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Autore: Sophrosouneh    20/09/2011    8 recensioni
“Il vento non soffiava quella sera, i rami degli alberi dello stretto selciato rimanevano muti, eppure, se ben ascoltava e tendeva l’orecchio, poteva sentire l’ovattato suono scricchiolante delle ossa e delle cartilagini che si dibattevano dentro al suo armadio polveroso. Sospinti da un vento eterno, danzavano e battevano i denti, richiamavano incessantemente la sua attenzione e lo ossessionavano con le loro voci infantili.” (Cit.)
Una tematica tanto forte quanto attuale su cui si desidererebbe tacere, prego nessuno di offendersi per quello che ho scritto, ma ci sono certi comportamenti che, compiuti da qualsiasi persona sulla terra, ritengo siano solamente degli abomini.
il genere è un misto tra il reale e il nonsense (ho preferito non scendere troppo nel dettaglio).
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La morte di Belzebù.

 Avvolto dalle tenebre dello stretto corridoio in pietra, un uomo vestito di nero si avviava con passo svelto verso la camera in cui dimorava. In lontananza si udiva il ticchettare dell’acqua sulle tubature, ormai corrose dalla ruggine, che, come una nenia immortale, accompagnava il raccapricciante canto dei corvi delle streghe.
Tutta la città taceva, le valli e i monti lontani. Il tempo pareva essere destinato a fermarsi, quella notte per sempre.
Quell’uomo, chiamato Belzebù, aprì lo spesso portone della cella in cui risiedeva stabilmente da circa quindici anni. Con mano tremante si ravvivò la chioma brizzolata e segnata da evidente canizie, e con passi incerti si avvicinò al piccolo comodino di legno, sopra il quale un’alta pila di libri consunti faceva largo sfoggio di sè. Libri dalle copertine logore e consumate, dalle pagine ingiallite dal tempo e da quelle sue mani lorde. Ne afferrò uno e si avviò verso la poltroncina che teneva appoggiata sotto l’unica finestrella della stanza buia.
La luce della luna filtrava materna dalla spessa grata. Era una bella serata quella, nessun rumore lo distraeva da quei suoi pochi minuti quotidiani di meritato riposo.
 
“La tramontana soffia al gran ballo degli scheletri!” pronunciò solenne Belzebù, leggendo la prima pagina che gli capitò sotto gli occhi.
Il vento non soffiava quella sera, i rami degli alberi dello stretto selciato rimanevano muti, eppure, se ben ascoltava e tendeva l’orecchio, poteva sentire l’ovattato suono scricchiolante delle ossa e delle cartilagini che si dibattevano dentro al suo armadio polveroso. Sospinti da un vento eterno, danzavano e battevano i denti, richiamavano incessantemente la sua attenzione e lo ossessionavano con le loro voci infantili.
 
“La forca nera mugola come un organo di ferro!” continuò imperterrito.
L’ira di un mondo che, sapeva, gli si sarebbe riversata a dosso, se solo si fosse saputa la verità su quali orribili atti quelle mani e quel corpo corrotto erano stati in grado di compiere.
La pena di morte non era più in vigore da secoli, neppure nel suo ordine, ma i suoi superiori non disdegnavano severi metodi punitivi.
 
“E i lupi rispondono da foreste violette:”
Sì, la Lupa della dannazione se lo stava mangiando già da tempo. Immondo essere corrotto dai piaceri della carne. Si era tramutato in un mostro orribile, sebbene così tante parole avesse speso a predicare il bene e la giustizia, si era trasformato nel peggior essere esistente.
E quel colore, il Viola, rappresentazione di tutta una vita di penitenza e sacrificio.
Tutto adesso veniva trasportato sulle ali di quel vento ormai prosciugato, tanto opprimente quanto inutile.
 
“all'orizzonte il cielo è d'un rosso inferno...” Concluse sussurrando piano.
Una poesia fantastica di Rimbaud sembrava suonare come un’oscura profezia di morte e di sventure. Forse era un caso che il libro si fosse aperto proprio a quella pagina? O forse qualcuno voleva fargli sapere; voleva che leggesse il suo destino scritto nero su bianco?
Ricordava ancora il primo giorno in cui aveva ceduto al peccato, in cui aveva lascito cadere la sua mano lasciva sulle pudiche creature. Quegli innocenti angeli del signore erano per lui diventati come una droga.
Le autorità avevano dato un nome a quella sua malattia morbosa, la chiamavano pedofilia. Ma il suo non era che un innocuo passatempo, possibile che lo si potesse considerare una malattia? Infondo, lui non voleva altro che il loro bene, ma cosa ci poteva fare se, ogni giorno di più, sentiva sul collo il richiamo della tenera carne? Ancora non capiva di essere diventato uno schiavo.
 
Ed ecco che il rumore di ossa, sospinte dal vento fermo dell’armadio, si fece più forte. Gli scheletri gli  urlavano contro, sibilavano, schioccavano i denti.
“Tacete maledetti!” urlò in preda al panico portandosi le mani alle orecchie, non voleva sentire più niente, voleva farla finta, voleva essere lasciato in pace.
 
