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Autore: Evil Daughter    01/10/2011    17 recensioni
Oltre ad essere rozza sei priva di delicatezza.
Pensò Vegeta. Dedicandole l’accusa.
Piegò le labbra in giù, fece maggiore pressione e l’ago schizzò fuori portandosi dietro una scia di sangue annacquato.
Ripensò al ricovero in ospedale, rimembrava ogni particolare; almeno da quando aveva riaperto gli occhi. Alcuni dettagli li avrebbe cancellati volentieri. Altri no, sedimentavano. Lo mettevano davanti a diversi interrogativi. Lei lo aveva salvato.
E sai come sprecare il tuo tempo.
Un pensiero ancora rivolto a lei.
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Vegeta? Un folle omicida. Ma Bulma lo sa bene: mai fermarsi a giudicare unicamente la coda del mostro.
La belva deve essere sempre osservata nella sua interezza.
Periodo trattato: triennio antecedente ai cyborg.
INIZIO RELAZIONE TRA BULMA E VEGETA. STORIA ILLUSTRATA.
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Nuovo capitolo, 18: PROGENIE SEGRETA SOTTO LAMPI DI GUERRA.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Dr. Gelo, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'ARANCE MARCE: Bulma e Vegeta, sbagliati e quindi veri.'
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Pochi preamboli: in fondo alla pagina c’è… “movimento”.Volete vedere?


 

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Capitolo VI – Eclissi di efferatezze serali


 

Un’emicrania, una lieve cefalea da far passare con due dita d’acqua e l’effervescenza di un analgesico dal sapore amarognolo o, più rapidamente e per grazia del gusto, con un confettino dai contenuti ed effetti taumaturgici.
Yamcha l’avrebbe risolta così: rimanendo a cena con i suoi genitori e al fianco del suo fidanzato prossimo alla partenza.
Questo se avesse avuto un filiforme corpo femminile, pelle nivea, capelli azzurri e occhi che al variare della luce e del tempo arrivavano ad assumere le sembianze del cristallo; e naturalmente il più bel paio di tette di tutta West City: non enormi con l’areola dilatata, non flosce e cadenti penzoloni, ma dalla circonferenza equilibrata; tonde e piene non molto soggette alla forza di gravità, perfette.
Lui non aveva quest’aspetto, però aveva la donna che possedeva siffatte grazie ed esattamente sopra all’avaro ed esigente
possedere incideva la disputa interiore che lo stava logorando.

Il bestiame va tenuto nel recinto sotto stretta sorveglianza.

Bulma aveva deciso di saltare la cena… o lo steccato; dipendeva sotto quale luce la si guardava: quella di Yamcha era il riverbero di una timida ma sinistra lampada posta su un tavolaccio a fendere il volto del reo da interrogare. Accesa a sbiadire Bulma in una figura opaca di verità.

Si è sentita poco bene, null’altro.

Dove i suoi occhi non gli permettevano di vedere ci pensava la sicofante diffidenza ad informarlo.

Va vigilato, il bestiame, specie se abigei s’aggirano come avvoltoi pronti a portartelo via.

L’abigeo rapace che svolazzava attorno al suo bestiame era il pidocchioso saiyan.

Me l’ha detto sua madre: "aveva un forte mal di testa, è andata a riposare".

Sicuro: le emicranie le spuntano all’improvviso e la costringono ad evitarmi… A scappare da me che sono il suo padrone.

Ma lo spilungone voleva smetterla di elaborare e seguire queste noiosissime tesi meschine ed assurde – le ubbie createsi nell’arco della mattinata contro la sua donna s’erano disciolte come neve al sole, ormai – purtroppo però, ad impedirglielo, c’era l’inamovibile fissazione di proteggere ciò che gli apparteneva.
La mania s’era presentata appena rimesso piede in casa, dove alloggiava il pericolo: ovvero quel criminale dal becco adunco, libero di far l’uccel di bosco per la Capsule Corporation.
Si chiedeva con quale coraggio avesse potuto lasciare la sua donna da sola per venti lunghi giorni, convinto che l’uccellaccio se ne fosse stato lontano dalla sua proprietà.
Dover assentarsi nuovamente lo agitava terribilmente; Bulma andava messa al riparo dagli artigli di quel condor.

«Adesso si vede?»
Chiese il signor Brief agli unici due spettatori presenti in salotto a consumare la deliziosa cena preparata dalla compagna dello stesso.

Lo scienziato era incastrato tra il televisore ed il muro, intento a smuovere grovigli di fili nel tentativo di riprendere il segnale che l’antenna della TV, come il monitor del laboratorio collegato a quello della navicella spaziale, non captava più. 
L’immagine nel quadro del televisore – un cinquanta pollici che posto su un mobile sovrastava completamente la bassa statura del signor Brief, nascondendolo – s’era bloccata sul mezzo busto di una giornalista rimasta buffamente, e volgarmente ad occhi dissoluti, con la bocca aperta.
«No, ancora niente.»
Rispose desolata la moglie, continuando ad osservare una certamente vecchia otturazione in piombo su uno dei molari inferiori della cronista; Yamcha, invece, era concentrato a recepire altri tipi di segnali, come l’aura di Vegeta che avvertiva debole in un punto impreciso dell’enorme residenza Brief e, soprattutto, quella di Bulma: impossibile da localizzare.
«Sono spiacente, con questa – lo scienziato, dai cavi contorti e risucchiati nel muro, si voltò verso il finestrone per dare un nome al modo in cui la natura stava esprimendosi: per quanto fitta cadeva la pioggia non riusciva a distinguere nulla, a malapena intravedeva le luci degli edifici circostanti; pareva che l’intera Città dell’Ovest fosse stata inghiottita da un’enorme voragine cupa apertasi nel cielo, dalla quale sgorgava nera acqua torrenziale – be', c’è poco da sistemare. Credo che stasera dovremo fare a meno del notiziario.»
Finì con resa, sfregandosi le mani sporche della polvere che irrimediabilmente si depositava insidiosa tra i fili degli apparecchi elettronici. Poi, deluso, spense il televisore.
«E mi sa che dovrò apportare delle migliorie al nostro impianto satellitare. Che ci sia o no brutto tempo, la Capsule non può rimanere isolata dal resto del mondo, non è mai accaduto.»
Concluse costernato dall’insolita anomalia.
«Non preoccuparti tesoro, quando la smetterà di piovere sono sicura che tornerà tutto alla normalità. Ora vieni a mangiare e non pensarci.»
Cercò di consolarlo la moglie che per quanto ne sapeva di telematica, ai suoi occhi, i difetti di un televisore comparati ad una cena a rischio raffreddamento scendevano subito in secondo piano.
Yamcha, ascoltandola, volle confortarsi – ne aveva molto bisogno – capovolse il consiglio per sé: ogni tempesta, anche la più brutta, finiva restituendo il posto alla
normalità.
Sacrosanta ragione.


Non doveva sparire senza avvisarmi.

Se non fosse arrivata la conclusione della turbolenza formatasi tra lui e Bulma avrebbe pensato personalmente a spazzarla via e a far tornare il sereno.

«È un vero peccato che Bulma e Vegeta si perdano una cenetta come questa. Cara mogliettina, lasciatelo dire: sei una maga ai fornelli!»
Affermò il papà della scienziata, gustando la sua porzione di saporita lombata cotta in crosta di sale.
«Grazie! Ed hai ragione, è un peccato. Ma non preoccuparti, metterò da parte qualcosa per entrambi, ricordandomi di abbondare con Vegeta. Quel ragazzone sa avere un grande appetito! Mi sembra identico a Goku... Ma sicuro! Un giorno inviterò anche lui e faremo una bella cena tutti assieme!»
«Già, potresti. I saiyan sono dei mangioni, tu, tesoro, sei un'ottima cuoca. Non potranno rifiutare. E poi mi farebbe piacere rivedere Goku.»

