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Autore: Laura del Sordo    11/09/2011    4 recensioni
Miseria e nobiltà nella Grande Mela...
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Conobbi Eddie in una luminosa mattina di Settembre, una di quelle mattine un po’ frizzanti della Grande Mela, che poi si trasformano in giornate ancora calde ed in serate di nuovo fresche, come se l’Estate e l’Autunno, ormai prossimo, giocassero a rimpiattino, lei un po’ anziana, ma sempre attraente, lui giovane e scanzonato.
 
Avevo trovato un parcheggio quasi immediatamente, una fortuna inaspettata, il che aveva di colpo reso vuoto ed ingombrante il tempo in più che mi prendevo uscendo di casa, la mattina, per andare in ufficio.
 
Programmavo infatti con largo anticipo l’arrivo, in modo da potermi godere la lettura di qualche quotidiano e l’ennesima tazza di quello che noi americani ci ostiniamo a chiamare caffè’, suscitando le ire degli intenditori.
 
Quel giorno decisi di non andare immediatamente a sedermi davanti al PC per leggere la posta, che avevo chiuso solo qualche ora prima, ma di portare giornale e colazione da consumare nel parco che, alle 8 di mattina, sembrava ancora il miracolo che in effetti è: un cuore verde, in mezzo a cemento, motori, clacson e gente che corre, perdendosi per le strade della ”city that doesn’t sleep” come rivoli d’acqua che si disperdono sotto i marciapiedi dopo un temporale.
 
Le panchine erano quasi tutte già occupate.
 
Perdigiorno di tutte le razze e di tutte le lingue, anziani insonni che uscivano di casa all’alba finché il tempo ed il clima lo consentivano, uomini e donne che iniziavano la propria giornata con una discutibile e sana corsa e qualche piegamento,studenti che facevano i dog sitter per raggranellare qualche dollaro e gente che si risvegliava, si trascinava fuori casa, cercando di sopravvivere ad una nuova giornata in questo mondo di merda.
 
Eddie mi parve non appartenere a nessuna di queste categorie.
 
Era ciò che sembrava, un vecchio negro, i crespi capelli neri ormai grigi, una tuta da ginnastica di colore indefinito, che forse una volta era stata nuova e nera, esattamente come lui.
 
Lo squadrai di sottecchi, indeciso se sedermi o no accanto a quel personaggio un po’ malmesso.
 
Aveva gli occhi chiusi e temevo potesse essere lì a smaltire i postumi dell’ennesima sbronza e che comunque, non lo nascondo, avrebbe potuto infastidirmi già solo con la sua presenza.
 
Allora ero molto giovane, un grintoso, stronzetto e giovane avvocato in carriera, e tutto ciò che esulava dal mondo ordinato e lindo che avevo in mente di costruirmi intorno lo vedevo come una minaccia.
 
E poi Eddie era nero, no ?
 Nero davvero.
Come la notte.
 
Sì, nero, di colore, insomma uno di quei cazzo di eufemismi con i quali chi, come me,  appella con una sorta di falso e dolciastro rispetto quelli che, loro malgrado, appartengono a categorie di umanità considerate inferiori.
 
Il mondo è razzista, noi tutti lo siamo, ed è una forma di difesa, difesa dal diverso, fisicamente e culturalmente, difesa da ciò che mette in discussione gli ideali o i disegni che noi abbiamo in testa. E che consideriamo gli unici validi.
 
Sto parlando di qualche anno fa, di quando l’idea di un Presidente nero avrebbe fatto morire dal ridere almeno quanto quella di un Presidente ex attore di film western avrebbe fatto sganasciare gli americani negli anni ’70…
 
Lui era lì, seduto su una panchina,  proteso verso il sole in maniera composta, quel sole che era sorto da un po’ e che si impegnava a dare del filo da torcere alla stagione fredda.
 
Fredda era un eufemismo.
 