Si tolse il collarino bianco che gli stingeva il collo pallido, e lo ripose sull’inginocchiatoio con mano tremante.
Fu allora che lo vide.
Con un movimento repentino se lo tolse dal polso e lo strinse con forza nella mano malferma. Il sinistro rumore finalmente tacque. Come aprì la mano, lasciò che le sfere rosse e lucide scivolassero verso il basso.
Il rosario scintillava tintinnante nella notte, come i denti di mille e più spiriti irrequieti e assetati di vendetta. Ogni perla recava un peccato, una violenza perpetrata. Mai quel semplice oggetto era parso più pesante, sembrava volesse spezzargli le ossa e strangolarlo nelle sue spire fameliche.
 
Come alzò lo sguardo, iniettato di sangue, una visione scioccante lo colse.
Gli occhi aperti e minacciosi del Cristo Redentore lo fissavano dalla loro prigione lignea corrosa dalle tarme.
Un grido straziante si alzò in una notte di luna, accompagnato dal lontano mugolio della forca che, con il cappio ancora vuoto, attendeva il collo della bestia.
 
 
Impietosa una risata di dannati si innalzò dalla terra nuda, squarciando le orecchie dell’orrido abominio.
Il corpo ormai si era prosciugato di ogni linfa e di qualsiasi sensazione, ma allora perché ancora udiva quelle risa strazianti? Perché le orecchie sanguinavano e avvertiva un lancinante dolore alla testa? Fu allora che le tenebre che lo avvolgevano, dal momento stesso della morte, si dissiparono lasciando che intravedesse la figura del suo interlocutore: un demonio dalla giovane apparenza gli sorrideva gaio come una delle sue tante prede. Così docile e delizioso, tanta era la tentazione di affondare i denti nella carne prelibata, ma una nuova risata di scherno gli si riversò addosso, dalle fragili labbra rosee dell’esserino.
“Salve mio Belzebù, finalmente sei tornato!” trillò il piccolo, afferrando la testa dello scheletro appena giunto, e fissandolo come il più desiderato regalo.
“C-chi sei tu?” riuscì a malapena a sussurrare il prete, tornando ad essere nuovamente immerso nella propria cecità.
“Non mi riconosci amico mio? Io sono quel demonio che tanto bene hai servito in questi anni! Rassegnati, adesso non ti lascerò più scappare.” Disse mellifluo abbracciando spasmodicamente il povero teschio.
“Scacco matto.” sibilò il demonio nella vuota cavità auricolare dell’immondo essere, prima di trascinare con sé il nuovo scheletro giunto nel suo Inferno.
Il signore delle tenebre aveva avuto la sua vendetta, impadronendosi di un anima votata al suo eterno rivale.
 
 
Gli scheletri sonanti di tenebra e sventura cominciarono solenni ad intonare una canzone per il nuovo venuto ancora fresco di trapasso. Soavi note si diffusero nell’aria della serata primaverile. Seguivano un ritmo veloce e incalzante, quasi ipnotico: le mascelle fameliche battevano, i femori e le tibie si scontravano tra di loro, e il vento silenzioso, che entrava nei loro teschi vuoti, usciva fuori risuonando di follia.
Se si tendeva bene l’orecchio alcune parole si udivano accompagnare la sinfonia sgangherata.
Un coro di dannati si alzava dalla terra:
 
Benvenuto Belzebù alla danza degli impiccati.
Benvenuto! Benvenuto!
Questo è il segno di saluto
che ti danno i tormentati
per il collo torturati!

 
 
 
End.
 
 
Piccola Spiegazione: allora, ci sono parecchie cose da chiarire qui! Sarà meglio andare con ordine.

 

  1. Il nome del prete, Belzebù, è sia un riferimento alla natura demoniaca e peccatrice del suo essere, sia al protagonista della poesia di Rimbaud, chiamato, appunto, Belzebù!
  2. le figure degli scheletri nell’armadio ovviamente non erano reali. Infatti il suono che lui sente è il tintinnio delle perle del rosario. Ho voluto giocare un po’ con il termine perché sì si rifaceva alla poesia, ma anche per il modo di dire “avere scheletri nell’armadio” (= tenere nascosto qualcosa) riferito alla segreta perversione dell’uomo.
  3. Il colore Viola è tipico del clero, infatti questo colore viene indossato per rappresentare il voto di penitenza e sacrificio verso il Signore.
  4. La figura della Lupa, vista come l’incarnazione del male, ripresa anche da dante, è la personificazione del primo peccato inviato da Lucifero per tentare gli uomini e allontanarli dalla luce Divina.
Via, pensavo peggio … penso di aver terminato le spiegazioni.
 
 
*Seconda classificata al contest "Lieto fine? No, grazie!" di clalla97
*Seconda classificata al contest “Scacco matto!” di Fe85. (43.5/45 punti)
*Quinta classificata al contest “La poesia delle storie” di NonnaPapera! e Gabby 8827 (109/110)


 


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