Moglie e marito chiacchieravano fra loro calmi e sorridenti.
Yamcha no: era mesto e pesto d'odio.

Bulma e… Vegeta?

Era la materializzazione mentale – da incubo reale – coagulatasi nella testa dello spilungone, rimasto sbalordito dalla naturalezza con cui i futuri suoceri parlavano dello scimmione appestato.
Tuttavia, il peggio fu sentirsi tagliato fuori: nella microscopica e futile conversazione il suo nome non era stato inserito. Gli era toccato ascoltare, alla pari stregua di unghie fatte scivolare diabolicamente su una lastra levigata, quello del saiyan appaiato insieme a quello della sua donna: una dissonanza rivoltante, da conati per dar di stomaco.
Balzare via dalla sedia e andare a cercarla, questo voleva fare. Ma avrebbe commesso una pessima figura davanti ai suoi suoceri. Era lo scimmione il maleducato, non lui.
«Yamcha, toglimi una curiosità, giochi ancora a baseball?»
Lo colse d’improvviso il signor Brief, mandandogli di traverso il boccone che stava masticando. Il ragazzo si trovò costretto ad aggrapparsi a un bicchiere e tracannare grosse sorsate d’acqua.
«S-sì…»
Ancora in fase soffocamento, si diede due colpi allo sterno e mandò giù l’ostruzione.
«M’è stato confermato oggi stesso che continuerò a giocare come titolare.»
In realtà, non batteva palla dalla casa base del diamante all'incirca da due anni e mezzo. Tuttavia, scelse di non condividere questa verità e gonfiare le vele. Tanto che poteva saperne quel vecchio pazzo di mazze, palle e guantoni in pelle?
«Con i Titan, giusto?»
«Esatto, loro.»
«Sai figliolo, quando ero un ragazzo come te non perdevo nemmeno un incontro, andavo sempre allo stadio. Era la mia seconda passione dopo l’ingegneria.»
«Caro, io direi ossessione – s’intromise la moglie, smascherandolo, per rivolgersi poi allo spilungone – lui non lo dice ma all’epoca se i Titan perdevano una partita si chiudeva nei laboratori finché non gli passava la vergogna.»
«Be', amavo il baseball… lo amo tuttora, peccato che il mio animo si sia affievolito col passare degli anni. Adesso mi limito a seguirlo in tv, quando capita.»
«Era un tifoso dei Titan e non me l’ha mai detto?! Beh, mi fa piacere… Solo mi sembra strano che non preferisca i Wild di West City»
Esclamò lo spilungone, corroborato dall’esser diventato il soggetto del discorso; e mollando di poco la fisima
Bulma è fuggita dal ranch.
«Perché sono originario della Città del Nord.»
Confessò orgoglioso lo scienziato.
«Ma dimmi: sono due anni che non vincete un campionato, se non sbaglio i Giant di South City sono stati gli ultimi ad accaparrarsi il titolo e per voi non è stata nemmeno una bell’annata, vi siete piazzati appena al sesto posto… Insomma, come mai tanta difficoltà?»
Forse il vecchio se ne intendeva più di quanto lo spilungone pensasse. Yamcha iniziò a sentire il bisogno di un inalatore, di spruzzarsi un po’ di salbutamolo – la sua gola si stava annodando – non s’aspettava di dover rispondere a domande tanto frizzanti, era allergico ai giochi della verità.
«Già, quello che ha delineato è il periodo in cui purtroppo la mia frequenza non è stata costante e non ho potuto dare il mio sostegno alla squadra, perciòm non so dirle bene i dettagli mah…»
«Avevi litigato col tuo allenatore? Perché ho sentito dire che è molto autoritario e che esige un certo tipo di gioco. Hai avuto problemi con lui?»
L’insinuazione del signor Brief fu pessima, anche se priva di malignità. Le sue domande avevano pigiato sul tasto sbagliato: l’innesco per un veleno che fermentava tacito nel ragazzo.

No, niente lite, sono stati quei sporchi saiyan a farmi fuori. Non ricorda? Mi hanno ammazzato, da morto è un po’ difficile seguire gli allenamenti e giocare le partite, ma… tornando alle scimmie mannare: se per caso non se ne fosse accorto sua figlia ne tiene una in casa quasi fosse un innocuo animaletto domestico.
Lei e sua moglie probabilmente non mi crederete ma quello, l’alieno che vi fa brillare gli occhi, davanti a voi si sforza di comportarsi in modo civile e fidatevi: la sua è solo una maschera sotto la quale nasconde l’assassino immondo che è.
Quello trama alle vostre spalle. Vi sta sfruttando. Abbiate fiducia, io so quello schifo di cosa è capace.

Caricato da un astio coltivato accuratamente nel tempo e tanto maturo da essere marcio, Yamcha avvertì l’urgenza di sputare fuori ogni singola calibrata sillaba che componeva la sua accusa.
Gli scimmioni galattici avevano calato la scure su di lui e di conseguenza erano finite le arti marziali, le ragazze, le corse in auto, le partite di baseball, la sua esistenza, tutto. Era stato stroncato ingiustamente.
Ma il momento di tornare alla ribalta era giunto: risorto, voleva ricominciare, costruirsi una vita – quella che sentiva di meritare – e nessuno, né i venturi cyborg né alcun’altra putrida scimmia, nessuno avrebbe più interferito col suo destino.
«Diciamo che, sì, ho avuto piccoli screzi col mio coach. Ma nulla di grave, ci siamo chiariti e come le ho già detto tornerò a essere di ruolo.»
Finì, sorridendo e mentendo, senza sputare alcuna goccia della tossina che aveva in circolo. In attesa di colpire nell’attimo opportuno, in cui avrebbe palesato la vera lurida essenza del saiyan, polverizzando gli inspiegabili ed allucinanti riguardi che i genitori della sua donna provavano per quell’abigeo rapace omicida con la coda da scimmia; anche se quest’ultima Vegeta l’aveva perduta.

«Bene, allora ti faccio il mio in bocca al lupo ragazzo!»
«La ringrazio… cioè, crepi il lupo.»

E cerca di crepare anche tu, saiyan.


 

~ ~ ~

 

"Ho sbagliato” o “avrei dovuto agire in modo diverso” non erano locuzioni d’accostarsi ad un guerriero dall’animo ferreo e deciso come Vegeta.
Rimorsi? Non sapeva cosa fossero e non era intenzionato a scoprirlo. Eppure il tarlo di
non essersi comportato nella giusta maniera con la terrestre l’aveva intaccato; per la precisione, sin da quando s’era arreso all’idea di dover accettare vitto e alloggio dalla vagonata di buoni a nulla del pianeta Terra. Purtroppo, fresco di negromanzia, confuso, con la terra fin dentro le orecchie, scaricato da un pianeta all’altro come una valigetta mentre Kakaroth se la sbrigava con Freezer; in queste circostanze, aveva avuto altra possibilità di scelta? No.
Difatti, nel rispetto dei suoi preconcetti – gli ultimi ai quali s’aggrappava con unghie e denti poiché lo facevano sentire ancora un saiyan – Vegeta s’era ripromesso di vivere insieme ai terrestri a patto d’avere pochi e ristretti contatti con loro. E invece di mettere in chiaro sin da subito la questione con la ragazzina, aveva lasciato che gli eventi accadessero.
Volente o nolente, ora, il compromesso era riapparso con effetto boomerang: pur di tornare indietro e tirare il collo a quella femmina era disposto a cedere anche parte della propria forza. Anziché trastullarsi con lei come s’era ritrovato a fare poc’anzi.
Aveva l’impressione che la furbetta, sfruttando le cattive condizioni in cui lui si riduceva dopo ogni allenamento, stava silenziosamente intrufolandosi nei suoi guai, moltiplicandoglieli.
Darle spago, limitandosi a minacciarla ed irriderla, non era stato un buon deterrente: per come l’aveva inquadrata sarebbe riapparsa all’attacco fino a massacrargli la pazienza. L’aveva capita.
Ma allora perché s’era trattenuto? Perché invece di fare il facinoroso, aveva preferito baloccarsi con lei?
Perché Vegeta se n’era accorto e non aveva saputo cacciarla via: aveva fatto caso al modo in cui quella femmina gli girava attorno, ai suoi sguardi da stravolta adorante, alle sciocchezze che gli diceva con i suoi “
io devo, io ti consiglio, io so… Come stai, fammi stare tranquilla… Tu sei affar mio”.

