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Autore: Erodiade    03/10/2011    4 recensioni
“Nooo…” Gemito roco, lamentoso, quasi un miagolio orgasmico. Dolore e piacere si somigliano, alla fine. “Le gambe, le mie gambe, non tagliatemi le…”
“Non è successo niente alle tue gambe… Avanti.”
Mi convinco che nessuno intende amputarmi gli arti, è solo il volto rugoso di nonno Joe che parla con quella sua voce a ringhio. Sembra un latrato. “Falciate di netto!” – e ridacchia il suo riso di maligna idiozia. “Eheheh.”
***Andy ha una madre ansiolitica che non dice mai quello che pensa, un padre zerbino dall'espressione stolida, un nonno che ha perso le rotelle in Vietnam. Andy ha una testa sulle spalle e una valigia riempita in fretta e furia. Andy ha un ragazzo, Al, e una notte partono insieme. Ma Andy e la fortuna non sono mai andati molto d'accordo.
"Did you get what you deserve?" è una piccola tragicommedia sull'ipocrisia, sulla banalità delle persone; nasce in mezz'ora di stesura, dopo un'ora di scazzo e durante la lettura di Palahniuk.
Alcune allusioni slash, sintassi semplice, espressioni talvolta scurrili e qualche immagine un pò "cruda".
Genere: Introspettivo, Satirico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In corsivo riporto le frasi che Andy immagina o ricorda. Per scelta stilistica, è tutto al presente tranne qualcosina.
 

_Did You Get What You Deserve?_
 
 
Sudo freddo. Tremo. E cado.

Non riesco a fermarmi, perdo il controllo delle gambe che vanno giù come birilli perché il mio sistema nervoso è a pezzi.

“Falciate di netto! L’hai mai vista della carne putrescente, ragazzo? In Vietnam vedevo più arti per aria che non attaccati ai rispettivi proprietari!”

Conato di vomito.
Decomposizione violacea, sanguinosa. Carne che luccica, pullulante d’insetti.

Colpa dei videogiochi di Tommy.

“I bambini non sanno più come divertirsi al giorno d’oggi”, dice sempre mia nonna scuotendo il capo.

Qualcuno mi raccoglie da terra, le mani di un militare che mi sorregge, che mi conforta.

“Tutto bene, ragazzo… Ora andiamo, da bravo, su.”

“Nooo…” Gemito roco, lamentoso, quasi un miagolio orgasmico. Dolore e piacere si somigliano, alla fine. “Le gambe, le mie gambe, non tagliatemi le…”

“Non è successo niente alle tue gambe… Avanti.”

Mi convinco che nessuno intende amputarmi gli arti, è solo il volto rugoso di nonno Joe che parla con quella sua voce a ringhio. Sembra un latrato.

“Falciate di netto!” – e ridacchia il suo riso di maligna idiozia. “Eheheh.”

“Andato come un birillo”, sospira Carol mentre si smalta le unghie, ascoltando la radio.

Nessuno ha voglia di stare dietro a Joe, con le sue poche rotelle e i suoi pannoloni. Si sveglia di notte con gli occhi strappati dalle orbite e la morte in faccia, urlando.

“FUOCO! FUOCO! VIETCONG DEL CAZZO!”

Va’ avanti per dei quarti d’ora, poi piagnucola nel suo giaciglio di piscio finché Terese lo lava, lo sistema, lo rimette a dormire tra lenzuola pulite.

Tutto questo alle tre di mattina, coi vicini che si riscuotono di soprassalto, tossiscono catarro e commentano: “Ancora quel matto del vecchio Joe.”

Le sirene dell’ambulanza. Così ricordo di non essere un militare. Non sono mai stato in guerra, e quella del Vietnam è finita da un pezzo.

“Tieni tuo padre fuori di qui, spaventa i bambini!” Mia madre, di certo.

“E dove lo metto…”, giunge il sussurro angosciato di mio padre.

