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Autore: Simo90    19/08/2011    0 recensioni
Una fanfiction ispirata al romanzo “Numero Sconosciuto” di Giulia Besa. È la storia di Cristina e della sua vendetta nei confronti della Dea Artemide. Forse è la stessa Cristina che compare nel libro. Forse no.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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PARTE II


Le felci crescono tra le spaccature nel cemento lungo la volta del tunnel. L’umidità si condensa sulle foglie, goccioline piovono sul cadavere steso a terra.

Abbasso la torcia, il fascio di luce si frammenta sull’acqua sporca che scorre intorno al corpo. La ferita va dalla spalla destra allo sterno. L’artiglio di Artemide ha strappato la tuta da lavoro dell’uomo e gli ha squarciato il petto. Escrescenze grigie e porose, simili a funghi, infettano i bordi della lacerazione; radici filiformi si diramano tra il sangue, palpitano nell’assorbire il nutrimento.

Illumino la faccia del morto. Erba spunta dalle orbite vuote degli occhi, larve gonfiano le guance, muffe biancastre punteggiano la fronte e il naso. La mandibola manca: Artemide deve averlo baciato e gli ha portato via metà bocca.

Sulla parete del tunnel, dietro il cadavere, la Dea ha tracciato un groviglio di simboli. Ideogrammi cinesi o giapponesi. Le incisioni lacrimano sangue, scie rosse che scendono sui mattoni. Quando la polizia ha interrogato gli invitati alla festa, un ragazzo ha dichiarato che le ultime parole di Angela, prima che si allontanasse dalla villa, sono state: “La verità è nel sangue.”

La mattina dopo c’era sangue dappertutto, un fiume di sangue dalla cima della collina giù lungo il pendio fino ai binari. Il muso della locomotiva ne era coperto, sui tronchi degli alberi era rimasta una linea vermiglia all’altezza del ginocchio, a ricordare il punto più alto della piena.

Il primo a soccorrere Angela è stato un infermiere che viaggiava nella carrozza di testa dell’intercity. Ha detto che la faccia di Angela non c’era più, i segni delle zanne una corona frastagliata impressa sulla carne. E dalle ferite continuava a sgorgare il sangue.

Giro la torcia. Il bosco di Artemide soffoca la galleria fin dove arriva la luce. A metà strada la Dea ha divelto la rete di ferro che bloccava il tunnel. Il cartello “Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori” pende sbilenco, l’angolo in basso a sinistra immerso nell’acqua.

Le ultime parole che mi ha detto Angela, in cima alla collina, quando l’ho raggiunta, sono state: “Sei una puttana.”

Il sudore mi cola dalla fronte, pizzica gli occhi. Il tanfo di putrefazione stringe la gola. A ogni respiro vorrei chinarmi a vomitare. Gli stivali sciaguattano nei liquami; lo stesso rumore dei palmi e delle ginocchia che pestano le piastrelle del cesso, bagnate di piscia. In questi anni qualche nozione di psicologia l’ho imparata, e qui si tratta di un classico caso di proiezione: se sei una puttana fai finta che il problema lo abbia un’altra, per esempio accusando tua sorella.

Mi infilo tra le maglie della rete, gli spuntoni ritorti artigliano il braccio che regge la pistola. Le cisti si spaccano, il pus cola sulla carne incancrenita. Sembrano gocce di sperma.

Chissà quale sapore ha il pus-che-assomiglia-allo-sperma?

Mi viene da ridere. Quell’idiota di Marco e le sue idee del cazzo. Un giorno intasa il pavimento della cucina di scatoloni, ognuno contiene venti flaconi di pasticche. Marco ha buttato via gli ultimi soldi che ho mendicato da mamma per comprare la merce. Gliel’ha venduta un suo ex compagno delle medie, e gli ha fatto un “prezzo speciale” perché gli deve un favore. Prendo un barattolo, le scritte sbavate sull’etichetta dicono che quella roba fa assumere alle secrezioni maschili il sapore di mela. «Rivendiamo al doppio» gongola Marco. «Stavolta facciamo i soldi». Svito il tappo, verso sul palmo una manciata di pasticche. «Ma razza di coglione, queste sono solo mentine. Mentine. Cristo santo.»