Saputella appiccicosa. Linguacciuta ficcanaso che non sei altro.

Non lo sopportava, non mandava giù ammettere che, sotto metri d’orgoglio, si divertiva ad osservarla scodinzolare vicino a lui.
Lei lo aveva medicato. Addirittura voleva rifarlo. Cose strambe, a sua veduta.
Nel corso del proprio disastroso destino, Vegeta non aveva incontrato nessuno che avesse mai avuto una tanta smisurata e mal riposta preoccupazione per lui.
Per quale ragione la riccioluta si comportasse a tal modo, stava cercando di decifrarlo e già disponeva di due ipotesi: o era una terrestre con le rotelle fuori posto, da non afferrare il rischio che correva a stragli vicino, oppure lo spiava per spifferare tutto a Kakaroth. L’ultima se la sentiva addosso paranoica.
In qualsiasi alternativa però, quella
ficco-il-naso-in-ogni-dove non era normale.

Adesso basta.

Constatò d’aver varcato ed essersi spinto molto a largo dal limite della considerazione che poteva dare a una femmina di razza inferiore come lei. Oltretutto, in sua presenza, gli capitava d’irrigidirsi senza motivo e con fatica le toglieva gli occhi di dosso.
Non era concepibile.
Concluse che doveva disfarsene, cestinare il pensiero di lei, smettere di parlarle e soprattutto di guardarla.
Nel frattempo, tornato nel suo rifugio – la stanza in cui era stato sistemato dai terrestri e unico posto dove poteva star tranquillo – si aggiunse, a quella che lui incominciò a definire “
scocciatura da influenza terrestre”, la fame, che con una catena gli stritolava le viscere di crampi allo stomaco, spossatezza e capogiri.
Non metteva nulla sotto i denti dalla notte passata. Aspettare oltre evitando di piombare per l’ennesima volta in uno stato di incoscienza era impossibile.
A malincuore, Vegeta dovette convincersi di condividere la cena coi terrestri, mandando in fumo l’accortezza che aveva impiegato nell'evitare di farsi sentire e vedere per rientrare alla Capsule C attraverso una finestra del secondo piano lasciata socchiusa.
Fu quasi raggiungendo la sala da pranzo che s’accorse dell’ingombrante presenza del perdente, sinora non notata.
Di colpo, i pensieri che aveva appena deciso di annegare dentro di sé riemersero più dirompenti e pulsanti e presero ad incendiarsi. Come benzina gettata sul fuoco. Era arrabbiato. In collera principalmente per sentirsi in uno stato d’instabilità psicologica a causa di quella strega.
I suoi passi diminuirono di conseguenza, la dubbia voglia di vedere i terrestri si rivelò una non-voglia; in più aveva due orecchie che lo imploravano di non essere importunate dagli schiamazzi della donna bionda tutta prego e cortesia che udiva cicalare a ruota libera nell'altra stanza.

Yamcha, al pari di un radar, percepì il saiyan avvicinarsi. La scoperta lo intirizzì ma, perlomeno, sapeva che Bulma non era con Vegeta.
I coniugi Brief, chiuso l’argomento baseball divenuto spinoso per lo spilungone, discutevano d’aria fritta e Yamcha rispondeva loro con l’attenzione rivolta completamente allo scimmione fermatosi nella stanza accanto, in cucina.
Il ragazzo si sentì montare da una strana euforia, poteva dirsi pronto ad affrontarlo…
a parole, s’intende.
«Yamcha, poco fa ho visto l’anello che hai regalato a mia figlia, è bellissimo!»
Tra i tanti vaniloqui che la suocera blaterava, udire uscirle quella frase lo galvanizzò maggiormente.
Gli aveva dato spunto.

Ora te la faccio sentire io, saiyan.

«Le è piaciuto signora?! Sono contento! Sa, in verità le ho fatto un simile regalo perché credo, anzi ho l’intenzione di fare il passo… e sposare sua figlia. Lo consideri un anello di fidanzamento ufficiale!»
Aveva spiattellato tutto scandendo ogni parola, soffermandosi sui punti chiave e con un tono di voce elevato, sostenuto, sicuro, pieno di sé.
La reazione? Un brodo di giuggiole generale, eccetto una persona.
«Oh che tenero! Perché non ce l’avete detto subito?! Sentito, caro? La nostra Bulma si sposa finalmente!»
«Sì tesoro, ho sentito. Ragazzo sono molto contento per voi! Mia figlia è tosta ma credo saprai sopportarla.»
«Certamente, la ringrazio, eh… Dopo quindici anni passati insieme abbiamo pensato che l'ora di coronare il nostro amore sia arrivata. Non ve l'abbiamo detto immediatamente per farvi una sorpresa, e perché sapete quanto è timida Bulma.»

«Oh, io quasi non ci speravo più. Siamo felicissimi Yamcha! Non vedo l'ora che arrivi un nipotino!»

Nipotino? Ovviamente, signora Brief.

L’approvazione dei suoceri fu ampiamente appagante. La diretta interessata ne era all’oscuro, ma Yamchca non aveva dubbi che avrebbe acconsentito.

Ha detto che mi ama, ha accettato il mio anello. Ora deve sposarmi.

Importante era far capire all'abigeo i suoi limiti, nel caso avesse messo gli occhi sul bestiame sbagliato.
Bulma gli apparteneva e neanche un assassino giunto dallo spazio poteva portargliela via.

Vegeta stava origliando, non con l’intenzione di farlo; solo pura casualità, per carità.
In quel che ascoltò non ci fu nulla di stabilizzante. Si sentì scuotere, piuttosto, da uno strano movimento del sangue, da una vampata di calore arrivata dritta al cervello, qualcosa di simile alla rabbia che provava verso Son Goku e…

«Oh! Cos’è? Un terremoto?!»
Domandò sorpresa la signora Brief, con la voce impregnata di paura istantanea davanti al lampeggiare della luce e al tremare improvviso di quel che li circondava.
«Il brutto tempo cara, non preoccuparti. Se dovesse andar via la corrente abbiamo il generatore d’emergenza!»
Lo scienziato non fu molto esauriente – i temporali non includevano terremoti, lo sapeva, e questi ultimi davano oscillazioni laterali e verticali, non vibrazioni come se ogni oggetto all’interno della Capsule Corporation, e la Capsule Corporation, stesse per saltare in aria – ma per calmare sua moglie, disse la prima che gli sembrò potesse funzionare: avere l’illuminazione era di fondamentale importanza per chi era facile preda del panico, e sua moglie lo era.
La luce lampeggiò per un po’, poi aumento d’intensità. I filamenti di tungsteno divennero più abbacinanti e tre lampadine, avvitate ad un lampadario fortunatamente non sopra le loro teste esplosero.
Pezzi di vetro sparati come proiettili rimbalzarono sul pavimento.
Ne seguì contemporaneamente un urlo della signora Brief che incontrò subito le braccia del consorte a proteggerla; e uno scatto del micio nero che, da una delle poltrone su cui s’era adagiato a sonnecchiare, corse ad aggrapparsi alla gamba dello scienziato fino a saltargli sulla schiena.
Con l’esplosione cessò anche l'anomala vibrazione.
Quaranta interminabili secondi di terrore se ne andarono via come erano venuti.
«E adesso?»
Domandò la donna affannata dallo spavento.
«Niente, è finita tesoro. Cerca di calmarti.»
L’acquietò il marito che molto probabilmente avrebbe ricordato quella sera come un’inconsueta manifestazione di natura indiavolata dai fenomeni fisici sconvolgenti. Il giorno successivo, da rispettabile scienziato che non contemplava coincidenze, avrebbe tentato di trovare la correlazione tra un terremoto e un temporale burrascoso e avrebbe perso tempo inutilmente. La causa scatenante era a pochi metri da lui.