New York diventa una ghiacciaia impraticabile, una puttana frigida che ti stritola in un abbraccio indesiderato.
 
Decisi che mi sembrava innocuo, e mi sedetti accanto a lui, cercando di mantenermi il più possibile distante, almeno per quanto lo consentissero le ridotte dimensioni della panchina.
 
Mentre mi affaccendavo nel sistemare il mio giornale e cercavo di mantenere in equilibrio sulle ginocchia il mio bicchierone di caffè, lo scrutavo con la coda dell’occhio.
 
Non un movimento, forse davvero stava dormendo.
 
Mi passò per la mente che potesse essere morto, cazzo… e quasi mi rovesciai tutto addosso.
 
No, non si muore a Settembre a New York.
 
A Gennaio, a Febbraio, anche a Marzo, forse, quando chi non ha fissa dimora dimentica di cercarsi un riparo perché rincoglionito dall’alcool o pensa che sia sufficiente una coperta per dormire e risvegliarsi il giorno dopo.
 
Però il respiro c’era, regolare e tenue, come quello di chi è in meditazione da lungo tempo.
 
Non so, forse mi aspettavo che almeno aprisse gli occhi e mi guardasse, curioso del nuovo venuto, ma non avvenne nulla.
 
“Beh, meglio così”, dissi a me stesso, concentrandomi sulla prima pagina del giornale, che avevo accuratamente disteso sulle gambe.
 
Un problema in meno.
 
“Il sole di Settembre è accecante, non trovi anche tu, amico ?”, esordì l’uomo all’improvviso, provocandomi senz’altro un piccolo arresto cardiaco, che cercai di dissimulare come potei, reprimendo un repertorio vastissimo di imprecazioni.
 
Mi girai lentamente verso di lui.  Aveva sempre gli occhi chiusi.
 
“Mmmm-mmm”, risposi intelligentemente, in modo da non sembrare scortese, senza però dare l’idea che fossi pronto e disponibile a fare conversazione.
 
Avevo solo mezz’ora, e volevo godermela, prima di tuffarmi in pratiche noiose, feroci lamentele e desideri di vendetta di quelle teste di cazzo dei miei capi, colleghi ed, ahimè, clienti.
 
L’uomo sembrò aver colto il mio desiderio di privacy e rimase in silenzio per un po’.
 
“Mi chiamo Eddie, amico, o almeno così mi hanno sempre chiamato tutti...
Non so che nome avrei avuto se fossi rimasto nella mia terra (sorrise).
O meglio, se voi bianchi aveste lasciato in pace noi poveri, sporchi, negri (sorrise), invece di sballottarci sulle vostre navi e di scaricarci qui, a sudare e gemere e a cantare nei vostri campi di cotone e di chissà cos’altro, per poi decidere che la schiavitù era un abominio e che andava abolita, e litigare per questo, ah ah”.
 
In poche parole, sottolineate da una risata roca, era riuscito a raccontare la storia di una delle tante vergogne attribuibili alla Grande America,  quella bella raccolta che inizia con lo sterminio dei nativi ed arriva alla guerra del Vietnam…per proseguire oltre, naturalmente.
 
“Però, se non ci fossimo stati noi poveri, sporchi, negri (sorrise), a quest’ora non avreste avuto il jazz, il blues e qualcuno con cui prendervela ogni tanto, qualcuno con cui divertirsi al punto da stabilire dove potevamo entrare e dove no, da poter prendere a calci nel culo e che vi rendesse possibile giocare ai babau cattivi con cappucci bianchi e simpatici falò’…”, proseguì con ironico sarcasmo, ma senza dare l’idea di volermi provocare, sottolineando le sue parole con una risata rauca, che sapeva di whisky da poco prezzo.
 
Sembrava che in realtà parlasse con se stesso, che si raccontasse ovvietà da sempre, con o senza pazienti interlocutori disposti a convenire con le sue idee.
 