Per fortuna il braccio ha perso sensibilità da ore, da quando sono arrivata all’impianto di depurazione. Il sangue pulsa solo nell’indice che carezza il grilletto. I viticci della pistola non si muovono più, non si sono arrampicati fino al cervello. Si sono aggrovigliati intorno alla carotide e si sono fermati lì. Non c’è niente da fare, la gente mi evita, non vuole conoscermi troppo da vicino, faccio schifo persino ai tentacoli di un demone.

Il tunnel si allarga a imbuto, sfocia in una sala circolare. A intervalli regolari lungo la parete si aprono gli imbocchi di altre cinque gallerie. Il fascio della torcia passa da un’arcata buia alla successiva. Niente erbacce, niente funghi, niente rampicanti. Il bosco di Artemide si esaurisce ai miei piedi. Dirigo la luce a esplorare il soffitto. Incrostazioni verdastre tra i blocchi di pietra, ruggine sulle tubature. Niente felci, niente liane, niente insetti.

Cammino verso il centro dello slargo. Il pavimento digrada, deve avere la forma di un piatto fondo. Pochi passi e i liquami salgono alle caviglie, a metà strada sfiorano il polpaccio.

Dove sei scappata? Non puoi prenderti mia sorella e sparire così. Non è giusto. Quella puttana di Angela mi ha fatto soffrire per anni e non è giusto che... Il geyser esplode alla mia destra. Mi giro di scatto, la torcia e la pistola puntante verso gli spruzzi che ricadono sull’acqua. Il palmo di una mano mi copre la bocca e il naso, le dita stringono la guancia. L’odore di olio lubrificante mi riempie le narici.

Fiato caldo, rovente, alla base del collo, accanto all’orecchio. «Shh...» sussurra la voce. «Non ti muovere. Vorrei farlo qui, ma lei potrebbe tornare.»

La stilettata al fianco mi mozza il respiro. Nello spasmo le dita si aprono, la torcia cade nell’acqua. Buio.

 

* * *

 

Gli occhi di plastica di Batuffolo mi fissano dal pavimento. L’orsetto di peluche siede sghembo sulla moquette, il fianco contro la gamba della scrivania. Angela si accovaccia sui talloni accanto all’animale di pezza. Gli raddrizza il papillon, dà una spazzolata con la mano al pelo marrone. Raccoglie Batuffolo e lo sistema sul seggiolone. Si volta verso di me. «L’avevi fatto cadere entrando in camera.» Sorride. «Sbandavi un po’. Fortuna che ti hanno impedito di guidare!»

Strizzo gli occhi. Il volto di mia sorella è sfumato, fuori fuoco. Mi passo le dita sul viso, l’occhio destro è chiuso, gonfio. Sfioro il naso e pulsa di dolore. Ho la bocca impastata, la gola secca.

Cristo come sono conciata. Ma devo scendere dal letto e andare in bagno, mi scappa e non voglio pisciarmi addosso. Spingo il palmo sul lenzuolo, sollevo la testa. La stanza rotea intorno a me. Nel vortice Angela allunga la mano, la preme sulla spalla, mi rimette sdraiata. «Stai lì che sei strafatta.» Si morde il labbro inferiore. «E poi mi sa che hanno esagerato.»

Angela si gira, i lunghi capelli biondi le ricadono sulla schiena. Apre il sacchetto della fumetteria che ho posato sul comodino. Ci sono i manga del mese, li ho comprati questa mattina e non neanche fatto a tempo a sfogliarli perché ero appena rientrata quando ha telefonato Roberto e... mi scoppia la testa.