«Sì, si calmi signora, beva un bicchiere d’acqua.»
S’intromise Yamcha, rimasto zitto, tranquillo e gaio lungo il breve fenomeno.
Lui sapeva benissimo chi si nascondeva dietro cotanta dimostrazione.

Che c’è scimmione, non t’è piaciuta la sorpresa? Non so se sai cosa voglia dire sposarsi, ma ti faccio di una certa intelligenza. Quindi fammi il piacere: vattene e togli i tuoi lerci artigli dalla mia Bulma.

Il bieco, maggiormente bieco, aveva concentrato la sua aura senza accorgersene.
Gli urli e lo scoppio delle lampadine l’avevano ridestato in tempo prima che la mole del suo potere andasse ad arrecare seri danni ad una struttura non adatta a sopportarla.

Un sacco di carne e nullità…
Stringeva ancora i pugni e questo era il pensiero che gli galoppava per la testa come un cavallo imbizzarrito.
da prendere a calci.
Non gli era mai interessato però, in quell’istante, aveva seriamente fantasia di farsi un frappé con le cervella dello smidollato. Ovviamente non l’avrebbero saziato – idiota com’era, c’era poco da frullare – ma gli avrebbero dato un certo ed appagante gusto di sadica soddisfazione, il suo piatto preferito.
La tentazione era quella di spaccargli la faccia: di comparire, afferrargli la testa e sentire lo schiocco e lo spostarsi del naso all’impatto col suo ginocchio (ma con contegno, non voleva ucciderlo subito).
Avrebbe visto colare il sangue dalle narici del perdente come l’acqua da un pertugio di una diga: prima piano poi a fiotti. Dopodiché, sarebbe passato ad uniformare il resto del viso, spappolandogli a pugni zigomi e fronte, tanto da non poter più contenere gli occhi che, pure questi, avrebbe schiacciato per ingrandire la frittata che sarebbe diventato il rivoltante muso dello smidollato; ascoltando in seguito il ticchettio sinfonico dei suoi denti cadere dal buco che aveva per bocca come le monetine sputate fuori da una slot-machine.
Et voilà: una poltiglia irriconoscibile di ossa, sostanze vischiose e sangue. Parecchio sangue.
Ci avrebbe messo poca classe, vero, ma un infimo essere andava trattato come un infimo essere.
Tra loro non c’era né paragone né combattimento da farsi; il pestaggio era l’ideale.
Avrebbe anche potuto togliersi il prurito friggendolo con un raggio energetico – pochi secondi e ne sarebbe rimasto un mucchietto di cenere con l’odore di pancetta affumicata – ma gli avrebbe tolto il piacere di vederlo soffrire. Già, lo voleva sofferente e supplicante.
Compiaciuto dalla truculenta visione, il Principe sorrise al riflesso distorto del suo volto sulla superficie in acciaio del frigo. Era una visione che avrebbe potuto facilmente tramutare in succulenta realtà.
Però, non fece nulla di quel che immaginò: dell’astrusa natura dei terresti e dei loro vomitevoli accoppiamenti gli importava meno della morte della sua intera razza.
Schiacciare certi scarafaggi sarebbe stata una vergogna, un
"andare contro i suoi preconcetti"; ragione per la quale si sforzò di placare immediatamente le turbe killer che gli infestavano la mente, estraniandosi dall’ambiente che lo attorniava.
Aveva un obbiettivo di vitale importanza da raggiungere, se la sua vista s'appannava a causa della terrestre con due cosce memorabili tanto da ostacolarlo dal raggiungere il risultato morbosamente ambito, allora poteva anche scegliere di eliminarla, sul serio.
Sì, forse ammazzandola avrebbe scatenato le ire di Kakaroth – se ben ricordava la ragazzina era sua amichetta – e finalmente sarebbero giunti allo scontro della rivalsa.
Si stava quasi facendo prendere dall’entusiasmo al pensiero di macellare una volta per tutte quel rifiuto spocchioso e di togliergli per sempre quell’aria convinta da supereroe.
Sfortunatamente, prima, doveva almeno raggiungere lo stadio di super saiyan e, pertanto, non doveva circondarsi di ammorbanti pensieri come sporcarsi le mani con feccia terrestre.

Goditi la pacchia Kakaroth, finché puoi… Appena sarò diventato un Super Saiyan ti farò vivere l’umiliazione che m’hai inflitto, portandoti alla morte. E vedrai che sarà un’esperienza lunga e atroce.

Eccolo, era di nuovo in sé. Saiyan al cento per cento: un essere belluino assetato di conquista.
Cominciò a quietarsi tornando ad uno stato di calma letale. Distese le braccia e gonfiò d’aria il torace. Si stava rilassando. Rivangare il rancore per il disertore aveva un effetto lenitivo su di lui e tra l’eclissi di un’idea omicida e l’altra s’accontentò di prendere – senza farsi scoprire dall’allegra brigata accanto – dell’insalata di riso, conservata nel frigo in un recipiente di plastica e qualche scatoletta di tonno; più quattro lattine di birra che per gusto mandava giù come acqua.
Stuzzichini che non potevano sfamare il suo famelico languore, ma non gli andava di trovarsi davanti agli occhi il perdente, i genitori della strega e l’animaccia loro.
Aveva il sentore che alla vista non si sarebbe contenuto per la tanta intolleranza che quella sera aveva raggiunto tassi da codice rosso e gli avrebbe fatto compiere uno piccolo sterminio.
Al momento, lo scienziato gli serviva vivo, attivo e amico.
S’allontanò dai terrestri per raggiungere la sua camera, con l'intenzione di tuffarsi nel letto, divorare il poco che aveva raccattato e tentare infine di chiudere occhio come da giorni non riusciva più a fare.

Yamcha, attento alle mosse del saiyan, interpretò la deviazione come una vittoria schiacciante.

Bravo scimmione, così ti voglio: lontano ed emarginato, fuori dalla mia vita.


 

~ ~ ~



Uscire dalla navicella, rimettendo piede sulla Terra, fu per Bulma un traumatizzante ritorno alla concretezza. Aveva respirato poche boccate nel surreale dei suoi sogni, toccandoli e quasi assaporandoli, poi l’incanto s’era infranto in schegge acuminate che l’avevano trafitta e ridestata brutalmente nel miasma di un’arida realtà: con un Vegeta distante e un Yamcha inaspettatamente simbiotico e soffocante.
Farsi per la terza volta una corsa sotto l’ira di Dio funzionò come doccia ghiacciata per un cattivo però efficace riavvio del sistema: doveva darsi una mossa e trovare un escamotage al fine di occultare parecchie cosette che, se fossero state scoperte, le avrebbero dato grattacapi da strapparsi i capelli e diventar pelata come Crilin o Tenshinhan.