Cadde di nuovo il silenzio, che io non avevo alcuna voglia di infrangere.
 
Nossignore, un negro chiacchierino di prima mattina era davvero troppo.
 
“Vedi, amico”, esordì Eddie dopo un altro po’, “qui non si vive male. Ho due pasti caldi al giorno, quando mi ricordo di mettermi in fila prima che sia finito tutto, la chiesa dove rifugiarmi quando piove, il vostro Dio da pregare come mi ha insegnato mia madre, chissà se ci credeva davvero, e quando qualcuno lascia un giornale su una panchina, beh, io so leggere, amico, e mi piace essere informato di quello che succede nel mondo, anche se poi spesso sto male. E piango. Piango, amico, quando vedo violenza, bambini maltrattati, gente che muore semplicemente perché è nata nel posto sbagliato. Eddie piange, amico, e si dice che fuggire di qua per tornare nel mondo dei suoi avi forse sarebbe una sciocchezza, ma… qui fa troppo freddo. Tutto qui è’ freddo, amico, cazzo. Non lo vedi ? La gente, le strade, il vento, e quella neve che cade a Dicembre, quando tutti pensano di scaldare i loro cuori con vetrine colorate e illuminate, ma sotto ai piedi hanno fanghiglia e merde di cane e neve sporca che ti gela fino dentro il culo. Io non sopporto il freddo, amico, non lo sopporto proprio”.
 
Il discorso era stato articolato, pieno di foga, una sorta di foga repressa, e non me la sentivo di non rispondere, magari con qualche stupida parola di circostanza.
 
Chiusi il giornale, alzai gli occhi, e mi trovai a dibattermi in uno sguardo nero, profondo, lucido ed intelligente, intelligentemente consapevole, per meglio dire, duro e caldo nello stesso tempo, ironico e drammatico insieme, di quegli sguardi che si aprono e che si impongono fino a diventare sfondo, schermo, orizzonte.
 
E che non ti permettono di vedere altro, o di distrarti.
 
“Sì, ha ragione”, replicai, “fra un po’ questo sole sarà solo un ricordo e tutti avremo a che fare con il freddo di questa città’, che non lascia scampo”.
 
Che banalità. Che bella frasetta da scemo.
 
Ma proprio non mi veniva altro, ed almeno non sarei sembrato maleducato.
“Sì, amico, è proprio così”, disse Eddie.
 
 Se fosse davvero soddisfatto della mia ovvia risposta, non saprei proprio dirlo.
Continuò a fissarmi, tranquillo.
 
“Sai cosa vuol dire avere freddo, amico ?
Voglio dire: sai cosa vuol dire avere davvero freddo ?
Sapere che devi lavare gli abiti che indossi, ma che nel frattempo devi trovartene degli altri perché potresti morire congelato, ed allora rinunci fino a puzzare come una faina,  in modo tale che nemmeno i volontari che ogni tanto ripescano qualcuno di noi dal mondo dei morti dove sta per precipitare, riescono a starti accanto ?
 Sai davvero cosa vuol dire non sentire più la punta del naso ?
O renderti conto che il pezzetto di ghiaccio che ti è entrato nella scarpa si sta sciogliendo ed il gelo sta trovando l’ingresso per entrarti dentro fino a non farti avvertire più nulla ?
O avere le mani che tremano al punto da farti cadere addosso il cucchiaio mentre stai mangiando ?
Ecco, vedi, amico, questo è’ il freddo, quello vero, quello che si impossessa di te ogni volta che apri gli occhi e che non ti lascia in pace fino a che non li chiudi di nuovo, sperando che non sia per sempre. Quel cazzo di freddo, amico, proprio quello, e fra un po’ sarà qui”.
 
Nei brevi istanti di quella appassionata e dolorosa fotografia, Eddie si era proteso verso di me, e solo nella conclusione sembrò rendersi conto che non era colpa di nessuno, tantomeno mia, se l’Inverno, di lì a poco, avrebbe steso i suoi tentacoli su tutti, ma facendo più male ad altri.
 