Fruscio di pagine. Angela scorre l’ultimo numero di Strawberry Panic, lo ributta sugli altri. «Certo che anche tu le rogne te le vai proprio a cercare.»

«Cos...» A muovere la bocca i denti e le gengive mandano fitte atroci. Tocco le labbra con dita tremanti. Sui polpastrelli rimangono gocce di sangue. E in più mi sono buttata a letto vestita. Magari con ancora addosso le scarpe sporche di terriccio. Mamma si incazzerà.

Angela sospira. «Adesso ci manca solo che non ti ricordi più quello che ti è successo. Sarebbe un casino.» Mi scosta una ciocca dalla fronte. «Lo sai che ti voglio bene, non voglio darti un’altra lezione.»

Il lampadario brucia di fuoco bianco, mi ferisce gli occhi. La tapparella è abbassata. È sera, o notte. E il giorno appena trascorso è nebbia. Nebbia e sofferenza.

«Sempre che tu non stia facendo la furba» continua Angela. «Non te lo consiglio, perché la prossima volta che sento Roberto farti un complimento non te la cavi con così poco. Finisci all’ospedale. O ci finisce la mamma.»

La voce di Roberto al cellulare, puoi venire? tua sorella si sente male, sì è qui da me, no, non credo sia grave, non ti preoccupare, forse ha solo bevuto troppo, vieni a prenderla.

Angela si stringe nelle spalle. «In ogni caso adesso che si è tolto lo sfizio penso non ci saranno più problemi.»

 

«Chi dorme non sente il mal di denti.» La mano mi afferra il mento, mi piega il viso da una parte e dall’altra. «Però devi considerare che non c’è amore senza dolore.»

Batto le palpebre. L’ombra di un uomo si delinea contro la luce smorta della lampada appesa al soffitto. L’uomo è in piedi di fronte a me. Puzza di polvere da sparo, di carne bruciata. Di olio lubrificante.

Linee scure rigano l’intonaco gonfio di umidità delle pareti. Tracciano il profilo di mobili, o di pannelli di controllo per apparecchiature industriali. Devo essere in una delle centraline abbandonate. E questo stronzo... no, non è Fabio. Veste allo stesso modo, stesse scarpe, stessi pantaloni, stessa giacca, stessa cravatta color pelo di topo, ma questo qui non è magro, questo è grosso. I muscoli tendono il tessuto della camicia, le spalle larghe sfiorano i muri.

E io sono seduta con il culo sulla pietra gelida, appoggiata a un tubo che sbuca dal pavimento. Le mani dietro la schiena devono essere legate, non le muovo. Posso solo far scorrere le dita della mano buona sul ferro della pistola. Do uno strattone. Fitta ai polsi. La corda – cristo, quanto l’ha stretta! – taglia la carne. Le dita si bagnano di liquido caldo. Serro la bocca per non urlare.

L’uomo si tira su le maniche della giacca. I gemelli d’oro ai polsini della camicia scintillano. «Ho una buona notizia e una cattiva notizia.»

«Sei un collega di Fabio? Non lavoro più per lui. Fottiti.»

«La buona notizia è che non intendo violentarti, lo so che ti dà fastidio.» Il tizio sfila la spilla a forma di lupo che ha appuntata al risvolto della giacca. Si gratta con l’ago i capelli. Ammira le scagliette di forfora che rimangono appiccicate.

Questo è messo peggio di Marco.

Il tizio pulisce la spilla sui pantaloni. «Scusa, mi prudeva. Dicevo che la cattiva notizia è che farà molto più male. È sempre così: pena non meritata fa molto male.»

Gli occhi del tizio non hanno iridi, sono due cavità scure. Il nero formicola oltre le orbite, si espande sulla faccia, come si allarga una macchia di inchiostro sulla carta. Sono gli stessi occhi di lei. «Sei uno di loro, non è vero? Un Dio?»

