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Autore: Vale11    30/09/2011    0 recensioni
“Ragazzino, ce l’hai un nome?”
Le sembrava abbastanza sveglio da essere in grado di rispondere, dopo essere riuscita a convincerlo a infilarsi qualcosa nello stomaco. Era magro, ma aveva un fisico decisamente tirato. Un fascio di muscoli e nervi, ecco cos’era.
“E questo che razza di accento sarebbe?”
“Un accento italiano, biondo. Ce l’hai un nome?”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Erano passati 2 mesi da quando Irma gli aveva affibbiato due soprannomi in un giorno solo, e da quando lui si era ribellato al secondo –Candy Candy- facendole presente in modo non esattamente educato che i miei cazzo di occhi sono verdi,non azzurri,  testa rossa!
Aveva funzionato.
Ma angelo gli era rimasto attaccato con la colla, e se lo sentiva dire ogni volta che la sua occasionale coinquilina aveva voglia di prenderlo in giro. Hiruma passava qualche giorno da lei, qualche giorno in albergo e a volte spariva per tornare coperto di fango. In quelle occasioni, l’unica parte davvero visibile di lui erano quei denti affilati che si ritrovava esposti in un ghigno di soddisfazione animalesca.
“Com’è che non mi dici nulla quando sparisco, testa rossa?”
“Perché non sono fatti miei, angioletto. L’importante è che ritorni. Possibilmente senza avere la testa aperta, visto che la settimana scorsa sei apparso con un occhio nero”
Era una cosa che apprezzava parecchio, questa. Il fatto che Irma, pur avendo otto anni più di lui, non lo infastidisse con preoccupazioni degne di una madre che non sentiva il bisogno di avere. Era una bestia randagia ormai, e lei lo sapeva. Sospettava fortemente che pure lei lo fosse, viste le sue reazioni manesche ogni volta che aveva provato a sapere dov’era stata fino alle 4 del mattino.
“Fatti gli affaracci tuoi, Yoichi. Quando cresci magari inizierai a fare le 4 del mattino pure tu.”
E giù uno scappellotto relativamente affettuoso.
Lei non lo sapeva, ma era probabilmente l’unico essere umano a cui permetteva di affibbiargli scappellotti senza aver voglia di tirare fuori una pistola di tasca.
La prima cosa che aveva notato dopo essersi svegliato il secondo giorno in quella casa di matti che era il suo appartamento, senza il mal di testa da testata nel muro, erano i chili di riviste sparpagliati in giro. Li classificò subito come roba da donne, per poi rendersi conto che sulla copertina di una c’era Bob Marley, su un’altra i Clash, su una terza il faccione gigantesco di David Bowie, sull’ultima…un tizio mai visto.
“Oi, testa rossa, e questo chi sarebbe?”
“E’ De Andrè, razza di bestia impicciona. Sono riviste italiane, mi arrivano per posta”
“E in un mese te ne sono arrivate così tante?”
“No, le ho portate da casa”
Giusto. Prese la rivista con il tizio mai visto in copertina e la aprì, le mani da pianista a seguire le righe scritte fitte fitte, cercando di trovare almeno una parola conosciuta. Nulla.
“E chi sarebbe, questo De Andrè?”
“Era, è morto”
“D’accordo. Chi era questo De Andrè?”
Per tutta risposta, lei cominciò a dire cose assurde in italiano, ficcandosi in doccia con l’intenzione di starci per un po’. Quando uscì, con un asciugamano in testa e un accappatoio talmente giallo da essere fastidioso, gliele ripetè in giapponese, studiando bene le parole da scegliere.
Quando ero piccolo mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani/e da marzo a febbraio mio nonno vegliava/sulla corrente di cavalli e di buoi/suoi fatti miei e sui fatti tuoi/e al dio degli inglesi non credere mai.
Hiruma la guardò spiazzato, pensando che forse si era di nuovo attaccata a una lattina di Guinness in doccia. Pareva farlo spesso.
E quando avevo duecento lune, e forse qualcuna è di troppo/rubai il mio primo cavallo e mi fecero uomo/cambiai il mio nome in “Coda di lupo”/cambiai il mio pony con un cavallo muto/e al loro dio perdente non credere mai.
La guardò gironzolare per casa, con le parole che gli arrivavano attraverso il filtro dei muri.
E fu nella notte della lunga stella con la coda/che trovammo mio nonno crocefisso sulla chiesa/crocefisso con forchette che si usano a cena/era sporco e pulito di sangue e di crema/e al loro dio goloso non credere mai.
La vide rientrare in salotto, coi capelli rossi, corti, talmente sparati per aria che per un momento si sentì invidioso della pettinatura. Poi si rese conto che stava semplicemente cercando il pettine con una frenesia quasi disperata. Quando lo trovò, gli sembrò soddisfatta.
“C’è una canzone che secondo me ti piacerebbe, biondo”
“Oh. E quale sarebbe?”
Gli ghignò in faccia, leggendo negli occhi verdi di quel ragazzino un briciolo di curiosità. Forse De Andrè non gli dispiaceva, alla fine.
Certo bisogna farne di strada, da una ginnastica d’obbedienza/fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza/però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni/da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni…vuoi che continui?”
Si stupì di vederlo davvero concentrato.
“Perché no?”
Le venne da ridere.
“Ok, dunque. E ora imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali/tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali/ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane/ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame
La interruppe con un gesto della mano.
“Hai detto che questo tizio è morto?”
“L’ho detto”
Yoichi fissò di nuovo la copertina, brontolando sotto voce qualcosa di simile a un perché i tizi migliori muoiono e gli stronzi restano vivi. Irma si limitò a sorridere di straforo.
 