Joe è morto l’anno scorso.

Sulla bara era posata la bandiera americana, e al funerale Padre Roll l’ha descritto come un eroe dell’esercito.

“Il nonno ha salvato cinque dei suoi, sai, Andy?” Mia madre si china su di me, mi accarezza il capo.

“Mmmh” annuisco.

In bocca sento il sapore salato del pianto. Un pianto privo di senso, perché io con Joe non ho mai avuto un rapporto. Nessuno riusciva a parlargli.

“Proprio coraggioso. Ne ha viste di brutte…” Osserva mio papà, un po’ stranito, non sa bene quale reazione adottare. Dal giorno della morte, ha quell’espressione confusa e un po’ vacua.

“Se aveste avuto soldi l’avreste ficcato in un ospizio!”

Ma no, non lo dico, resto in silenzio. Mi mordo la lingua che sa di lacrime. Non piango per lui, quindi è inutile difenderlo.

Ed ora, chissà perché, mi viene in mente mio nonno.

La sua vita dev’essere stata uno schifo, tra gli spari prima e nella merda dopo.

In cambio niente, se non una stupida cerimonia con gente che finge un dispiacere che non prova.

Frasette di circostanza e discorsi sull’onore dei militari. Blablablablablabla.

“Mio figlio! Come sta, come sta?”

“Signora, si sposti, o se vuole salga…”

Mi trasportano su. La mia mente comincia a connettersi. Immagino che ronzi per lo sforzo come un congelatore rotto: Zzzzzzzzzzzzzz.

Una mano fresca sulla fronte.

“Oh, Andy…”

Provo a parlare, ma esce unicamente un singulto.

Non riesco ad aprire gli occhi, le mie palpebre sono incollate. Immagino piccoli martelli che le inchiodano, minuscoli esseri al lavoro mentre ghignano. “Eheheheheh.”

Movimento. Si parte!

Da piccolo, una volta, mio zio mi ha portato a lavorare con lui sulle ambulanze. Vanno veloci, sgommando sull’asfalto. Mia madre si è arrabbiata, dicendogli che non andava bene per un bambino.

“E se avesse visto del sangue? Esistono realtà orrende! Se fosse morta una persona? Se avessi dovuto soccorrere uno in crisi d’overdose?”

Crisi d’overdose. Tremo, ho freddo.

No, non è astinenza. Impiego un po’ a ricordare che ho smesso con quella roba. Non da molto, saranno quattro mesi – però è un record.

Ora posso anch’io dire “quella roba” con la stessa smorfia di disgusto che si vede in faccia alla gente per bene dei telefilm.

“Io non mi farei mai di quella roba!” Esclamano cori scandalizzati nella mia testa.

Ci si mette anche mia madre: “Oddio, Andy, tu sei un…”

I puntini di sospensione sono molto buffi, perché uno si può divertire a riempire gli spazi.

Ci stanno la parola “drogato”, la parola “tossico”, la parola “frocio”.

S’intende che si sia bloccata prima di giungere a conclusione per gentilezza, perché dicendolo lo avrebbe reso reale, concreto, un dato di fatto incontrovertibile.

Mica ne ero uscito grazie a lei. Mica ne esci se hai intorno gente che nega come te.

Era stato Al.

Al. Prima dell’incidente.

C’è sempre il tempo di ricominciare a farsi, penso. Nel caso lui muoia, nel caso, c’è sempre tempo.

Ora ricordo. Al è con me. Sì, è con me sull’ambulanza. Vorrei sollevare le palpebre, ma gli omini si ostinano a tenermele abbassate.

Mi passano davanti i fotogrammi dell’auto che sbuca dalla curva e della nostra che si schianta nel tentativo di evitarla. Le nocche di Al sono bianche mentre le mani impugnano il volante.

E poi? Il sangue. Le gambe. Le sue gambe.