Il tizio si gratta il dorso della mano, già coperto da crosticine. «Dannate pulci.» Le unghie sporche spaccano le croste, il sangue macchia di rosso il polsino della camicia. «Mi chiamano Marte, ma non ha importanza. Piuttosto lo sai che una volta il prurito non andava via, non andava via, non andava via e mi sono grattato la nuca fino a perforare il cranio? Il giorno dopo c’era questo liquido verdognolo e colloso che mi scendeva lungo la schiena.»

Marte si passa la mano sul collo, sfrega le nocche sui capelli dietro la testa. «Allora ho preso uno spiedo e l’ho infilato nel buco. Ma non ci ho cavato un solo ragno. Siamo resistenti, non sono riuscito a distruggermi il cervello prima che i danni si riparassero da soli.»

«Non ho niente contro di te, sono venuta per Artemide. Lasciami andare.»

La mano di Marte mi afferra di nuovo la faccia. Chiude le dita sulla mandibola, i denti scricchiolano. «Dio ama parlare con chi ama tacere. Perciò stattene un po’ zitta.» Mi sbatte la testa contro il tubo, la inclina verso l’alto e la riabbassa, a forzare un cenno di assenso.

Figlio di troia. Ma se ha voglia di blaterare, meglio così. Con il caricatore inserito il calcio della pistola si gonfia e il metallo si crepa. Se strofino la corda sul bordo frastagliato di una delle crepe...

«Il mio problema è che vorrei essere come lei.» Marte gesticola verso le pareti della stanza. «Artemide ha finito di soffrire. Non ha più coscienza, non sa che dovrà rimanere su questo pianeta di merda per milioni di anni, in simbiosi con un corpo di carne. Ma io non ce la faccio, non ce la faccio più.»

Gli occhi di Marte si dilatano, nella tenebra decine di zampe lunghe e sottili si dibattano. «Sai dove ho recuperato questo corpo? Era di un prigioniero russo dell’Unità 731. I giapponesi gli hanno portato via l’intestino e i reni senza anestesia, come esperimento. Lo hanno infettato con il colera e la tubercolosi. Io me ne sono appropriato quando stava per crepare, speravo che la sofferenza lo avesse reso pazzo.»

Marte disfa il nodo della cravatta, apre la giacca, sbottona la camicia. Striature purulente solcano i muscoli, i segni delle unghiate ancora visibili dove si è grattato. Cicatrici si sovrappongono sulla pancia. «Era una buona idea, se non che la via per l’Inferno è lastricata di buone intenzioni. Non solo non era impazzito, ma mi sono ritrovato senza metà degli organi interni e come noto un sacco vuoto non sta in piedi.» L’unghia di Marte ripercorre uno sfregio verticale che parte dall’inguine. I bordi della vecchia ferita si separano. Marte si ficca la mano nello stomaco. La estrae, tra le dita una massa di carta putrefatta. «Mi sono cacciato in corpo un po’ di libri per fare volume.» Ghigna alla sua battuta del cazzo. «I primi che ho trovato. Alcune copie di un’enciclopedia dei motti e dei proverbi.»

I grumi di carta impastati di sangue sfuggono dalle dita distese, cadono sui miei stivali. Tengo lo sguardo fisso su di lui. Intanto sfrego il calcio della pistola contro la corda.

Il Dio della Guerra si riveste. «Allora ho pensato: se non ti aiuta la provvidenza, affidati alla scienza. Niente più trasferimenti come capita, ho incaricato i miei collaborati di cercare con attenzione un candidato ideale.»

Mi prende per i capelli. «Tu sei pazza. Sei nata con le sinapsi incasinate, avrebbero dovuto premere un cuscino sul tuo muso da bambina e soffocarti. Ma sono felice che non sia andata così. In più hai dimostrato di sopportare la simbiosi con uno di noi, anche se la pistola è solo un frammento minuscolo di un Dio.»

