre chiamato “ragazzo”. Cioè, quando lo
chiamavano in qualche modo. Generalmente poteva dire quando stavano parlando a lui dal
tono di voce che usavano. Ognuno di loro usava lo stesso tono quando gli stava ordinando di fare
qualcosa, o non fare qualcosa, e raramente gli parlavano in un'altra maniera. A volte ricordava a malapena quale fosse il suo vero nome.
Ma poi, quando faceva dei sogni vividi – a volte spaventosi – che lo svegliavano in un sudore
freddo, le persone che vi erano dentro usavano il suo nome. Una donna con capelli rosso-oro e
lucenti occhi verdi che versavano lacrime lo raggiungeva e sussurrava il suo nome con voce leggera,
come se il suo cuore si stesse rompendo.
Un uomo, con occhiali dalla montatura sottile e capelli
disordinati come quelli del ragazzo, urlava il suo nome proprio al di là di una foschia verde brillante. E
il peggiore, un uomo con gli occhi a fessura la cui voce lo minacciava in toni freddi e poi
rideva, forte e a lungo, quando la donna urlava.
Ognuno di loro usava il suo nome.
Ma non gli era permesso parlare dei suoi sogni, o ricordare
a sua Zia e suo Zio qual era il suo nome. In realtà non gli era permesso parlare in generale,
eccetto per dire “sì, signore”, “sì, signora” e “mi dispiace”. Non gli era permesso guardare negli occhi
Zia Petunia o guadare in faccia Zio Vernon, perchè quello era “impertinente”, e non gli era
permesso sedersi nella stessa stanza delle “buone persone”. Lui doveva fare come gli era detto o
altrimenti doveva rimanere in silenzio e far finta di non esistere.
A volte lo desiderava davvero.
In risposta alla chiamata di Zio Vernon, il ragazzo uscì di
corsa dal ripostiglio e filò in cucina. Tenne lo sguardo sulle sue scarpe,
quelle per cui Dudley era appena cresciuto troppo. Erano rosse, con una toppa
circolare bianca su ogni caviglia ed erano parecchio consumate sugli alluci,
dato che Dudley strusciava i piedi sul marciapiede per frenare, mentre usava la
sua nuova bicicletta. La terza quest’anno.
“Sì, signore?”
“Non hai finito il tuo elenco” ringhiò Zio Vernon.
Il ragazzo guardò velocemente in su, poi di nuovo in basso. Aveva finito tutti i suoi lavori quasi
un’ora prima. Invece che dirlo, però, si morse il labbro. A Zio Vernon non
piaceva “essere contraddetto da piccoli marmocchi”. O discuterci, o ribatterci.
“Signore?”
“Dovevi spazzare il cortile”, chiarì Zio Vernon, “ma ci sono
tracce fangose dappertutto”.
Il ragazzo allungò il collo per vedere il retro del cortile
oltre l’uomo rotondo e la sua faccia minacciosamente agitata. Aveva spazzato le
pietre del lastricato, prima, ma poteva vedere qualche impronta rivelatrice,
della forma dei nuovi stivali da trekking di Dudley. Non che Diddy Duddums
avesse mai fatto trekking in vita sua, ma voleva degli stivali da trekking, e
quindi aveva avuto degli stivali da trekking. Il ragazzo sospirò.
“Vai a farlo ora, ragazzo” disse Zio Vernon, “e niente cibo
questa sera”.
Il suo stomaco brontolò in protesta per la punizione, ma il
ragazzo annuì solamente, con la testa tenuta bassa. Forse poteva sgattaiolare
fuori dallo stanzino dopo che fossero andati tutti a dormire. Se fosse stato
veramente, veramente silenzioso. Erano già passati due giorni da quando aveva
avuto qualcosa da mangiare.
“ORA!”
“Sì, signore”. Muovendosi velocemente, il ragazzo passò
furtivamente l’uomo enorme, evitando a mala pena un ceffone diretto alla sua
nuca, e si diresse fuori dalla porta della cucina, nel cortile. Prese la scopa
dal capanno, che aveva tirato a lucido quella mattina, e iniziò a spazzare di
nuovo. Il sole era ancora luminoso in questa sera estiva, ma non era
lontanamente caldo come lo era stato questo pomeriggio, quando aveva potato le
siepi e falciato il prato.
La sua faccia, le braccia e la nuca erano seriamente
bruciate, e lui era molto, molto assetato.
Il fango venne via facilmente, e il ragazzo lanciò uno
sguardo al rubinetto all’aperto mentre spazzava, pensando che, se avesse potuto
aprirlo leggermente, avrebbe potuto riempire la sua pancia dolorante e
raffreddare la sua pelle. Ma intercettò un movimento alla porta di servizio;
Zia Petunia stava guardando, e lei non approvava lo sprecare acqua sul
“ragazzo”. Abbassò di nuovo la testa e finì velocemente, poi ripose la scopa
nel capanno e tornò alla porta della cucina. Zia Petunia se n’era andata e Zio
Vernon gli bloccò la strada. “Siediti lì, ragazzo” disse attraverso il vetro, e
indicò il gradino in basso. “Rimarrai fuori finché non abbiamo finito”.
“Sì, signore” disse il ragazzo, e si sedette dove gli era
stato detto, di fronte al cortile. Questo era un ordine al quale era abituato.
Gli odori della cucina aleggiavano attraverso il vetro della
porta: roast beef, patate arrosto, salsa, involtini caldi e piselli freschi.