Irma aveva ventitre anni, capelli rossi, corti. Occhi azzurri. Un’altezza talmente media da rientrare nella media delle donne medio-basse. 159 centimetri di schizofrenia.
“Non solo sei vecchia, testa rossa, sei pure una mezza sega!”
“Parlare di seghe alla tua età è più che appropriato, angelo. Vuoi che ti illumini su cosa si dice degli uomini tropo alti, in Italia?”
Un senso dell’umorismo tendente al sarcasmo più caustico, che le permetteva di resistere alla convivenza con Yoichi e di rispettarlo, facendosi anche rispettare. Aveva una famiglia a cui teneva, nel suo paese.
“Sei figlia unica?”
“E tu?”
“Potrei. Sei figlia unica o no?”
“Avevo un cane”
Faceva la giornalista, scriveva, leggeva, aveva una malattia cronica e contagiosa per la musica e faceva la dj, in Italia. Anche, ma non solo, in una radio libera. Si era presa 8 mesi di fuga, ma la fissa non le era passata, ed ora anche Hiruma, ogni tanto, ficcava il naso fra dischi, dvd e riviste musicali più o meno conosciute saltando su con domande quali Oi, com’è che si pronuncia il vero nome di Freddie Mercury?
“Farrokh Bulsara”
“Che razza di nome”
“Disse quello che si chiamava Demone sanguisuga”
A Hiruma non dispiaceva prendersi qualche ora di vacanza dal mondo per immergersi nella musica che circondava Irma, e a lei non dispiaceva quando lui le chiedeva di mettere questo o quel disco perché gli sembrava che i tipi in copertina avessero una cazzo di faccia decente. Pareva essersi fissato coi Green River e i primi dischi dei Pearl Jam, ma non gli dispiacevano nemmeno gli Stooges e apprezzava il lanciafiamme dei Rammstein.
“Quei tizi tedeschi sono fuori come balconi”
“Dici?”
“Dico, testa rossa. Il tipo che canta si è appena dato fuoco”
“Lo fa spesso”
“Si è dato fuoco DA SOLO!”
“Lo so, lo fa spesso!”
“…quei tedeschi sono fuori come balconi”
 