La mano scende a carezzarmi il viso. Si posa sullo sterno. «Sarà doloroso, ma un po’ per uno non fa male a nessuno. Naturalmente alla fine morirai.»

La pelle del Dio si increspa e si spacca. Dalle lesioni sbucano zampe lunghe e affusolate. I ragni neri si divincolano per sgusciare fuori. Gli otto occhi di ognuna delle creature luccicano, i peli sull’addome vibrano. I ragni si accavallano uno sull’altro, uno nell’altro.

Il primo ragno percorre il braccio disteso del Dio. Si alza sulle zampe posteriori, protende quelle anteriori verso il mio volto. I minuscoli artigli alle estremità degli arti mi carezzano il mento.

Tenebra.

L’essenza di Marte e degli altri Dei fluttua nello spazio interstellare. Esistono dai primordi del cosmo, e continueranno a esistere fino alla morte dell’universo. Sono creature perfette. Ignorano lo scorrere del tempo, ignorano cosa sia la vita e ignorano che possa terminare. Finché propaggini dei loro corpi lunghi miliardi e miliardi di chilometri non hanno lambito l’atmosfera terrestre. L’essenza si è fusa con esseri di carne e sangue; gli Dei sono entranti in simbiosi con gli uomini.

E la coscienza degli uomini ha infettato l’animo degli Dei.

Da allora gli Dei hanno cercato un significato per la loro esistenza e non lo hanno trovato. Hanno vissuto di piaceri e illusioni, ma senza mai scordare del tutto la loro condanna: un’esistenza eterna senza scopo. L’unica salvezza è la pazzia. O il suicidio.

 

Il boato riverbera nella stanza, lo scossone scuote le pareti, fa perdere l’equilibrio a Marte. Il Dio scivola, colpisce di schiena il muro alla sua destra. I ragni tornano a rifugiarsi sotto la sua pelle. Il secondo scossone fa tremare l’intera stanza, calcinacci piovono dal soffitto, la luce della lampada sfrigola; batto la nuca sul tubo, schegge di vernice mi cadano sul viso.

«Non adesso!» grida Marte. «Vattene! Ho già giocato abbastanza con te. Un bel gioco dura poco!»

I cardini del portello in fondo alla camera saltano via. Il battente di metallo piomba all’interno, solleva una nuvola di polvere. Artemide colpisce con gli avambracci gli stipiti e frantuma il cemento, allargando l’apertura. La Dea dischiude la bocca, le zanne scintillano, rivoli di bava le bagnano il muso. Le branchie esalano gas che puzza di aglio.

Marte si volta ad affrontare la Dea. Tiene la cravatta in mano per un’estremità, come una frusta. Fulmini blu crepitano lungo la stoffa. «Non farmelo ripetere un’altra volta! Vattene o questa volta ti faccio a pezzi! A buon intenditore, poche parole.»

La corda che mi lega il polso non si sposta più, deve essere rimasta impigliata tra le creste di ferro del calcio della pistola. Do uno strattone,  e un altro. La pressione si allenta, le fibre si stanno sfilacciando.

Artemide entra nella stanza. Stringe l’asta della freccia nella zampa destra. Alza l’arma all’altezza della spalla. La punta di selce della freccia mira al cuore di Marte. La Dea farfuglia, una cantilena che ricorda il ritmo della poesia. Ma le parole sono versi gorgoglianti.

La cravatta schiocca davanti al naso di Artemide. La Dea ringhia, indietreggia. Membrane traslucide slittano a proteggerle gli occhi. Artemide spinge sulle gambe deformi e balza in avanti. Marte si scansa, ma non ha spazio, la punta di selce gli trafigge la spalla, penetra nella carne. Sangue e ragni neri sgorgano dalla ferita. Artemide afferra Marte alla gola con l’altra zampa. La Dea picchia Marte contro la parete, spalanca le fauci.