Sbadata, aveva lasciato la porta dell’uscita d’emergenza aperta. Un vantaggio, altrimenti sarebbe dovuta rientrare passando per l’ingresso principale, giacché quello della serra – il giardino botanico di sua madre – e le altre quattro uscite d’emergenza erano chiuse.
Nel caso le sarebbe stato difficile passare inosservata.


Il pianerottolo della prima rampa di scale era allagato – l’acqua s’allargava lentamente e gocciolava sui gradini che portavano ai piani sottostanti – lei fece attenzione a non scivolare reggendosi al corrimano. Ogni passo era un'impronta fangosa di cui non si curava: ci avrebbero pensato i robot a pulire quel pantano.

Raggiunto nuovamente il laboratorio di robotica, incominciò a far girare la testa per la quale andava tanto fiera.

Bene, no, malissimo! Ho pochi minuti per far sì che Yamcha veda comparire Vegeta da solo e non con me, sempre“se” lo vedrà. Dopodiché, dovrò iniziare a pregare di non incontrarlo quando s’accorgerà che la mia camera è vuota e penserà di raggiungere i laboratori, perché lo farà, anzi, starà già davanti alla porta della mia stanza. Devo anticiparlo ma… è meglio che prima dia una sistemata al mio aspetto.

C’erano giusto quel paio di buchi sulle calze, più uno strato di sporco che la ricopriva da capo a piedi da camuffare.
Scattante, la scienziata assalì gli armadietti in fondo al laboratorio, nella speranza di trovare qualcosa di suo con cui cambiarsi e un telo per asciugarsi. Ne apriva velocemente uno e, trovandolo pieno di inutile ferraglia e plichi di documenti archiviati, lo richiudeva con rabbia.
«Dove sono i camici?! In questo laboratorio non si capisce più nulla! Sono ciecamente sicura che la colpa è di papà, non è mai contento, deve sempre variare la disposizione d’ogni cosa! Oh, eccoli!»
Trovati i camici, sorrise... Per poco: c’erano
solo camici e neanche erano della sua taglia.
«Eppure ricordo di aver lasciato qui una tuta, tempo fa»
Snervata, stava convincendosi di infilarsene uno come accappatoio quando, tra le uniformi da scienziato, trovò una camicia a quadri blu e grigi insieme a un paio di calzoni marroni; probabilmente era il cambio del padre che sua madre era solita preparargli nel caso pensasse di rientrare a casa sporco d’olio, grasso, vernice o di qualsiasi altra sostanza pericolosa per l’incolumità della casa.
«Colori indecenti, dovrò accontentarmi.»
Presi gli abiti se li rigirò tra le mani, incerta.
Erano il quadruplo della sua small.


Se metto questa roba mi sa che peggiorerò la situazione. Sono troppo grandi, non posso nemmeno fingere che sia un pigiama.

Ragazza, voglio ricordarti che non è una sfilata. Hai poco tempo.

La coscienza era una spinta in discesa.
«Lasciamo stare gli abiti di papà, devo disfarmi di scarpe e calze. Se Yamcha mi vedesse non credo crederebbe alla balla che colta da un raptus mi sia ridotta così per essermi data alla potatura del giardino sotto un violento acquazzone»

La botta che hai perso in testa deve aver funzionato, eh! ... Datti una sbrigata!
Cercò ancora, immergendosi nell’armadietto e, su una mensola interna, trovò delle ciabattine rosa indubbiamente sue. Ma che erano attualmente inutili.
Mentre si sfilava le calze – dopo aver slacciato e tolto le scarpe – avvertì, in equilibrio sulla punta di un piede, un senso di sbandamento che la portò ad urtare con la spalla l’anta aperta dell’armadietto.
«Fantastico, ora non so più stare in piedi! Ah, Bulma, quando te la farai fare una visita completa?!»
Esclamò, senza percepire il lieve tremolio di quel che la circondava, finché le lampade fluorescenti non emisero una luce più intensa accompagnata da forti ronzii.
«C-cosa sta succedendo?»
Era la collera di Vegeta che, circa venti metri sopra di lei, se ne stava furente davanti a un frigorifero a conoscere per la prima volta la gelosia e l’inaccettabilità di provarla.

 


~ ~ ~


 

Congedato il suocero, insieme alla moglie ancora sconvolta, Yamcha si diresse davanti la soglia della camera di Bulma per controllare che stesse bene. Soprattutto che ci stesse. Perfettamente come previsto da lei.
La strada la conosceva, molte volte c’era stato accompagnato dalla sua ragazza.
Poiché la porta che gli si parava dinanzi era chiusa, ci andò di nocche sul lucido legno d’essa e attese una risposta.
Non fece trascorrere più di un minuto prima di alzare la voce e chiamarla.
«Bulma, sei qui? Mi senti? Dai, non farmi preoccupare, rispondi!»
Non gli importò d’aspettare oltre e l’aprì.
«Amore, stai dormendo?»
La camera era buia. A tentoni, cercò l’interruttore sul muro a sinistra e, trovandolo, accese la luce: lei non c’era.
Al suo posto compariva un soqquadro di libri aperti attorno al letto e sotto di questo; una fila di scarpe dal tacco medio-alto sistemata accanto a un grande armadio e una scrivania che sembrava la copia in dimensioni ridotte di quella nei laboratori. A differenza che, sopra questa, oltre ad esserci un'altra calcolatrice, una scatoletta con un set di cacciaviti e un computer portatile; v’erano sparsi un rossetto, quattro tonalità di vernice rossa per unghie e tutto quel che faceva di Bulma una femmina fanatica, come orecchini dalle stravaganti forme e bracciali d'oro e d'argento.
Sotto la scrivania, un cestino gonfio di rifiuti e bisognoso d’esser svuotato mostrava lo show di un vasetto di yogurt ben spazzolato rimanere miracolosamente in bilico tra un foglio accartocciato e il cartone di una confezione di cioccolatini.
La stanza era un ambiente arredato semplicemente ma caratterizzato da un caos che solo lei poteva creare.


Ha scavalcato la recinzione. Sì, lo ha fatto.

«No, non andrò a cercarla, aspetterò che venga. Sicuramente è andata nei laboratori.»
Si disse Yamcha, con la medesima voce che s’userebbe per dissuadere qualcuno dalla brutta realtà dei fatti; non s’aspettava di non trovarla, anche se, prima di entrare, non aveva percepito alcuna presenza vitale.
Con una mano inforcò i capelli mandando indietro il caschetto da damerino che aveva per acconciatura, e si grattò il capo – appena lasciati, i ciuffi neri tornarono subito al loro posto – poi, si spostò in direzione del letto situato sotto la finestra. Era troppo rassettato per poter immaginare che fosse entrata in camera prima di lui e che ci si fosse sdraiata.


“Signora, Bulma dov’è?”

Ah, le faceva male la testa, è andata a riposare. Ma non preoccuparti per lei, resta e cena con noi.”

Non aveva potuto rifiutare per educazione.

… A riposare.

«Devo stare calmo, adesso torna, lo so.»
Era assurdo persino per lui pensarla come se fosse andata chissà dove. La Capsule Corporation era grande, dispersiva, ma non così sconfinata e con abominevoli mostri pelosi forniti di coda acquattati nell’ombra, come la stava vedendo lo spilungone.
Attento a non pestare i libri disseminati a terra, Yamcha s’accomodò sul letto e questo accolse il suo peso con un lamento leggero. Coi gomiti appoggiati sulle ginocchia, lo spilungone iniziò a fissare attentamente la moquette, quasi che Bulma si nascondesse tra le fibre del morbido pavimento e lui stesse tentando di scovarla.

