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Autore: Katherine Christmas    31/08/2011    1 recensioni
« Si guardarono negli occhi, in silenzio. Erano sicuri che tutto il mondo in quel momento fosse in silenzio. Si guardarono senza saper far altro, perché in fondo, lo sapevano, erano soltanto dei bambini.
Osarono avvicinarsi, osarono farlo. Osare, quello che a lui aveva insegnato l’essere Re del Mondo Emerso e a lei l’essere una spia degli Elfi.
Osarono baciarsi, osarono farlo, quello che ad entrambi aveva insegnato l’Amore. »
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DUE

~ Tra ciò che è Giusto e ciò che è Sbagliato

 
Kryss era stato felice di conoscere i progressi che Imeh aveva fatto, ma ovviamente lei non lo aveva informato di quel che era successo l’altra sera a cena.
In compenso, aveva deciso che avrebbe agito quel pomeriggio, avendo qualche ora libera.
Ora era lì, in quella squallida stanza dalle mura umide e che puzzavano di muffa, e contemplava la mappa del palazzo che aveva rubato da una stanza piena di libri. Sapeva a memoria il percorso, sapeva benissimo quel che doveva fare e ancor meglio ciò che l’attendeva se l’avessero scoperta. Ma non le importava questo, mai le era importato. Ciò che più temeva era l’ira di Kryss, se avesse fallito.
Ma questo non succederà, non può succedere. So tutto a memoria, niente può andare storto, pensò Imeh per darsi coraggio.
Si era già vestita con i suoi abiti, e appena indossati i ricordi vennero a galla. Ricordò quel giorno che ormai appariva lontano, sul campo di battaglia, quando Kryss, bellissimo e inflessibile, le venne a parlare. Le disse che aveva visto la ferocia con cui si muoveva sul campo di battaglia, la facilità con cui appariva alle spalle dei nemici, e Imeh si gonfiò di orgoglio quando le disse che stava cercando proprio una come lei per una missione speciale. Ma lei era soltanto una bambina, dopotutto. Aveva preso la guerra come un gioco, come uno stimolo a sfogare tutta se stessa. E solamente ora si rendeva conto con cosa aveva giocato, a cosa aveva contribuito. Solo ora capiva che la guerra era orribile, che la morte era orribile. Aveva cercato in tutti i modi di reprimere quei pensieri, ma erano più forti della sua volontà.
Per cui le era sembrato giusto agire subito, in quel momento, in modo da metter fine a questi pensieri. Rinunciare mai, non poteva permetterselo, e se in quel momento capiva che era sbagliato, sarebbe andata contro sé stessa.
Infondo lo faceva per il suo popolo. Poco importava se erano dalla parte sbagliata. Lo avrebbe fatto perché era suo dovere. Perché lei era un elfa, e se non avrebbe fatto quello, cos’altro avrebbe potuto fare? E poi, dopotutto, sapeva anche che non avrebbe mai tradito Kryss, la sua famiglia. Anche a costo della vita.
Si alzò da quel letto di paglia, prese la cintura e le armi, e silenziosamente uscì dalla stanza.
Si mosse schiva tra i corridoi meno popolati, e gli capitò una o due volte di dover addormentare qualcuno con la cerbottana. Avrebbe rischiato il tutto per tutto in quell’occasione. Con suo grande rammarico aveva visto Theana ripartire quella mattina. Ciò significava che lei e il Re avevano parlato proprio quella sera che era quasi stata scoperta dal Re. Ma quel giorno, a pranzo, aveva visto il Re scrivere qualcosa, e, sbirciando, si era accorta che era il rapporto a sua nonna Dubhe. Aveva gioito dentro di sé in        quel momento, sicura che la vittoria non fosse mai stata così vicina.