“Ho un sogno, amico”, proseguì Eddie, accasciandosi sulla spalliera della panchina e guardando il sole, “un sogno di quelli che ti ossessionano la vita ma che te la fanno vivere con speranza, cercando di sopravvivere un giorno dietro l’altro perché hai un obiettivo… Voglio tornare in Africa. Certo, “tornare” per modo di dire, non ci sono mai stato. Ma proprio per questo voglio “ tornare” lì dove i miei avi sono nati, dove il sole ti avvolge da mattina a sera, dove trovare un bicchiere d’acqua è difficile come trovare l’oro… Voglio dormire all’aperto, voglio svegliarmi avvolto dal calore del sole, voglio alzarmi e non dovermi coprire, voglio non dover contare alla rovescia i giorni che mi separano dall’arrivo della bella stagione. Non voglio morire qui, amico, abbracciato da cartoni o da vecchie coperte, svegliandomi di soprassalto per il timore che il fuoco che ho acceso si spenga, ed il giorno mi trovi assiderato, duro e gelido come uno storione che ha confuso la stagione dell’amore. Sono vecchio, ma sogno ancora, amico”.
 
Tacque.
 
In un attimo vidi la mia casa con gli occhi della mente.
 
Il familiare gesto di accendere le luci e di trovarmi  in un ambiente accogliente grazie al futuristico impianto di riscaldamento, la possibilità di infilarmi sotto il getto avvolgente della mia tecnologica doccia per poi asciugarmi e sparire in un letto tiepido ed invitante…
Quante cose diamo per scontate, quante piacevoli abitudini sembrano quasi tediarci con la loro ripetitività, e le vediamo solo come ulteriori doveri da affrontare, prima di lasciarci andare a notti e giorni tutti uguali.
 
“Sto mettendo via i soldi da tempo, amico. Ho indossato gli stessi abiti per anni, e li ho gettati via solo quando qualche anima buona me ne ha dati degli altri. Ho cantato le canzoni con le quali mi cullava mia madre agli angoli di mille strade, ho raccolto cartoni fino a spezzarmi la schiena, ho mangiato solo quando potevo rimediare un pasto. Ho annullato me stesso, per tanto tempo,  perché voglio rinascere sotto il sole”.
 
Che nodo alla gola, ragazzi.
 
Si fa presto a dire miseria, inalberare uno sguardo afflitto, ed a voltare lo sguardo in un’altra direzione.
 
Lo facciamo sempre, no ? Tiriamo sul il finestrino della macchina ed accogliamo con sollievo il semaforo verde che ci consente di fuggirne la vista.
 
Lontano da sguardi spenti, parole biascicate, litanie ed olezzi poco gradevoli.
 
Ma quando quello sguardo ce lo hai davanti, e ti rovescia addosso la sofferenza, i sogni, il dolore, le privazioni e la speranza, beh, ti ritrovi lì a pensare a te stesso come ad un pupazzo, con esigenze da pupazzo ed orizzonti da pupazzo e sogni da pupazzo.
 
“Sei simpatico, amico, anche se parli poco”,  disse Eddie, sorridendo, dopo un po’.
 