Il Dio della Guerra sorride. «Non tutto il male viene per nuocere. Meglio un dottore morto che un–» Le zanne di Artemide si chiudono di scatto. La Dea agita la testa da una parte e dall’altra, strappa via la faccia a Marte. Il corpo del Dio si affloscia. Artemide si getta su di lui.

La corda cede e libero le mani. Mi tiro in piedi, attenta a non fare rumore.

Artemide intanto divora il corpo di Marte. Gli ha squarciato il petto con la punta della freccia, ha divelto le costole, e ora affonda il muso nella cassa toracica. I ragni neri galleggiano nel lago di sangue che si allarga intorno al cadavere. Le lunghe zampe sono contratte, accartocciate contro l’addome.

Allineo la tacca di mira della pistola alla testa della Dea. Artemide si irrigidisce, alza piano il muso, lo gira verso di me. Una poltiglia di ossa triturate e filamenti di carne le cola dal mento. Le branchie pulsano veloci, gli sbuffi di gas ammorbano l’aria. Le prime felci crescono ai margini della pozza di sangue, grappoli di funghi incrostano il soffitto sopra la Dea.

Il dito si piega intorno al grilletto. «Hai ammazzato mia sorella. Non si meritava di andarsene in quella maniera. Non dopo tutto quello che mi ha fatto. Hai rubato la mia vendetta!»

Faccio fuoco. Una, due, tre volte. I proiettili trafiggono il cranio della Dea. Schizzi di sangue mi bagnano il viso e i vestiti. Premo ancora il grilletto, e ancora. L’occhio sinistro di Artemide sparisce e al suo posto sboccia un fiore vermiglio. Il secondo proiettile spappola l’altro occhio.

La Dea barcolla. Le ginocchia le cedono. Crolla sul fianco, schiaccia sotto il suo peso il cadavere di Marte. Gli artigli perdono la presa sulla freccia, che rotola via dalle dita callose.

Esalo un profondo respiro.

La vendetta è compiuta.

 

Tra il sangue degli Dei, brilla una luce gialla. La spilla di Marte. Un lupo d’argento lanciato in corsa, il manto striato d’oro, gli occhi due rubini. Mi chino per raccoglierlo.

Le fauci di Artemide scattano. Si chiudono sulla pistola. La Dea tira indietro la testa, la carne marcia del braccio si sfalda. Trancia l’arto all’altezza del gomito.

Troia bastarda.

Mentre la Dea si rialza, le sue ferite si rimarginano. I lembi di pelle si fondono a coprire le fibre muscolari che si ricongiungono. Le zanne rotte ricrescono, gli occhi si riaprono.

Arretro di un passo, il tacco poggia su...

Mi lancio a terra e afferro l’asta della freccia. La zampata di Artemide mi sfiora i capelli. Ficco la punta di selce nel ginocchio della Dea. La punta trancia i tessuti, senza resistenza, come aveva fatto con Marte. La Dea urla, il latrato di una cagna.

Indietreggio verso la porta scardinata. Artemide mi segue zoppicando. Fa guizzare le dita artigliate, le colpisco il dorso della zampa con la freccia. La Dea mugola e ritrae il braccio, le dita pendono inerti.

Perdo sangue e pus e siero dal braccio tranciato e credo mi rimanga poco prima di crepare ma non sento dolore. Posso combattere. Posso ammazzarla sul serio!

«Avanti, bastarda, che comincio a divertirmi.»

La Dea carica, la bocca dischiusa sulle centinaia di denti affilati. Mi inginocchio, lei mi è addosso, le pianto la freccia sotto la gola. Spingo finché la punta non trapassa la nuca. Mi sposto di lato mentre la Dea crolla muso in avanti.

Sciami di ragni neri strisciano fuori dalle lacerazioni. Traballano sulle lunghe zampe, cadono sul fianco. Rimangono immobili, i minuscoli occhi opachi e senza vita.