Dove ti sei cacciata…

La sua pazienza andava surriscaldandosi, così, per rilassarsi, si distese indietro restando eretto sugli avambracci.
Il letto era soffice, candido, crudelmente nostalgico.
Gli mancava: sentiva la mancanza di lui sopra con Bulma sotto.
Dopo esser stato resuscitato grazie ai poteri del Dio Drago non l’aveva più toccata come avrebbe dovuto. Avevano perso quell’intimità, non assidua ma nemmeno saltuaria, che prima del suo disgraziato trapasso aveva caratterizzato il loro rapporto.

Forse è per questo che sono arrivate le nubi.

Era certo, però, che la colpa di tale inattività la si doveva pienamente imputare alla sua fidanzata: tornato tra i vivi, Yamcha l’aveva trovata diversa, non eccessivamente strana come la mattinata trascorsa, ma un filo di anormalità  l’aveva già riscontrato quando una sera, pochi giorni dopo la sua rinascita, avevano provato ad immergersi l’uno nell’altra e lei s’era spenta fra le sue braccia liquidandolo con uno schietto “non mi va Yamcha, è troppo presto”.

Quel “troppo presto”gli era rimasto sul gozzo e, tuttora, non riusciva a comprenderlo. Non capiva in quale spazio temporale collocarlo. Se era un troppo presto dalla sua resurrezione, un troppo presto per la digestione o, a questo punto, un troppo presto dall’averci già dato dentro col saiyan.
Ma dopo quella volta, accaduta anzitempo al suo emigrare per gli “
allenamenti dal Maestro Muten”, lui non aveva più tentato di andare oltre l'abbraccio, portando un atteggiamento remissivo e smisuratamente comprensivo verso di lei che, a pensarci ora, Yamcha si dava dello scemo.
Aveva deciso, da idiota, d’aspettare che fosse lei stessa a sciogliere la tagliente lastra di ghiaccio nella quale s’era imprigionata.
Vederla quindi accettare l’anello – comprato per intiepidirla un po’ – e ricambiare vivamente i suoi baci, come lui credeva, questo aveva riacceso in Yamcha la fiducia che le cose potevano aggiustarsi come sperava (saiyan tenuto alla larga obbligatoriamente).

Quel che Yamcha sottovalutava era che il ghiaccio s’era sì sciolto, ma per un’altra persona.

Irritato dall’interminabile attesa, roteò gli occhi lasciandoli cadere sul comodino accanto al letto. Questo aveva un cassetto semiaperto dal quale penzolava la spallina di un reggiseno bianco coi merletti viola.
Guardandolo, un desiderio gassoso e malato trovò modo di uscire dal sarcofago nel quale era stato sigillato.

Controllati, certe cose non le fai più.

Ma la sua mano disobbedì: con due dita aprì meglio il cassetto ed agganciò la spallina tirando fuori il reggiseno. Usando movimenti lenti lo odorò come fosse incenso benedetto, sapeva di lei e d’ammorbidente aromatizzato alla felce.
Le dita gli traballavano, se lo stava godendo.
Il vizietto era un segreto che nessuno conosceva. Yamcha se lo portava dietro da quando, per sbarcare il lunario, assaliva i viaggiatori che attraversavano il deserto sulla strada per i monti Paozu; con il nome di
Yamcha la Iena del deserto.
Lo aveva sviluppato dai tempi in cui faceva il ladro errante con la fobia verso il gentil sesso.
Bulma non s’era mai accorta dei suoi disturbi, tantomeno che, se c’era l’occasione, le rubava qualsiasi capo della lingerie. Le autoreggenti erano le sue preferite, ma i pizzi cuciti sulla soffice stoffa di un paio di mutandine lo mandavano in fibrillazione.


Va bene, l’ho fatto. Ora lo rimetto dov’era, se lei tornando dovesse...


Però, la voglia era un mostro più grosso di lui. Così frugò nel cassetto, brillo d'avere fra le mani la biancheria intima della sua donna che, per un motivo a lui sconosciuto, non toccava da troppo tempo.


Adesso non tornare Bulma, resta dove sei.

 

~ ~ ~

 

Racconciato alla meno peggio il problema “aspetto”, l’avvenente scienziata stava incollata nel centro del laboratorio a concedersi una riflessione di troppo, sgarrando il tempo che s’era autonomamente concessa per riapparire al cospetto del suo carceriere. In un paio di pantofole rosa, con le cosce nude e i capelli ricci che le ricadevano sulla spalle in ciocche mosce ed attorcigliate come serpenti morti; Bulma cercava di elaborare una scusa per motivare la sua fuga… E definirla così non era neanche il termine esatto: non era fuggita, s’era solo momentaneamente assentata dopo aver avvertito la claustrofobica sensazione di aver un cappio annodato alla gola.
In diritto d’aria, la scienziata aveva fatto una passeggiatina per far scivolare il suo collo da una corda ruvida ad una mano calda dalla presa possente, di cui sentiva attualmente la mancanza e per la quale aveva desiderato essere stretta dappertutto.
Ripreso un po’ d’ossigeno, si sentiva pronta a ficcare nuovamente la testa nel nodo e restare in apnea.

Guardandosi attorno, scovò l’astuccio di capsule Hoipoi, quello con dentro l’utilissimo elicottero 87. Stava sopra la scrivania, mimetizzato in mezzo a un subbuglio di roba, a fare inutilmente peso su una risma di fogli. Il suo cervello, nella frazione di pochi secondi, ingegnò un piano.

Ok, sono scesa di sotto perché mi sono ricordata di aver lasciato lì il mio contenitore di capsule, e l’ho fatto perché dentro c’è un progetto importante che domani dovrò presentare in azienda.
Perfetto! Questa dovrebbe reggere. Se mi dovesse chiedere perché sono bagnata basterà ricordargli l’acqua del dopo horrid-park. Sì, mi crederà.

Oh, ti crederà incantato come un bimbo al quale viene raccontata la storiella della fata dei dentini.
Yamcha è stupido, ma non così stupido.

Il suo elaborato mentale era una bagnarola che faceva acqua da tutte le parti; la coscienza stessa la canzonava. Non avrebbe funzionato, sarebbe affondata. Tuttavia, volle convincersi del contrario.
Magari con un sacco e una scorta di buona sorte lo sciocco fidanzato non l’avrebbe messa sotto torchio.
Si mosse, puntando verso la sua stanza. Aveva poca certezza di riuscita ed era inconsapevole della libertà che la madre s’era presa per giustificare la sua apparentemente immotivata sparizione.
Ad attenderla c’era un Yamcha sconosciuto che frugava nei suoi cassetti.

 

~ ~ ~



Udito acuto e sensi attenti lo salvarono dall’essere scoperto e morire di vergogna.
Lo spilungone, percepito uno svelto ciabattare sul parquet dirigersi verso la camera dove si era infilato senza permesso, rimise a posto il paio di mutandine che teneva stretto fra i denti e la lingua, chiuse il cassetto e velocissimo spense la luce. Si nascose a terra, nello spicchio di spazio tra il letto e la parete.
Era lei, ne riconosceva i passi.
Quando Bulma entrò, avanzò nell’oscurità dirigendosi direttamente nel bagno interno alla camera. Lì, accese la luce.
Con la sicurezza di aver anticipato l’aguzzino, e un sorriso che per poco le tagliava in due il viso, si tolse la maglia a righe del suo compianto completino arancione. Pensò di sfruttare il momento e farsi una doccia. In tal modo, se lui si fosse presentato l’avrebbe trovata innocente e pulita a fare una cosa normale.
Lasciò scivolare la maglia ai suoi piedi, ed intanto che tentava di sganciarsi il reggiseno, vide nello specchio davanti a lei l’immagine di un corpo che non sembrava più il suo: i lividi erano ancora tutti lì, più intensi, a marchiarle la pelle chiara con sfumature di viola e verdastro – addirittura, quelli sul fianco s’erano dilatati raggiungendo il ventre – ma la novità stava sul collo: dove strisce e chiazze rossicce formavano un tatuaggio di segni nuovi, ancora lievi, ma che sarebbero diventati presto più scuri. 
Nonostante la loro bruttura, Bulma constatò che il rosso le donava. Davvero. E un campanello d’allarme le suonò alto nella testa, lei lo ignorò e, indifferente, evitò anche d’ascoltare la vocina che l’accusava d’essere una bacata masochista da ricovero urgente.