“Sai, nessuno si siede vicino ad un vecchio negro puzzolente e lo ascolta parlare delle sue scempiaggini. Volontariamente, intendo. Oh, io sono innocuo, mi limito a parlare, ma spesso chi mi siede accanto, posto che decida di farlo, è in visibile imbarazzo, e dopo un po’ guarda l’orologio e lentamente si alza, e se ne va. Eddie invece rimane qui fino a che c’è il sole. Perché, fino a che c’è il sole, Eddie rivede se stesso quando era giovane e forte, quando sfidava la neve e gli inverni di questa città senza timore, quando veniva cacciato via solo perché era un negro (sorrise), ma riusciva a farla a tutti lo stesso, portando la propria gioventù in giro come un trofeo, e coltivava i propri sogni sapendo che di lì a poco si sarebbero avverati. Invece non è sempre così, amico. La vita ti gioca brutti scherzi, ed alla fine nessuno ti perdona non solo di essere negro, ma anche e soprattutto di essere diventato, all’improvviso, un vecchio. Un vecchio inutile, un poveraccio, uno che nessuno vuole accanto perché odora come un canale di scolo e parla di cazzate. Eppure, Eddie ha ancora dei sogni, e sono sogni caldi, profumati di zenzero, ed in questi sogni ci sono immensi spazi, animali liberi e selvaggi e donne dalla pelle scura come la sua, amorevoli, ma forti e dure come rose di sabbia modellate dai deserti.
Eddie un giorno sarà lì e vedrà tutto questo, amico. Eddie VIVE per questo”.
La passione con la quale aveva parlato di sé e dei suoi sogni lo aveva un pochino provato, chiuse gli occhi e si abbandonò di nuovo sullo schienale della panchina, con aria stanca, gli occhi chiusi.
 
In quel momento partirono le mie, di riflessioni, ed ogni sforzo di trattenerne il dipanarsi fu inutile.
 
Quali erano i miei, di sogni ?
 
Una nuova auto, quando la “vecchia” aveva meno di un anno ?
 
Un vacanza di 15 tiratissimi giorni in un posto lontano ed esclusivo, inevitabilmente costosissima, circondato da coglioni tirati a lucido e da reginette dell’eros espressive come un uovo sodo  ?
 
Serate a bere e ad ubriacarmi con gli amici ?
 
 Amici, poi.
 
Di alcuni, mi sfuggiva il nome appena i sintomi della sbronza della sera prima lasciavano il posto a dolorosi e pulsanti mal di testa.
 
Una donna che mi desiderasse sopra ogni cosa per poi ricordarsi che esistevo solo quando bisognava saldare i conti ?
 
Una casa ancora più grande e più prestigiosa, perché quella dove abitavo adesso non era nella zona “giusta” ?
 
Seguii un impulso…Il piccolo benestante generoso in cerca di riscatto morale…
 
“Eddie, la prego, venga a casa mia. Una bella doccia, l’aiuto io. Poi un pranzetto… Non sono granché come cuoco, ma me la cavo, e poi, se vuole, e se non sa dove andare, ho la stanza degli ospiti, tanto non viene mai nessuno…Poi ho qualche abito che non indosso più, sa, negli ultimi tempi ho fatto poco movimento e sono ingrassato, e poi…”, tacqui, un po’ affannato, riflettendo sull’opportunità o meno di continuare.
 
Non volevo che Eddie si sentisse obbligato o che pensasse che l’Intrepida Giovane Marmotta volesse compiere la Buona Azione del giorno.
 
Eddie mi fissò, con uno sguardo che non riuscii a decifrare.
 
“Grazie, amico. Da molto tempo Eddie non riceveva un invito. Ma voglio godermi ancora questo sole, fino a che ci sarà. Voglio scaldarmi fino a che posso. Non prendertela. Non trascorrerà molto tempo che gli occhi di Eddie si chiuderanno per sempre, ma fino a quando Dio vorrà darmi tempo, prenderò tutto il sole che posso e lo lascerò entrare dentro di me, qui come altrove”.
 
Non posso nascondere che mi sentii sollevato…E che mi vergognai, per questo.
 
Che stronzo.
 
In un attimo avevo visto il mio altezzoso portiere squadrare me ed il mio improbabile ospite, chiedersi se fossi impazzito, magari chiamare la sicurezza, e come l’ipotetico incontro con un vicino curioso e linguacciuto mi avrebbe immediatamente portato ad essere l’argomento condominiale del giorno.
 
Decisi comunque di lasciare il mio biglietto di visita all’uomo.
 