Arrivò con inaspettata facilità ai piani superiori, dove però le guardie erano di più. Più di una volta rischiò davvero di essere scoperta, ma con un po’ di fortuna e un aiutino da parte della cerbottana, riuscì a cavarsela.
Arrivò finalmente davanti la stanza del Re, quella dove dormiva. Non l’aveva mai vista, perché lei era addetta ai pasti. Aveva saputo di serve che gli rifacevano il letto e pulivano tutti i giorni, due volte al giorno, la sua stanza. Ma ora non era un serva: ora era un’elfa, il suo peggior nemico. Ora avrebbe dovuto rubare quello che forse era il tesoro più prezioso là dentro.
Imeh era sicura che il Re non fosse qui in quel momento: non solo per il fatto che non c’erano le sue guardie fuori dalla porta, ma anche perché tutti i giorni a quell’ora sapeva che il ragazzo andava a far visita alle “Stalle Reali”. Dove sono i draghi, pensò Imeh con tristezza. Si introdusse così nella stanza di Sua Altezza, ma improvvisamente si fermò, a guardare quella stanza.
Era indubbiamente bellissima, con il letto a baldacchino, il divano in camoscio, il camino e il terrazzo, in fondo alla stanza. Per un attimo desiderò accendere il camino, o stendersi su quel materasso che doveva essere comodissimo, o addirittura uscire in terrazzo. E poi immaginò il Re, quel ragazzo della sua età, camminare là dentro, pensare, dormire. Tutto con la sua solita espressione neutra e pacata.
Ma si riscosse subito, dandosi della stupida per quegli impulsi da immatura. Si concentrò sul suo obbiettivo: il rapporto alla Regina. Cercò dentro i cassetti, sotto il letto, nell’armadio.
Alla fine, quando si iniziava a preoccupare del tempo che scorreva, lo trovò. Era appoggiato sopra il caminetto, sotto una lunga spada che probabilmente si tramandavano da generazioni. Con una calligrafia ordinata ma da bambino era scritto: Alla Regina Dubhe.
Imeh aprì la lettera.
Era una pagina fitta, e la lesse con foga, restando in piedi.
E mentre leggeva, e le informazioni si assorbivano nella sua memoria, pensava con una gioia infinita Ce l’ho fatta, abbiamo vinto! Ce l’ho fatta!
Ma arrivata alla fine, il cuore si fermò, e con lui si spense il sorriso sulle labbra. Senza alcun motivo logico e giusto, Imeh ebbe un fremito nel vedere scritto, alla fine della lettera: Cordiali Saluti, Kalth.
Quelle cinque lettere messe una dopo l’altra, dettero un nome a quel ragazzo che per lei rappresentava qualcosa di inaudito, di mai visto. Kalth. Se lo impresse in testa, involontariamente, e pensò, non senza dopo pentirsi amaramente, che le sarebbe piaciuto gridare quel nome, gridarlo fuori, da quel terrazzo della sua stanza. Gridarlo senza attendersi una risposta. Gridarlo perché i suoi simili sentissero quel nome, e si accorgessero contro chi realmente lottavano. Contro un bambino così simile a lei, contro un Mondo sì, ma minacciando cinque indifese lettere forse troppo fragili per far ricadere su di lui la colpa della rovina.
E proprio Imeh pensava a questo, combattuta tra ciò che le era sembrato giusto ma che ora appariva sbagliato, la porta si aprì e richiuse, e davanti a lei apparve Kalth.
 