Per nascondere ogni misfatto, sarebbe bastato indossare un maglione dolcevita e stare attenta a non tirar su le maniche; quella destra in particolare, dove l’impronta della mano di Vegeta era evidente.

«Bulma, ti stavo cercando.»

Credette di morire e le ci volle un lasso di tempo non molto breve prima di appurarsi che il suo cuore non era scoppiato ma continuava a pompare i soliti battiti, solo che ad un ritmo più accelerato.
Connetti, sei mezza nuda con le tracce di un altro uomo su di te, cosa potrebbe pensare?
Istintivamente, prendendo un asciugamano, Bulma si coprì il braccio ed abbassò la testa celando le chiazze che aveva sul collo. Per il resto, pregò vanamente che il suo fidanzato non s’accorgesse di nulla.
«Yamcha! Ma non bussi prima di entrare?!»
«Scusami, non ci ho pensato. Tu invece sta’ attenta a tenere le porte chiuse,
quando ti spogli. Quella della tua camera era aperta, sentendoti in bagno e vedendo che pure questa porta era spalancata, sono entrato.»
Le rispose sornione, permettendosi di rimproverarla. Gli aveva detto bene a non essere stato colto sul fatto.
Bulma trasalì: era trapelato risentimento dal modo in cui le aveva parlato.
«Allora, hai saltato la cena, che t’è successo, come stai?»
Il ragazzo passò subito al sodo, friggeva dal bisogno di sapere cosa diavolo stava combinando la sua Bulma, perché ne era certo: lei gli stava nascondendo qualcosa.
«Sono dovuta scendere nei laboratori.»
Ci andò sciolta, a questa domanda era preparatissima.
«Tua madre mi aveva detto che avevi mal di testa e che hai preferito ritirarti nella tua stanza.»

Cosa? Possibile che quella donna non si faccia mai i fatti suoi? È utile quanto disboscare un terreno a rischio smottamenti, accidenti! Va bene, calma, calma, calma, posso sanare la falla. Ci vuole naturalezza.
«Sì, anche quello, ho un forte dolore, proprio qui!»
Disse, cercando di mimare un malessere che non c’era. Anzi, in verità lo aveva: la sua cute ad intervalli le mandava squisite ondate di dolore. Colpa del saiyan.
Accorgendosi che Yamcha era stranamente attento e poco convinto, Bulma continuò la recita.
«Certo, avrei dovuto riposare, ma non ho potuto. Vedi cos’ho in mano – disse, agitando l’astuccio di capsule Hoipoi sotto il naso di lui – qui dentro c’è un progetto che domani dovrò presentare in azienda, un nuovo prototipo d’autovolante da immettere nel mercato… Credevo di averlo perso, quindi sono scesa a cercarlo nei laboratori. Fortuna che l’ho ritrovato!»
Un’interpretazione penosa, di istrione, ma fu quanto di meglio poté fare prima d’iniziare a sparare a salve.
«Certo, ho capito»
Proferì lui, laconico ma sufficientemente soddisfacente per farle tirare un sospiro di sollievo.

Che bello! Credevo m’avrebbe tempestata di domande. Lassù qualcuno mi ama!
Ma come spesso stava accadendo, le gioie le duravano quanto un battito del suo cuore agitato.
Sul viso di Yamcha non v’era la manifestazione di alcun sentimento, c’erano solo un paio di cicatrici e due occhi da crotalo che le solcavano la pelle, soffermandosi spesso a scontornarle i seni. Lei non si era mai sentita tanto scoperta di fronte lui.
Presumibilmente, non le aveva creduto e stava immaginando chissà quali contorte stranezze.
La stava incriminando.

«Che cosa sono questi?»
Sentirlo riaprir bocca la fece sussultare ancora.
«Come?»
«Cosa sono questi lividi, come te li sei fatti?»
Insistette lui, avvicinandosi a Bulma e indicando le ecchimosi che le macchiavano il fianco.
«Ah, questi… be', ieri ero in laboratorio e inciampando ho urtato uno dei tavoli operativi e parte dell'attrezzatura metallica mi è caduta addosso»
In improvvisazione, la scienziata continuò a tenere stretto l’asciugamano che le copriva l’avambraccio. Almeno gli altri lividi lui non doveva scoprirli.
«Che hai?»
Chiese Yamcha, maggiormente convinto dei suoi dubbi nel vederla letteralmente in difficoltà.
«Niente, perché?»
«Continui a tenere la testa bassa e hai il respiro corto.»
«Davvero? Non so, forse mi vergogno»
Era andata, aveva scarsa padronanza di quel che diceva.
«Ma dai, amore! – esclamò Yamcha, pieno di innaturale entusiasmo – Non è mica la prima volta che ti guardo! Su, avvicinati.»
Disse lui e lei eseguì telecomandata; stando nel torto il suo carattere da pantera s’era ridotto a quello di un coniglio spaventato.
Il ragazzo le baciò le fronte con lentezza, le accarezzò i lividi che aveva scoperto provocandole un solletico molesto, dopo, passò a cercarle le mani… Inevitabilmente, le sfiorò le dita e se ne accorse.

«L’anello…Bulma, dov’è l’anello?»

Il verdetto della giuria dichiara la signorina Brief… colpevole!

Aveva pensato a tutto, ma l’elemento con l’assoluta precedenza l’aveva totalmente scansato dalla testa tanto che voleva sbarazzarsene.
«Non preoccuparti! L’ho tolto solo per mettermi un cerotto al dito. Prima, tagliando le cipolle, mi sono ferita. G-guarda qui – balbettò, mettendo in vista il brutto adesivo marroncino al posto del gioiello che  lui le aveva regalato – l’avrò lasciato sicuramente da qualche parte.»

O almeno spero, perché nemmeno io so che fine abbia fatto.
Yamcha la stava fissando con occhi da crotalo perplesso, indeciso se crederle o schiaffeggiarla.
Scelse la prima. Non era un animale come lo scimmione. Tuttavia, con stretta vigorosa, l’afferrò per le spalle.
Una strigliata, pur se minima, doveva dargliela: far sparire l’anello era troppo…
Troppo!
«Bulma, mi dispiace dirtelo ed infatti non dovrei, ma per regalartelo ho dovuto dare in cambio il mio di anello! Capisci?! – le stava urlando in faccia… Era un sonagli quello che s'udiva vibrare nell’aria? – Ti prego di ritrovarlo. Vorrei che tu lo indossassi, è importante per me.»
A Bulma crollò il mondo, la casa, l’anima e sprofondò all’inferno.
Il gingillo di cui parlava, se aveva ben capito, era quello che Yamcha e gli altri componenti dei Titan avevano ricevuto dopo aver vinto la World League di Baseball.
Quell’anello-trofeo aveva un valore immenso in denaro e certamente un valore smisurato per lui.


Lui, ha rinunciato ad una cosa che gli era cara, per me.
Ed io come lo sto ricambiando? Mentendogli ad ogni parola, ad ogni sguardo e tradendolo con-

«Tesoro, me lo farai questo piacere? »
«Sì, sì, lo farò. Ti prego, scusami.»
Era esattamente quello che voleva da lei: le sue scuse, il perdono per la giornataccia stracolma di bocconi amari che gli stava facendo ingurgitare.