Un gesto di una pomposità e di un formalismo fuori luogo, lo so.
 
“Ecco, beh, qui c’è il mio indirizzo. Se cambia idea, sa dove trovarmi, Eddie. So che gli inverni possono essere lunghi e tristi e gelidi, qui, anche quando si ha la fortuna, come me, di possedere una casa piena di comfort.
La prego, se si trova in difficoltà, venga a trovarmi”.
 
“Promesso, amico”, sorrise Eddie.
 
Prese il biglietto con una mano resa un po’ deforme dall’artrite, e con un sospiro di soddisfazione si riadagiò di nuovo sullo schienale della panchina, incrociando le braccia dietro la testa, ancora con il mio biglietto fra le dita.
 
Il caffè era irrimediabilmente freddo, ora. Altro che brodaglia.
 
E dovevo andare in ufficio.
 
Mi fermai a riflettere su chi di noi due fosse il più infelice: io, con i miei clienti teste di cazzo tristi ed arrabbiati col mondo, o Eddie, libero e con poco di cui preoccuparsi, almeno fino a che non fosse arrivato l’inverno a stendere la sua fredda mano ed a mietere vittime fra quelli come lui.
 
Poco, lo avevo definito poco…
Eppure, lì per lì, poco mi sembrò davvero.
 
Io invece dovevo finire di pagare l’appartamento dove vivevo, rinnovarne l’arredamento, ricordarmi di pagare la rata del condominio, portare l’auto dal meccanico per il tagliando…
 
E poi la spesa, un nuovo giubbotto, ritirare le giacche invernali  dalla lavanderia,  la festa per il compleanno di quell’arpia mia madre da organizzare e…
 
Incombenze, solo incombenze, un’agenda fitta di impegni e scadenze di merda, di lavoro e non, che ogni giorno si stringevano invisibili intorno al mio collo.
 
Alla fine, di tutto il guadagno di un anno, e di tutto il tempo di un anno, rimanevano poche briciole, fatte di dollari e di fretta, di cui liberarsi velocemente per trascorrere qualche giorno di vacanza in luoghi esclusivi dove divertirsi forzatamente come un pagliaccio, farmi male con lo sport che non avevo il  tempo di praticare durante l’anno lavorativo, tirare tardi, bere e scoparmi il maggior numero di donne conosciute e dimenticate subito dopo.
 
Eddie sembrava essersi assopito e non volli disturbarlo.
 
Lasciai il giornale che avevo a malapena aperto sulla panchina, gettai il bicchierino di caffè’ imbevibile in un cestino e mi incamminai verso l’ufficio.
 
Da quel giorno, il tempo trascorse, e trascorse velocemente…
 
Giorni tutti uguali, uno dietro l’altro, a correre dietro alla vita senza mai avere la sensazione di averla catturata.
 
E Settembre che lascia spazio ad Ottobre, alle foglie che cadono ed all’aria che d’improvviso diventa tagliente, ogni giorno di più.
 
L’odore del riscaldamento, quello che fa tanto Inverno, comincia a diffondersi e ti catapulta nella stagione fredda senza che nemmeno tu te ne renda conto.
 
Natale si avvicina a grandi passi e New York diventa un enorme albero colorato e scintillante di luci, le piazze sono piene di gente che vaga su e giù alla ricerca di regali che il giorno dopo verranno archiviati e gli angoli delle strade pullulano di Santa Claus che cercano di ingannare i passanti ostentando barboni bianchi, ma lasciando ben visibili occhi tristi e sognanti, e che si tirano sulle ginocchia bambini un po’ interdetti e preoccupati, fra le risate dei genitori.
 
Le vetrine sono piene di decorazioni, le pasticcerie espongono leccornie e per chi ha intenzione di sfidare l’aria pungente ci sono piste di pattinaggio su ghiaccio ed artisti di strada.
 