 

* * *

 

Tiro fuori dal sacco un altro cane morto e lo sbatto sul tavolaccio di legno. Infilo il cacciavite tra le fauci dell’animale e faccio leva per aprirgli la bocca. Raccolgo la pinza e gli strappo i denti. Li butto nella ciotola, già piena a metà di piccole zanne.

Lavoraccio di merda, in più ho già i capelli tutti appiccicaticci di sangue e peli. Ma mi servono altri denti. Devo incollarne un po’ anche sulla seconda ganascia semicircolare della tagliola, o non viene bene.

Do un calcio al sacco, le carcasse di altri due cani rotolano sul pavimento. Ancora oggi e sarà sufficiente. Allora la trappola per Angela sarà pronta. Vedrai che festa che ti faccio, sorellina.

 

Rimanere sdraiata sull’erba umida, con il vento freddo che mi appiccica addosso i vestiti sudati e imbrattati di sangue, mi sembra proprio un’idea idiota. Mi beccherò l’influenza.

Ma se mi rimetto in piedi svengo. È già successo. Da quando sono sgattaiolata fuori dal tombino ho perso i sensi almeno un paio di volte. E poi non saprei in che direzione trascinarmi, non so più dove si trovi la statale.

Sono così stanca.

Risalire la scala a pioli fino in superficie è stata una tortura che potevo risparmiarmi. Forse l’unica soluzione è abbassare le palpebre. Chiudere gli occhi. Non riaprirli più.

«No, no!» squittisce una vocina. «Spalanca gli occhioni, sono proprio curioso di osservare la tua espressione quando mi vedrai.»

Le raffiche gelide disegnano onde sul prato, scuotono i rami degli alberi che delimitano la radura. Fra i tronchi spuntano le pareti curve delle vasche di depurazione; la vernice bianca scrostata, le ringhiere delle passarelle insozzate di ruggine. Il sole tramonta dietro le piante, il disco arancione e gonfio. E io non ho sentito alcuna voce, perché non c’è nessuno, e non sono pazza. Non lo sono più. La pazzia l’ho lasciata dietro di me, in un lago di sangue e ragni morti.

«Questo è molto curioso» riprende la vocina. «Hai un modo di ragione tutto tuo. Interessante.»

Ali membranose velano la luce del sole. La creatura si mantiene a mezzaria davanti alla mia faccia. L’omuncolo volante indossa un cappotto sfilacciato e sul cranio ipertrofico un colbacco con la stella dell’armata rossa. Le orecchie si muovono a scatti come antenne in cerca della ricezione migliore.

Gli occhi sono senza iride. Due pozzi di tenebra.

Mi viene il vomito. «Non potete lasciarmi perdere? Perché anche tu sei un cazzo di Dio, giusto?»

L’omuncolo infila la manina nella tasca del cappotto, prende una caramella e la succhia. «Uh, uh. Ma io sono diverso dagli altri. Io non mi annoio perché sono sempre curioso.»

«Quanto ne sono felice.» Volto la testa di lato. Bende fasciano il moncherino del braccio. «Sei stato tu?»

«Stavi morendo. Ti ho salvata perché volevo scoprire come sono andate le cose. Due di noi sono morti, non capita spesso.»

«Ti racconterò.» Non si può neanche crepare in pace. Me ne torno a casa e bevo vodka alla fragola finché non crollo. Voglio dimenticare tutta questa storia. «Ti racconterò. Ma non oggi, oggi non ce la faccio.»

«Non importa.» L’omuncolo indica le orecchie. «Percepisco le correnti elettriche nel tuo cervello.»

Batte le ali e si solleva in volo. Mi scavalca, i piedini producono un suono ovattato quando toccano il suolo dietro la mia testa. «E per i dettagli più minuti farò da solo.»

L’ombra dell’omuncolo si allunga sul mio viso. Il trapano che l’omuncolo stringe tra le manine vibra, la punta ruota velocissima. Il ronzio mi fa battere i denti.

