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Autore: adamantina    09/09/2011    2 recensioni
Sono passati tre anni da quando Vanessa, Damien, Lily, Charlotte, Blake, Arthur e Jonathan si sono separati con l’intenzione di tornare alla loro vita normale. Ma cosa significa normale per chi è dotato di poteri che potrebbero cambiare il mondo? Blake non si è arreso e continua a lottare. Ma anche chi ha da tempo rinunciato a combattere per un mondo più giusto dovrà tornare in campo quando le persone a lui più care saranno minacciate …
«Non puoi biasimarci per averne voluto restare fuori, Blake. Quello che tu stai facendo è fingere di essere ancora al Queen Victoria’s, e ti rifiuti di andare avanti con la tua vita. […]»
«Stavo cercando di impedire un omicidio!»
«Sei un idealista» taglio corto, incrociando le braccia. «Ammettilo, lo sei sempre stato. E credo che il tuo vero scopo sia riportare Lily sulla retta via. Ammettilo, ancora ci speri […].»
Genere: Dark, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Queen Victoria's College'
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~RIGHT or WRONG~

 

[Lily]

 

Non posso ancora credere che le circostanze siano così favorevoli. Insomma, ho passato tre anni a cercare Arthur da un capo all’altro del mondo, con il fiato di Vahel sul collo … e all’improvviso eccolo che si presenta qui spontaneamente e chiede che gli facciamo esattamente quello che vogliamo fargli.
Sono appollaiata su uno sgabello nel laboratorio di Vahel, nei sotterranei del Queen Victoria’s College. Non amo particolarmente questo posto –la prima volta che ci sono stata, mi sono stati tolti i poteri. Temporaneamente, certo, ma io non lo sapevo.
In ogni caso, non sono io in esame adesso. Osservo distaccata Vahel che prepara tutto il necessario.
Art è seduto su una poltrona simile a quella di un dentista e osserva con attenzione i movimenti di Vahel.
«Cosa deve fare?» chiede.
«Prima di tutto, dovrò prelevarti del sangue» risponde tranquillamente Vahel. «Poi ti somministrerò una dose piuttosto massiccia di Pentothal, e dovrai restare sotto il suo effetto per qualche giorno prima che io possa ripetere l’esame del sangue. Poi li potrò confrontare, e, una volta svanita completamente l’azione del Pentothal, preleverò il materiale genetico necessario. Dovremo aspettare qualche altro giorno prima di ripetere il prelievo per la seconda volta.»
«Per un totale di … ?»
«Un paio di settimane, credo.»
Arthur fa per dire qualcosa, ma poi scuote la testa.
«D’accordo.»
Vahel sorride –quel suo sorriso gelido e inquietante.
«Non vuoi sapere se sarà doloroso?»
Art stringe gli occhi.
«L’unica cosa che mi interessa è avere quella roba.» Fa una pausa, riflettendo, mentre Vahel fruga tra i suoi cassetti e ne estrae una siringa. «Lo sarà?» chiede comunque.
Vahel ride –una risata meccanica e fredda che ho imparato a temere.
«Oh, io non mi preoccuperei troppo. Pensavo che a voi femminucce il dolore piacesse.»
Prima che Arthur possa replicare, Vahel gli annoda intorno all’avambraccio un tubicino di gomma e gli ordina di stringere il pugno, per poi pungergli senza troppi scrupoli l’incavo del gomito.
Preleva due fiale di sangue e le ritira scrupolosamente.
«Bene» dice, soddisfatto «Adesso il Pentothal. Ma andiamo su, non voglio che vomiti sul pavimento del laboratorio.»
Art fa una smorfia e in quel momento il cellulare di Vahel squilla.
«Sì?» risponde bruscamente. «Cosa? Davvero? Non è possibile … sì, sì, maledizione, arrivo subito.»
Chiude di scatto il telefono e si volta verso di me.
«Fallo tu, Lily. Quattro fiale subito, più una ogni sei ore. Io tornerò più tardi.»
«Quattro? Ma pensavo che … »
«Fai quello che ti dico e basta.»
Leggermente irritata, annuisco. Insomma, la dose standard di Pentothal è di mezza fiala, perciò mi sembra eccessivo … ma non voglio contrariarlo ancora. Sa quello che fa, immagino.