Col procedere della cena il ragazzo non si mosse, né emise un suono. Dalla sala
da pranzo Dudley parlò forte, le parole che continuava ad esclamare spesso
incomprensibili attorno a una bocca piena di cibo. Continuò con le sue gesta di
quel giorno, con la sua nuova bicicletta e i suoi amici, al parco. Zia Petunia
lo incoraggiava a mangiare, “solo un’altra porzione, Duddy caro, sprecherai da
un’altra parte. Questo è il ragazzo di mamma.” E Zio Vernon lodava le buffonate
di Dudley con cose come “Buon per te, figliolo. Mostra a quei ragazzi un paio
di cosette…”
Il suono delle posate e del masticare e del parlare continuò
abbastanza perché il sole calasse. Zia Petunia finì il pranzo con un budino di
cioccolato con panna montata, e lo zio e il cugino del ragazzo ne ebbero
diverse porzioni ciascuno. Non che nessuno di loro avesse bisogno di extra,
pensò amaramente il ragazzo sui gradini, quando il suo stomaco ebbe un crampo
talmente forte da lasciarlo ansimante. Premette le sue mani sulla pancia e si
curvò in avanti, oltre le sue ginocchia.
Forze Zio Vernon avrebbe cambiato idea. Forse ci sarebbe
stato qualcosa lasciato per lui. Un piccolo avanzo. Qualsiasi cosa. Le sedie
strusciarono indietro e improvvisamente la televisione prese vita dal
soggiorno. Zia Petunia apparve alla porta. “Pulisci qui”, disse freddamente, “e
tieni le tue zampacce lontano dagli avanzi”.
“Sì signora” disse il ragazzo, e si alzò lentamente in
piedi. Lei lo sarebbe stato a guardare, lui lo sapeva, magari addirittura
contando quante patate erano rimaste e quanti involtini. Lo faceva spesso. Il
ragazzo si diede da fare pulendo e sua zia si sistemò in una poltrona fiorata
vicino alla porta del salotto. Gli lanciava uno sguardo tanto spesso tanto
quanto lo faceva con la televisione, mentre il ragazzo puliva il tavolo e i
ripiani per cucinare, scrostava i piatti e le pentole, asciugava tutto e lo
metteva via, poi puliva tutte le superfici.
“Vai a letto” gli disse Zia Petunia quando ebbe risciacquato
lo strofinaccio per l'ultima volta.
“Sì, signora” disse. Tornò al suo stanzino, le spalle basse,
desiderando di aver infilato un panno bagnato in tasca. Avrebbe potuto
succhiarne fuori l'acqua una volta che fosse stato da solo nello stanzino e
spegnere la parte peggiore della sua sete. Ma aveva sperato di avere il
permesso di lavarsi prima del letto, magari usare addirittura il gabinetto.
Sembrava che Zia Petunia non fosse in uno stato d'animo generoso, questa sera.
Diede uno strattone alla catenina
per accendere la lampadina nuda dentro lo stanzino, prima di chiudere la porta
dietro di lui. Dopo essersi spogliato dei suoi larghi vestiti da lavoro,
scivolò velocemente dentro ad una vecchia e sformata maglietta di Dudley, che
il ragazzo usava come camicia da notte. Poi usò il secchiello vuoto nell'angolo
dello stanzino per alleggerirsi, spense la luce e si sistemò nel suo letto, una
vecchia branda da campeggio che Dudley aveva colpito talmente forte, una volta,
che la struttura si era rotta.
La luce filtrava attraverso le fessure
attorno alla porta, così come i rumori dal televisore nel salotto, lo stesso di
ogni notte. Il ragazzo giaceva sul fianco, raccolto sotto la sua sottile,
rattoppata coperta, e fissava la porta dello stanzino. Dato che i suoi occhi si
stavano adattando all'oscurità, poteva vedere bene abbastanza da distinguere i
contorni della scritta su un disegno che aveva fatto un giorno di scuola
dell'ultimo anno, fatto con pennarelli verdi, rossi e viola.
“La Stanza di Harry”
Se tutto il resto non avesse funzionato, avrebbe usato questo cartello
per ricordarsi del suo nome.
Più tardi, dopo che le luci erano state spente e i suoi parenti avevano rumorosamente segnato il loro
passaggio sulle scale, Harry aspettò finché non poté sentire il russare intenso
provenire dalla lontana stanza da letto prima di aprire lievemente la porta
dello stanzino. Fermandosi dopo ogni passo, allungandosi per sentire ogni
cambiamento nei suoni da sopra le scale, strisciò nella cucina e oltre fino al
secchio dell'immondizia. Era l'unico posto in cui Zia Petunia non aveva mai
pensato di contare le cose.
Un'altra pausa e sollevò piano il coperchio. La luce della luna
attraverso la finestra della cucina era abbastanza per vederci, e rovistò
impazientemente nel secchio. Dite incallite e coperte di vesciche per il lavoro
si spostarono dagli avanzi di salsa e budino dei piatti a opuscoli pubblicitari
e alcuni fazzoletti usati, a bucce di patate e
l’ossuta fine dell’arrosto che sua Zia aveva buttato prima che tutti si
sedessero a tavola per cena. Harry tirò fuori dal cestino il residuo di carne e
grasso e lo spostò velocemente all'altra sua mano, mentre tornò a prendere le
bucce. Incapace di sopportare la fame un momento di più, ficcò il pugno di
bucce nella sua bocca e masticò e inghiottì velocemente.
Cercando di più, rosicchiò la fine dell'arrosto, assaporandone il sapore
e il sughetto, e anche la protezione cartilaginea.
Questa volta affondò di
più nel cestino, fin quasi alla spalla. Anche se stava ancora masticando il
primo boccone, morse ancora la carne ruvida, incapace di rallentare. Aveva
appena afferrato qualcosa che sembrava la fine di una pagnotta quando la luce superiore
della cucina si accese.
TbC
***
Il primo capitolo è andato, non fate i pigri e mostriamo che i fanreader
italiani sanno recensire ;D
Ci vediamo al prossimo capitolo!