Ma se si abbassa lo sguardo, la neve ai margini delle strade è sporca, schiacciata ed i vicoli bui rimangono vicoli bui, perché lì il Natale spesso non arriva, ma si limita ad illudere l’anima di chi ha in mente festeggiamenti stereotipati ed orge di cibo e tintinnii di campanelli che non significano nulla, che non regalano speranze, ma solo la pallida idea che quel clima da fiaba duri per sempre.
 
O almeno fino al giorno dopo. O al prossimo Natale.
 
Trascorsi l’ennesima sera del 24 con i miei e poi, dopo mezzanotte, finii in qualche locale di Queen a bere con gli amici di sempre, quelli con i quali trascorrevo week end tutti identici, a cercare novità e brio in azioni e luoghi che erano gli stessi da sempre e che ormai non dicevano più nulla, senza che nessuno di noi avesse il coraggio di guardarsi negli occhi e dirselo.
 
Il 25 Dicembre mi svegliai con un senso di nausea ed un’emicrania terrificante, quella che mi teneva sempre compagnia, ogni Santo Natale.
 
E fu il campanello, a svegliarmi, altrimenti credo che avrei dormito almeno fino al giorno dopo.
 
Barcollai verso la porta, stringendomi addosso una felpa pescata a caso da dietro la porta della mia camera dal letto ed andai ad aprire.
 
Fuori c’era un uomo di indefinibile età, con una folta barba sale e pepe, malamente infagottato in abiti informi.
 
Credo di aver biascicato qualcosa, la bocca impastata e lo sguardo lacrimoso, una specie di formula di cortesia, ma non ne sono certo.
 
L’uomo mi porse un pacchetto, si assicurò che potessi tenerlo in mano e contemporaneamente mantenere la stazione eretta, e poi, con un cenno di saluto appena percettibile, si allontanò, scendendo le scale lentamente, ma senza voltarsi indietro.
 
Richiusi la porta, e mi rintanai di nuovo al caldo del mio appartamento, ancora preda del sonno, dello stordimento e del mio feroce mal di testa.
 
Posai il pacchetto sul tavolino del salotto e mi diressi in cucina per prepararmi un caffè.
 
Mi sedetti con la testa fra le mani, le tempie che tamburellavano ritmicamente e la necessità di caffè, a litri, aspirina, a tonnellate, un bagno caldo e qualche ora per riprendere le sembianze di un essere umano.
 
Mi ero quasi dimenticato dello sconosciuto e del pacchetto.
 
Incuriosito, e lievemente più’ lucido rispetto a quando il campanello aveva posto fine al mio sonno, tornai in salotto e lo vidi sul tavolino dove lo avevo lasciato.
 
Lo presi e mi accomodai sul divano, cadendoci quasi sopra, in realtà.
 
Era un pacchettino piccolo, di cartone un po’ sporco, chiuso con del nastro adesivo.
 
Sopra c’erano il mio nome ed il mio indirizzo scritti con un pennarello nero ed una grafia un po’ tremolante.
 
Lo aprii e subito mi cadde in grembo una mazzetta di banconote tenute insieme da un elastico giallo.
 
Sul fondo del pacchetto, un biglietto ripiegato.
 