Non te la meriti la mia pazienza. Ho aspettato fin troppo il tuo“troppo presto”. Voglio essere ricompensato.

Yamcha le strappò il cerotto, scoprì il piccolo taglio e premette appena da far uscire altro sangue dalla ferita ancora fresca.

Bulma lo osservava allibita lasciandolo fare, era sconcertata al punto che nemmeno sentiva dolore.

«Amore – sussurrò, lui – io penso che... non sia più troppo presto, tu che dici?»

Le domandò, languido, leccando via piccole gocce di sangue.

A seguire, iniziò la conseguenza ad uno stato di trance: Bulma credeva di avere molto da farsi perdonare.



 

~ ~ ~




Il soffitto era lo stesso su cui una volta, da bambina, le piaceva osservare le luci multicolore di un laser che suo padre aveva costruito appositamente per lei e che proiettava le costellazioni del cosmo.
Ora, il medesimo soffitto che la sovrastava si muoveva, cioè, era lei a non poter rimanere ferma, e non v’era alcuna luce ad illuminarlo; a parte quella dei balenanti bagliori dei lampi che intrusi trapassavano le tende e si rifrangevano lievemente su di esso, illuminando una ballata senza amore e proiettando sul muro la sagoma nera e ondeggiante d’un corpo affannato e di un altro, esile, succube e nascosto tra le lenzuola del letto.
Allo spettacolo luminoso si susseguiva un cigolio cadenzato, che a volte si confondeva tra i boati del cielo ancora colmo d’energia da scaricare.

Sai com’è, lo conosci, vuole arrivarci subito, preso il ritmo in pochi movimenti ha finito.
Era stato così da sempre, ed era meglio: non era costretta a scuotersi sotto di lui.
Qual è l’apice più estremo del disgusto, vomitarti addosso?
Sbrigati a fare quello che devi e togliti.
A Yamcha, momentaneamente, non interessava più sapere cos’era realmente successo al gioiello che le aveva donato, per quale motivo lei avesse i capelli umidi, come le erano usciti i lividi che aveva visto e gli altri di cui si era accorto finendo di spogliarla; e non voleva sapere nemmeno perché odorasse d’erba bagnata anziché di caramella come era abituato a sentire quando la annusava.
Avrebbe pensato poi ai chiarimenti.
L'importante era averla riportata nel recinto. La stava marchiando, riappropriandosene ulteriormente: fughe o meno, lei era s
ua. Si stava prendendo il giusto compenso per esser stato tanto in pena, mollandole un regalino che gli avrebbe assicurato di possederla per sempre. 
La garanzia che, qualunque diavoleria rivoltante quel saiyan tentasse di fare durante la sua assenza, Bulma sarebbe rimasta per forza legata a lui.

Una storia d’amore poteva cancellarsi, un figlio no. Almeno non con altrettanta facilità, e conoscendola, lei non lo avrebbe mai fatto.

«Bulma…»
Le alitò vicino a un orecchio.
«Voglio sposarti»
Furono due battute inserite fra una spinta decisa e il suo momento culminante.
Pareva programmato. A pensarci le veniva da ridere e l’avrebbe fatto se quel che le aveva dichiarato non fosse stata una condanna a morte.
«Non c’è bisogno che tu mi risponda, lo so che mi ami e che lo vuoi anche tu.»
Perseverò lui, scivolando via da lei.
«Domani andrò via all’alba per trasferirmi a North City, è lì che si allena la squadra.»
Rivelò l’aguzzino, accasciandosi ansimante e sudato al fianco della ragazza che, invece, era rimasta paralizzata e non aveva opposto alcuna resistenza.

North City, più di seimila chilometri lontano da me.
Con le lacrime agli angoli degli occhi, Bulma distese le labbra in un sorriso sottile e silenzioso, invisibile nell'oscurità.
«Prometto che ti chiamerò spesso, se ci riuscirò tutti i giorni.»

Oh, perché prenderti questo disturbo.
«Quando avrò modo di tornare, faremo una festa per annunciarlo ai nostri amici, che ne pensi?»
Che ne penso? Lo vuoi sapere?
«Sì... faremo una festa, credo sia un'ottima idea», continuò lui.
Dovrò dirlo anche a Vegeta, dovrò dirgli che mi sposerò… Ma lui non è mio amico. 
«Amore mio, sono felice!»
Sono contenta per te.
«Bulma...»
La chiamò per farla voltare verso di lui.
«Buonanotte.»
Terminò, afferrandole il mento e baciandola ancora sulle labbra.

Le ore che trascorsero furono un perpetuarsi della tortura: Bulma si trovò costretta a subire i ronfi pensanti del suo ragazzo, altresì futuro marito, penetrarle i timpani. Era stanca.
Provare a chiudere occhio? Una barzelletta che non faceva ridere.
Al limite della sopportazione, si scostò da Yamcha sgusciando via dal braccio pesante che la intrappolava.
I suoi quarantotto chili le permisero di rannicchiarsi sul bordo del letto a una piazza e mezza.
Aveva bisogno di ritagliarsi uno spazio per riflettere e mettere ordine dentro di sé, perché un subbuglio impazzito di pensieri contraddittori stava per eruttarle nella testa. Era un tormento lavico e scottante che sentiva scorrere ad alta velocità in ogni canale del suo corpo.


 

Continua…


Note:

1.Ho rettificato il nome della squadra di baseball in cui gioca Yamcha da Taitans in Titan.
2.Le altre squadre presenti son pura invenzione, idem per l’anello-trofeo dello spilungone (particolare rubato al campionato statunitense di baseball);e anche la provenienza del signor Brief è roba di mia scelta, ma se ho deciso di dargli la Città del Nord come città natia è per via di motivi che non vi dirò.
3.Prima che qualcuno arrivi ad accusarmi di aver esagerato nel rendere Yamcha un feticista, voglio giustificare la mia scelta: se ricordate, all’inizio di DB, il ragazzo soffriva di un’esagerata vergogna verso il sesso femminile tanto da rimanerci paralizzato alla sola vista. A mio giudizio non credo sia tanto strano che uno affetto da simili disturbi possa sviluppare devianze e avere problemi di rapporto. E qui chiudo il delicato argomento.
4.Ho modificato un particolare del primo capitolo, ovvero il Dottor Gelo in uno scienziato del Red Ribbon. Nelle note di "Il genio, il torvo, e un po' di sangue" avevo scritto che non avrei rispettato la cronologia esatta degli eventi, ma riflettendoci questo è un dettaglio troppo importante che non può essere variato con leggerezza: nessuno conosce il nome dello scienziato, specie Bulma che lo scopre solo dopo averlo visto e riconosciuto.
5.Quella che vedete in basso è una GIF abbastanza sgranata, l’originale è migliore e più veloce, ma alla rete non posso chiedere miracoli, comunque, chi avesse voglia di vedere il disegno genuino può cliccare qui (è più nitido, si vedono meglio i particolari).
Spero abbiate gradito la piccola sorpresa, anche se semplice e fatta alla svelta (in qualche modo dovevo farmi perdonare la lunga assenza).
6.Se alla fine di questo capitolo avrete voglia di uccidermi per quel che ho combinato risparmiatemi e abbiate fede.
7.Ringrazio recensori, lettori, i Santi che vogliono ancora seguirmi nonostante i miei ritardi e naturalmente i nuovi arrivati che sono sempre graditi (sappiate che di tutti voi non cito mai i nomi per rispetto della privacy).
8.Stavo per dimenticare: ho deciso di variare di poco le fattezze di Yamcha da come, inizialmente, ve l’avevo presentato. In quest’ultimo disegno mi sembra somigli di più all’originale, il vecchio aveva un viso troppo paffuto e bonaccione.

 

 

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