L’omuncolo spinge la punta contro la mia fronte.

 

* * *

 

Mamma regge lo specchio davanti a me, lo inclina a destra e a sinistra perché possa osservare da ogni angolazione il mio cranio rasato. Quattro viti perforano l’osso frontale e tengono ferma la placca di metallo. Il rettangolo di acciaio è montato sopra l’arcata sopracciliare destra, all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Se li avessi.

Mamma posa lo specchio sul comodino e mi sistema i cuscini dietro la schiena. «Non ti preoccupare, il professore dice che quando i capelli ricresceranno non si noterà.»

Accenno di sì con la testa. Certo mamma, non si noterà. Come se me ne fregasse qualcosa! Le lenzuola bianche mi danno la nausea, e mi dà la nausea l’armadio bianco e le pareti bianche e la dannata porta bianca sempre chiusa. E lei si pensa che me ne freghi qualcosa dei capelli!

«Voglio tornare a casa» biascico. Ho difficoltà a parlare, e in più mi sbrodolo ogni volta che apro la bocca. La saliva sfugge dalle labbra, gocciola sul camice. Non posso neanche pulirmi, non con il polso legato alla sponda del letto. Sono stata giorni senza mangiare, sperando di sfilare la mano scheletrica, ma i bastardi non hanno fatto altro che stringere di più il laccio di cuoio.

Mamma mi asciuga le labbra con un fazzoletto di carta. «Adesso riposati.» Raccoglie dal comodino il bicchiere pieno a metà di acqua. Una sostanza giallastra che puzza come orina di gatto frizza in superficie. «Su, bevi le medicine.»

«Angela meritava anche di peggio.»

Le dita di mamma tremano, il bicchiere le scappa di mano, si infrange sulle piastrelle immacolate. La piscia di gatto le bagna le scarpe. Mamma strappa una manciata di fazzoletti di carta dalla confezione, si accovaccia per pulire.

«Lasci stare, signora.» Il dottor Falchi entra nella stanza, le mani affondate nelle tasche. «Chiamo l’infermeria.»

Si avvicina al letto, si china su di me. Sorride, senza aprire la bocca.

Chiudo gli occhi.

 

Mamma se ne è andata. Le ombre della sera hanno tinto la stanza di grigio. Il dottor Falchi ha trascinato una seggiola accanto al letto. Mi osserva da ore, immobile. Aspetta che l’analgesico che mi hanno dato a pranzo esaurisca il suo effetto.

Con la mamma non dovevo dare segni di sofferenza. Non troppi almeno. Altrimenti c’era il rischio che mi facesse ricoverare da qualche altra parte. Non che in fondo cambierebbe niente, ma se mi liberassero anche solo per pochi minuti... il sito dedicato ai suicidi aveva un paio di pagine su come ammazzarsi in fretta. Non ho dimenticato le istruzioni.

Le gengive tornano a formicolare intorno ai denti strappati. Signora, ha spiegato il dottor Falchi alla mamma, mentre io ero stordita dai farmaci, spesso le malattie mentali sono causate da infezioni batteriche. E l’unica soluzione è estirpare la sede di origine dell’infezione: denti, ovaie, colon.

Il fastidio alle gengive cresce, diventa un picchiettare inteso. Ficco le unghie nel palmo e irrigidisco i muscoli del viso. Non devo cambiare espressione, oppure...

«Possiamo cominciare.» Il dottor Falchi si alza, tra le mani dondolano i fili elettrici, i lunghi aghi saldati alle estremità tintinnano gli uni conto gli altri. «Come le spiegavo la volta scorsa, ognuno di noi supera l’orrore di vivere in modo diverso. A me basta poco per tirare avanti.»

Gli occhi del dottore ardono di nero. «Il vantaggio di essere il Dio del Dolore.»

 

 

 

FINE

   
 
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