**
 
« Vado da solo, grazie comunque Kyen. » disse il Re alla sua guardia del corpo, mentre si ritirava nelle sue stanze dopo aver assistito all’allenamento dei draghi. Gli erano sempre piaciute quelle bestie, così imponenti e nobili. Saliva le scale, mentre ad ogni gradino pensieri sempre più cupi ritornavano a occupargli la testa.
Theana, quella mattina, gli aveva riferito che gli Elfi avevano occupato tutta la Terra del Vento, e che Salazar era stata rasa al suolo. Rasa al suolo dalla Magia Nera. Kalth ebbe un impercettibile moto di rabbia. Maledetti Elfi… Era stata la cosa più tremenda che fosse mai successo fin ora. La città era ancora lì, com’era prima. Ma ogni traccia di vita all’interno era stata sterminata. Tutti squagliati come burro al sole, morti. Kalth non si spiegava come avessero potuto fare una cosa così maligna, orribile, e improvvisamente gli venne da piangere. Ma come tante, tante volte aveva fatto, respinse le lacrime e non pianse. Non lì, dove tutti potevano vederlo. Non lì, dove il Re sarebbe scomparso e sarebbe apparso il bambino.
Si diresse in camera sua, ma appena entrato, si trovò davanti l’ultima persona che si sarebbe aspettato.
Davanti a lui c’era Imeh, la ragazza che tutti i giorni gli portava da mangiare. Ma era diversa. Il Re capì subito di chi si trattasse: gli abiti, le armi, e soprattutto la cosa che teneva in mano. Il suo rapporto alla Regina.
Allora non mi ero sbagliato quando avevo visto i suoi capelli diventare verdi, pensò.
In un attimo capì tutto. Ogni cosa.
E la sua maschera di ferro si incrinò.
« Cosa stai facendo? Chi sei? » disse Kalth fremente di rabbia.  Ma non urlò. Non alzò la voce, non le corse incontro per ucciderla. Voleva risposte, perché non voleva crederci.
Risposte che non arrivarono.
Imeh era lì, fissa, e non si muoveva. Si chiese se fosse meglio scappare, ma dove? Kryss l’avrebbe uccisa quando avrebbe saputo che l’aveva scoperta. E allora tanto valeva morire lì, con un briciolo di dignità, per mano del nemico. Per mano di quel Re, di Kalth, si disse, ormai non più vergognandosi. Era la fine, lo sentiva. L’unica soluzione era la morte.
E invece il Re non si muoveva. La guardava fuori di sé, continuando a farle domande che lei non ascoltò. Solo una cosa aveva in testa. Hai fallito. Morirai.
« Rispondimi dannazione! » questa volta urlò, attirando così l’attenzione della ragazza che sussultò, ma sapeva benissimo che nessuno l’avrebbe sentito. Aveva espressamente chiesto di rimanere solo. Ed era meglio così.
D’un tratto l’elfa, i cui capelli erano ormai diventati verdi e le sembianze quelle di sempre, aprì la bocca e parlò.
« Uccidimi, che aspetti? » disse senza tono, con un’espressione che le ricordava quella di Kalth.
A quel pensiero qualcosa si mosse. Ed iniziò a urlare, consapevole che qualcuno l’avrebbe sentita. Perché quello che aveva davanti era il Re, perché era in una terra nemica e perché era un’elfa. E glielo disse. Lo disse a Kalth.
Con fare rabbioso prese una ciocca dei suoi capelli tra le mani, e si avvicinò pericolosamente a lui.
« Guarda, guarda di che colore sono! Guarda le mie orecchie, così diverse dalle tue. Guarda i miei occhi viola, guardali. Ti ho mentito, mi sono infiltrata nel tuo palazzo, ho rubato le tue informazioni! Avanti che aspetti? Uccidimi! »
Erano l’uno ad un passo dall’altra. Faccia a faccia. Il Mondo Emerso contro gli Elfi.
Si guardavano, ed entrambi bruciavano. Di una rabbia, di un’ingiustizia di cui avrebbero voluto liberarsi.
Fu Kalth a parlare, in modo così solenne che Imeh quasi se ne spaventò.
Con un lieve fremito nelle voce, disse: « Ucciderti… ». E scosse la testa. Come se fosse una cosa fuori dalla sua portata, come se su quel mondo non incombesse una guerra sanguinaria. Come se lei non fosse il nemico. Come se uccidere fosse davvero una cosa spregevole e sbagliata. E per un momento, Imeh pensò che era giusto quel che pensava. Che uccidere era sbagliato, e si era sempre sbagliata.
« Hai mai guardato fuori dalla finestra? Hai visto in che posto viviamo? » Così facendo la prese malamente per un polso, la portò alla finestra e scostò le tende. Quello che vide la fece rabbrividire. Non una persona che passeggiasse, non una persona felice che sorridesse. Le città era vuota, distrutta. Rovine su rovine. Morti su morti. Una coltre grigia di orrore incombeva sui tetti delle case, sulle loro vite.