Faccio cenno ad Arthur di seguirmi su per le scale e ci dirigiamo verso la vecchia camera dei ragazzi, con i tre letti vicini e qualche poster ingiallito alle pareti.
Lui si siede su uno dei letti e mi lancia un’occhiata di sfuggita.
«Mi hanno detto che sei stata tu a rivelare a quelli dell’Area 51 che ero a Las Vegas» dice con calma.
«È così» confermo altrettanto tranquillamente.
«Perché?»
«Perché ti odiavo. Perché mi avevi tradita con Vanessa. Perché non avevo nessuna ragione logica per cui tacere» rispondo senza scompormi.
Sono ancora fermamente convinta di aver fatto la cosa giusta … o, perlomeno, di non aver fatto una cosa poi così sbagliata. Come ho detto, avevo le mie ragioni.
Mi tiro su le maniche e preparo la siringa con la prima fiala di Pentothal.
«Dammi il braccio.»
Lui obbedisce.
Cerco la vena e gli inietto il liquido trasparente. Pochi secondi dopo, è già piegato in due per i conati.
Prendo la seconda fiala e ripeto la medesima operazione.
Art ansima e si porta le mani allo stomaco, tentando di riprendere fiato.
Ancora la terza fiala raggiunge le prime due, e Art comincia a gemere dal dolore, tossendo e ansimando, scosso da fitte lancinanti allo stomaco.
Gli tengo il braccio, ma le mie mani tremano e rischio di perdere la presa.
«Stai fermo» mormoro «Solo più una, Art. Coraggio, è quasi finita.»
Lui stringe i denti e rilassa ancora il braccio in modo che io possa concludere il lavoro iniettandogli l’ultima fiala di Pentothal in vena.
A quel punto lo lascio andare, e lui scivola sul pavimento, contorcendosi per il dolore, le mani strette sullo stomaco, le urla soffocate dai denti stretti.
Mi inginocchio accanto a lui, preoccupata. Forse non avrei dovuto ascoltare Vahel. Insomma, conosco fin troppo bene gli effetti collaterali di una dose normale di Pentothal, e questa era otto volte più grande.
«Arthur? Stai bene?»
Ma lui non replica, mordendosi le labbra per non gridare.
Nervosa, afferro un libro dal piccolo scaffale lì accanto, mi allungo sul letto e comincio a sfogliarlo. Non che mi interessi davvero –è uno dei libri di Jonathan sugli animali- ma almeno mi dà qualcosa da fare che non sia guardare Art contorcersi sul pavimento.
Passano diversi minuti nel silenzio, quindi Art smette di muoversi e rimane sdraiato sul pavimento, immobile, tremante, le mani chiuse a pugno. Impiega qualche altro minuto per alzarsi in piedi e dirigersi a fatica verso il bagno. Sento lo scroscio dell’acqua protrarsi a lungo.
Quando Art ricompare, i capelli bagnati e l’espressione un po’ meno sconvolta, chiudo il libro.
«La tua soglia del dolore è piuttosto bassa» gli faccio notare.
«Lo sarebbe anche la tua, se fossi stata invulnerabile per tutta la vita» mi fa notare, piccato.
Mi limito a sogghignare.
«Cosa devo fare, adesso?» mi chiede. «Voglio dire, ho qualche giorno di attesa e … »
«Devi solo startene qua buono» taglio corto. «Devo iniettarti una fiala di Pentothal ogni sei ore per i prossimi quattro giorni, perciò niente viaggi di piacere.»
«D’accordo. Posso usare il telefono o devo considerarmi in prigione?»
«Puoi farlo, immagino.»
Tira fuori il cellulare e compone un numero rapidamente.
«Charlotte? Sono Arthur.»
Spalanco gli occhi, incredula. C’è un motivo per cui sta chiamando una delle persone che detesta di più al mondo? Ci penso per un momento, ricordandomi che probabilmente ci sono anch’io in quella cerchia di persone, eppure è qui con me.
«Come sta?»
Segue un lungo silenzio durante il quale Arthur ascolta corrucciato le parole di Charlotte.
«Posso parlargli?» Una nuova pausa. «Damien? Sono io. Come stai? … Sì, immagino. Sul serio? Perché? … Ah.»
Distolgo l’attenzione per un po’, tornando su di lui solo nel momento critico.
«Beh, sono … ecco, Dam, non posso spiegartelo. Sul serio, te la prenderesti e … no, non è niente di tremendo, ma … Senti, ti fidi di me? Allora credimi: tornerò a breve, e con una cura. … No, credo due settimane.»
Anche io riesco a sentire la replica indignata di Damien all’altro capo:
«Due settimane?!»
«Sì, lo so, è tanto, ma … no, non posso teletrasportarmi adesso, Dam. Magari tra qualche giorno. … No, intendo dire che davvero non posso. Anche se volessi non … »
Un’altra pausa prima della conclusione:
«Come vuoi. Prenditi cura di te, ok? Ti chiamerò il più spesso possibile.» Sento il suono del telefono libero: Damien deve aver attaccato. «Ti amo» finisce Arthur sottovoce, ma ormai la linea è caduta.
«Perché non gliel’hai detto?» gli domando.
Lui sembra ricordarsi solo ora della mia presenza.
«Perché lo conosco, e mi avrebbe sicuramente impedito di restarci. Credo che avrebbe potuto mandare Jonathan e Charlotte a prendermi.»
«E lui non sarebbe venuto?»
Si rabbuia istantaneamente.
«Non può.»
«Come mai?»
«È in ospedale.»
«Perché?»
«Non sono affari tuoi, Lily.»
«È mio amico.»
Art si siede sul bordo del letto, ben distante da me, e non risponde, rimettendo in tasca il cellulare.
«Avanti, dico sul serio» insisto. «Damien è mio amico. Tu mi odi, ma non ho fatto niente a lui.»
«È malato» risponde bruscamente. «Di AIDS. È in cura da Charlotte.»
Questo riesce a farmi tacere. Lo fisso, sbigottita.
«Oh, mio Dio. Mi dispiace.»
Art si stringe nelle spalle e si alza, infastidito.
«Beh, io vado» dico, in imbarazzo. «Fai come se fossi a casa tua.»
Esco, ancora scioccata, e mi dirigo in automatico verso le scale per tornare in laboratorio.
Damien malato? La sola idea mi sembra profondamente sbagliata. Il pensiero che possa morire mi lascia senza fiato … ma poi mi ricordo dove sto andando, e i sensi di colpa si fanno sentire di nuovo. Perché Damien non è l’unico in pericolo di vita, ma almeno nel suo caso io non ho nessuna colpa.
Ma scaccio in fretta quel rimasuglio di coscienza che mi rimane, seppellendola in fondo a emozioni violente di odio, nate dall’abbandono e dalla solitudine di questi anni.
Sto facendo la cosa giusta.
Deve avermi sentita arrivare, perché sento il tintinnio grave delle catene che si spostano. Nervosa, afferro le chiavi dal gancio sul muro e le infilo nella serratura, aprendo la porta a sbarre.
«Allora?» dico bruscamente, fissando la figura incatenata. «Hai pensato a quello che ti ho detto?»
Mi guarda con gli occhi socchiusi.
«Siamo nervose quest’oggi?»
Faccio un passo avanti, minacciosa.
«Non ti conviene fare lo spiritoso» ringhio, e sollevo la mano.
Un forte lampo di energia lo colpisce, facendolo saltare indietro fino a sbattere contro il muro retrostante, con più violenza di quanto volessi.
Scivola a terra e si porta lentamente una mano alla testa, da cui cola un sottile rivolo di sangue.
«Ironico» commenta solo, pacatamente, osservando le dita macchiate di rosso. «Ora so cosa si prova, almeno.»
«Hai fame?» replico, acida, tirando fuori dalla tasca una pagnotta di pane.
«Affatto» dice, ma la sua espressione lo tradisce.
Sorrido.
«Da quant’è che non mangi? Tre giorni? Quattro? Quanto pensi di poter resistere ancora?»
«Abbastanza» risponde, distogliendo a fatica gli occhi dal pane.
«Puoi averla, sai? Basta che rispondi alle mie domande. Come hai ottenuto i codici di accesso?»
Resta zitto, gli occhi a terra.
«Dov’è la tua base?»
Ancora silenzio. Mi innervosisco e stringo in mano la pagnotta fino a farla quasi sbriciolare completamente.
«Chi sono i tuoi alleati? Avanti, dimmelo. Charlotte? Vanessa? Jonathan?»
Ancora non risponde.
«E Arthur? C’entra qualcosa in tutto questo?»
«Ero solo» dice con calma forzata. «Te l’ho già detto mille volte.»
Senza riuscire a controllarmi, gli scaglio contro un’altra scarica di energia, facendogli ancora sbattere la testa contro il muro. Stavolta non si rialza.
Non sono neanche certa se sia svenuto o meno, ma non mi interessa. Richiudo a chiave la cella, riappendo le chiavi e lo guardo per un attimo, cercando in tutti i modi di non pensare.
Come se fosse possibile.
«Tornerò domani, così avrai tempo per cambiare idea, Blake.»
 
   
 
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