“Amico,
non ho dimenticato il tuo invito.
Mi sei sembrato una persona della quale avere rispetto, visto che ne hai avuto per me.
Se stai leggendo queste parole, vuol dire che il mio vecchio compare Ol’Man ha fatto ciò che gli avevo chiesto e ne sono felice (anche perché sarebbe la prima volta).
Ho sempre avuto intuito per gli esseri umani e, quando ho potuto, ne sono stato alla larga.
Ma qualcuno è riuscito ad entrare in questo vecchio e malandato cuore, e so che ci sono persone, poche,  di cui posso fidarmi.
In questo pacchetto ci sono mille dollari.
Mille dollari guadagnati in tutta la mia vita, e messi da parte uno sull’altro, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per alimentare il fuoco dei sogni. Dei miei sogni.
Un fuoco che mi ha scaldato anche quando fuori era freddo.
U n fuoco che ho alimentato ogni momento,  anche quando mi sembrava di non farcela più, anche quando chi aveva promesso di pagarmi mi cacciava via, tanto non avrebbe avuto nulla da temere da un povero vecchio negro ubriaco.
I sogni tengono in vita, amico, lo sapevi ?
E se hai lo stomaco vuoto, e nessuno ti vede, nessuno sa che esisti, e potresti morire senza che nessuno se ne accorga, i sogni ti salvano sempre.
Beh, quasi, sempre.
Stavolta non ce l’ho fatta, amico.
L’inverno è arrivato, trascorrerà, tornerà di nuovo la bella stagione.
L’Africa è lì, da secoli, ma Eddie non c’è più e non la vedrà mai.
E se Ol’Man ti ha consegnato i miei soldi, vuol dire che Eddie è morto, ma che tu sei ancora vivo e puoi fare qualcosa.
Mille dollari non sono nulla per te, lo so bene, ma possono essere la salvezza per chi, come Eddie, non ha nulla.
Usali per aiutare qualcuno, amico. Non importa chi, lascio a te la scelta.
Il mondo è pieno di sofferenza, e qualche volta una mano tesa, come quella che tu hai teso a me, la allevia un pochino.
Soprattutto se, come Eddie, si è soli, poveri, vecchi e stanchi. E negri.
Ci ho provato, amico, ci ho provato.
Ma questo inverno non è stato buono con me.
Troppo freddo, cazzo, amico.
 
Eddie
 
P.s.: sono sicuro che Ol’Man se n’è andato subito dopo averti consegnato il pacchetto. Stronzo, vecchio, stupido ed orgoglioso. Se puoi, dai una mano anche a lui”.
 
Chiusi gli occhi, e mi lasciai scivolare sullo schienale del divano, lentamente.
 
Il mal di testa continuava a non darmi tregua.
 
E’ trascorso del tempo, da allora.
 
Sono grato ad Eddie per quello che mi ha insegnato, senza sapere di averlo fatto.
Ho ritrovato il valore della mia vita, il gusto di dire no a persone ed eventi inutili o anche solo improbabili.
 
Ho imparato a dedicare il mio tempo a chi non ha nulla ma ha bisogno di poco, come forse tutti abbiamo, una volta eliminati gli inutili orpelli con i quali crediamo di mettere a tacere il desiderio di amore che vive e palpita, a volte inascoltato, a volte inesprimibile, dentro ognuno di noi.
 
Con i mille dollari di Eddie ho messo su una piccola organizzazione che si occupa dei senzatetto di New York.
 
Ce ne sono diverse, è vero, ma “Gli amici di Eddie” organizza colazioni a Central Park nella bella stagione e, quando fuori e freddo, interminabili tornei di scacchi e Risiko nella nostra sede, un vecchio edificio, un ex fabbrica di smalti che ho ristrutturato con l’aiuto degli” amici di Eddie”, quelli veri, e quelli nuovi,  che chiamo così in suo ricordo.
 
Ora, quando comincia a fare freddo, giro per le strade e cerco di aiutare chi è solo,  ha fame e non ha dove andare, o anche soltanto chi non ha nessuno con cui parlare.
 
Giriamo per i vicoli di New York con una vecchia auto piena di the caldo, di strumenti di primo soccorso e con il riscaldamento sempre acceso.
 
E quando mi avvicino a qualcuno che ha bisogno di noi e che non ha nessuno, o che è semplicemente in difficoltà, mi chino fino al suo livello, gli porgo la mano, lo aiuto piano ad alzarsi e gli sussurro all’orecchio “Qui non puoi stare, ora ci siamo noi ad aiutarti. Troppo freddo, cazzo, amico, vero?”. 

  
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