« E’ questo quello contro cui il Mondo Emerso sta combattendo. E’ questa la mia guerra. E tu pensi che debba ucciderti? Che debba comportarmi esattamente come si comporta quello a cui ho dichiarato guerra? » Kalth sorrise. Un sorriso triste e sprezzante. Guardò negli occhi l’elfa. « No, non ti ucciderò. Troppo, troppo sangue è stato versato. Troppe le vite buttate all’aria. Per quanto mi riguarda, se posso anche solo salvarne una, di vita, lo farò. » Così dicendo le lasciò il braccio. Ma Imeh sentiva ancora la sua mano lì, dove l’aveva stratta. La mano di un Re Bambino, che lottava contro la morte.
La ragazza lo guardò, negli occhi. Così verdi, così intensi.
Kalth distolse lo sguardo, e nell’attimo in cui si spezzò quel contatto invisibile, la gravità di quello che stava succedendo ricadde sui ragazzi. Il Re pensò se era davvero giusto quello che stava facendo, se era giusto nei confronti del suo popolo. La spia pensò se dovesse ribellarsi, se dovesse ucciderlo in quell’istante. Ma quella era senz’altro una possibilità che non avrebbe mai preso in considerazione.
« Che ne farai di me? » le chiese a quel punto la ragazza, e quando lui tornò a guardarla si accorse di quanto quell’elfa, nonostante tutto, fosse fragile, come lui. Aveva la sua età, eppure era lì a rischiare la vita per il suo popolo. Proprio come me, pensò il ragazzo. Ma lui era nel giusto. Lei sbagliava.
Il Re fece un gesto di stizza con la mano, per poi rivolgere uno sguardo accigliato al nulla. Rifletteva.
« Resterai ancora qui. Per un trenta giorni circa, nei quali ti terrò personalmente sotto stretta sorveglianza. Poi te ne andrai. »
Imeh era visibilmente sconcertata. Le avrebbe permesso di rimanere? Ma la domanda più importate era un'altra.
« Mi permetterai di ritornare a casa? »
Kalth non rispose, ma la risposta era chiara, incisa sul suo volto. Si, le avrebbe permesso di scappare. Ma Imeh non parve rinfrancata. Chissà cosa le avrebbe fatto Kryss, quando avrebbe scoperto che il Mondo Emerso aveva piani diversi da quelli che lei le aveva riferito. L’avrebbe uccisa, sicuramente.
Ad Imeh sfuggì una lacrima, senza volerlo.
Si era illusa davvero di poter scampare alla morte, in quei pochi minuti. Ma da stupida.  L’avrebbero uccisa. Il nemico, il suo popolo… sembrava non avere più un posto ora. In entrambi i casi, sarebbe stata infelice. Tutto questo era racchiuso in una lacrima, troppo piccola perché il Re se ne accorgesse, troppo grande per riuscire a trattenerla.
« Perché non mi cacci via subito, eh? » chiese ancora la ragazza.
Kalth guardò il nemico. Quel volto da bambina, gli occhi grandi e lucidi, la mani che tremavano per la paura della morte, che aveva inflitto così tante volte… come poteva lei, essere il nemico? Il Re non seppe darsi una risposta. Già, perché aveva deciso di farla restare ancora un po’? Era davvero insensato.
Ma Kalth era stanco. Era stanco di tutti quei ragionamenti logici, di quelle diplomazie. L’avrebbe fatto, punto. Senza chiedersi un perché.
« Verranno a sapere che ci siamo parlati. E se ti caccio subito capiranno, e si domanderanno perché non ti abbia uccisa. » inventò al momento. Imeh parve crederci.
« E ora va’ via. » Disse il Re ritornando al tuono spezzante di poco prima. « Attenta a non farti scoprire, o non spetterà più a me le decisione se ucciderti o no. »
Imeh stava per uscire, quando il ragazzo la bloccò per la spalla, con il viso a pochi centimetri dal suo. Un altro contatto. Imeh tremò. Kalth ebbe un fremito.
« Non dire a nessuno di quello che è successo. Sarebbe il panico. »
La ragazza annuì, e in un attimo scomparve nel dedalo dei corridoi.
Kalth, rimasto solo, si abbandonò sul letto, chiedendosi se quello che aveva fatto fosse giusto o sbagliato.
 
 

-          La domanda “come poteva lei essere suo nemico?” è una citazione del libro “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, di Erich Paul Remark.
-          Che dire poi? Ringrazio ancora e infinitamente chi leggerà anche questo capitolo, rimanendone soddisfatto (o almeno spero!)
K. Christmas

  
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