Il fatto era, però, che poteva fingere quanto voleva. Lei lo beccava sempre. Non era come Musashi, però. Non lo sgridava, non faceva ramanzine, tantomeno lo prendeva a pugni. Si limitava a fissarlo, dura, finchè non era sicura che il concetto gli fosse penetrato nel cervello. Una specie di sorella maggiore schizzata e non eccessivamente ansiosa, ecco cos’era, ma non è che potesse mettersi a fingere di non vedere nulla quando si rendeva conto che quel fratello minore ossigenato e acquisito da poco di notte faceva incubi da record, o che le arrivava sulla porta talmente pesto da sembrare uscito da un incontro di boxe.
“Toh, hai un occhio nero. Anzi, forse due. Il destro è quasi viola, per ora. Esteticamente interessante”
“Irma, piantala. Hai del ghiaccio?”
“Sai dove te lo ficco, il ghiaccio?”
Poi, come da copione, lui si stendeva sul divano, lei gli teneva il ghiaccio dove doveva stare e lo rattoppava, e finivano a vedere un film che miracolosamente era spuntato dal lettore dvd.
“Cos’è questo?”
“I Guerrieri della notte”
Guerrieri? Giochiamo a fare la guerra?
“Bel film”
“Sapevo che avresti apprezzato. Che hai combinato a questo giro?”
“Erano due”
“Non mi hai risposto”
Ghignava, con quelle zanne che aveva al posto dei denti. Gli orecchini al padiglione destro un po’ graffiati da una caduta.
“Sei una giornalista, ci sarai abituata”
“Sei uno stronzo Yoichi”
La guardava, per capire se fosse seria o no, quando la vedeva ghignare rideva sollevato. Anche se non l’avrebbe mai dato a vedere.
“Che ti aspetti, da me?”
Di notte era più difficile. Doveva trovare una scusa tutte le volte, altrimenti si sarebbe sentito umiliato dall’idea di essere stato svegliato per essere tirato fuori da un qualche incubo. L’ultima volta non aveva trovato di meglio che fingersi seccata.
“Yoichi, stai facendo un casino d’inferno! Svegliati!”
Aveva spalancato gli occhi, sudato fradicio, e l’aveva fissata astioso.
“Che vuoi?”
“Dormire, biondo. Fai più casino tu di un branco di camion”
Non le aveva risposto, si era voltato sul letto che Irma gli aveva messo a disposizione e le aveva dato le spalle.
“Ti ho portato una cosa”
Aveva aperto gli occhi,guardandola  perplesso e prendendo il bicchiere di roba verde che gli aveva ficcato in mano.
“Sarebbe?”
“Assaggialo, so che la menta ti piace”
Era un copione visto e rivisto, ogni volta che lo svegliava da un incubo gli portava un bicchiere di latte e menta e fingeva di avere delle cose da fare vicino a lui finchè non si riaddormentava. Solo una volta aveva dovuto svegliarlo di nuovo, forse l’incubo era a puntate.
“Yoichi, stai bene?”
L’aveva guardata a occhi spalancati.
“Ancora tu?”
“No cretino, sono la fata turchina”
“La fata turchina aveva i capelli blu”
“Vedi, allora non lo sono. Stai bene?”
Aveva distolto lo sguardo, fissandolo sul soffitto.
“Ma si. Sto bene”
Irma era rimasta seduta accanto al letto a guardarlo cercare di riaddormentarsi anche dopo essere stata minacciata di morte più volte, poi era rimasta a guardarlo dormire per un pezzo. Preoccupata per quel ragazzino che a volte sembrava tanto più vecchio di quanto non fosse. Forse perché lo sentiva continuare a parlare nel sonno.
“No. Non è colpa mia. Non toccarmi”
Non ne era sicura, ma non credeva che fosse ciò che si diceva sognando i Mini Pony.
 
Dopo otto mesi, Irma se n’era andata. Hiruma non l’avrebbe mai detto a nessuno, ma gli dispiaceva davvero. All’aeroporto era venuto a salutarla anche Kurita, dopo che Yoichi glielo aveva presentato quando si erano incrociati davanti al liceo.
“Oi, biondo! Ho un soprannome tutto nuovo per te!”
Un altro.
Hiruma aveva affondato le zanne nella gomma alla menta e si era avvicinato, temendo che fosse l’ennesimo soprannome stupido, non volendo che gli altri due lo sentissero.
“Sarebbe?”
Gli aveva ghignato in faccia, come sempre.
“Sèdar”
“Oh. Ovvio. Giusto. E che cazzo vorrebbe dire?”
“E’ algerino, biondo. Significa colui che non può essere umiliato”
Era rimasto zitto a guardarla, senza nemmeno la forza di fingere che quel soprannome tutto nuovo gli facesse schifo. Irma si mise a ridere.
“Allora ti piace!”
“Mh. Potrebbe farmi meno schifo del solito”
La reazione di testa rossa fu più veloce del solito, gettò a terra il borsone e lo infilò in un abbraccio quasi stritolante.
“Fa il bravo, biondo. Se scopro che per un qualunque motivo idiota hai smesso di giocare a football torno qui prima del dovuto e ti prendo a calci”
Hiruma si era piantato in terra, aveva smesso di fingere di essere di legno solo quando Irma l’aveva lasciato andare.
“Figurati se smetto. Che vuol dire prima del dovuto?”
“Che appena mi sarò laureata tornerò qui e verrò subito a romperti i coglioni”
Non sapeva perché, ma Hiruma si era sentito sollevato. Gli sarebbe mancata.
“Mi toccherà sopportarti, allora”
Irma aveva ghignato di nuovo, prima di infilarsi nella galleria d’imbarco.
“Contaci, angioletto
A Yoichi si gelò il sangue nelle vene. Kurita lo guardò come se avesse visto un lottatore di sumo col tutù.
“Angioletto?”
“Vaffanculo, testa rossa!”
La risata di Irma gli arrivò come unica risposta.
 
E due. Niente più Musashi, niente più Irma. Ora, per stare in piedi decentemente, ci vorrebbero un paio di stampelle invisibili.
Ma tu non le hai, e fingerai di non averne bisogno.

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e due!
  
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