Per una specie di miracolo riesco a liberarmi da quel cartoccio di macchina, anzi, per una specie di miracolo riesco ad alzarmi, a sopravvivere. Forse perché mi ero infilato nei sedili posteriori, veloce e agitato a causa della partenza. Un viaggio di non ritorno.

La mia valigia ha la cerniera difettosa, esplode con lo schianto e rigurgita il suo contenuto spiegazzato.

Come cazzo ho fatto ad uscirne vivo? I miracoli di cui parla la nonna.

Barcollo un po’ e crollo, di colpo. L’asfalto sale a baciare le mie labbra protese, la mia lingua arida lecca il sangue che mi oscura la vista. Gusto di ferro.

Non mi rendo conto di nulla, il mio corpo ha agito da sé, per via istintuale.

Se non ho provato ad allacciare il mio sguardo a quello di Al è perché il mio mondo è imploso, con piccoli frammenti schizzanti di qua e di là. Stelle filanti.

“È ancora shockato, in stato confusionale.”

Giààà, ecco come si chiama! Stato confusionale.

Mi sono dimenticato di Al. Per uno, dieci, venti minuti. O per ore? Mi sono dimenticato che Al era con me.

“Ma si riprenderà? Non è…non sta…”

Il discorso si fa interessante, ma mio nonno riprende a guardarmi dall’alto ed il buio m’inghiotte nella sua bocca da battona.
 
*
 
Al che mi prende per mano.

Al che guida le mie dita sul suo petto nudo, sui capezzoli rosei, che prende tra i denti, delicatamente, il lobo del mio orecchio.

Il suo naso freddo sulle scapole.

La sua bocca si schiude, accoglie la mia lingua ed io accolgo lui.

È in me, carne e sangue.

Fare l’amore con lui è farsi avvolgere da un’onda, schiuma e bollicine e sensazioni bagnate.

Sospiro della marea che si ritira, ruggito del mare che ritorna, che ricopre i sassi della riva e li porta via con sé.

Annaspo, e gemo, e muoio.

Spinta languida, spinta veloce.

Lo assecondo, il nostro piacere che s’incontra in un punto, dentro di me.

Come affondare.

Ci si perde, un roteare di pupille e la frenesia del fuoco.

Sale sulla pelle. Carne che si incolla alla carne. Sudore lucido.

E poi apro gli occhi.

Bianco su bianco. Una stanza d’ospedale, sono a letto. Cerco di parlare. Il mio campo visivo viene occupato all’istante da mia madre, che blatera.

“Andy! Andy, caro! Tuo padre arriva appena riesce…”

“CommstaAl?”

“Cosa, caro? Ripeti, non capisco!”

“Come. Sta. Al.” Cerco di scandire il più lentamente possibile.

D’altronde ora non m’importa delle sue moine. L’ha notato che c’è qualcosa di urgente, che c’è in ballo la vita di qualcuno? L’ha notato che ho fatto le valigie? L’ha notato che io e Al…?

Sì, dico, qualcuno si è accorto di che cosa stava succedendo o no?

“Oh, oh, tesoro…” La sua faccia si contorce per il dispiacere. Convenzionale, falso dispiacere. “Andy, tesoro…”

Io capisco, e il mondo riprende a vorticare.

Lei può anche continuare a finire le sue frasi con i puntini di sospensione perché io occupi gli spazi interpretando i suoi pensieri, ma ormai riesco perfettamente a capire quello che gli altri pensano di me.

Perché non importa quanto uno si sforzi di sfuggire alle etichette.

Perché non importa se uno come Al aiuta un coglione come me a sfuggire alle follie della sua famiglia convenzionale, fatta in serie e rivenduta ai grandi magazzini; non importa se uno come Al ci rimette la pelle e un coglione frocio drogato come me no.

Nonno Joe ridacchia dalla bara, ci guarda tutti: me sul mio letto, mia madre con le sue ansie da chioccia, suo figlio con la faccia stolida, mia sorella che guarda la tv e legge riviste, il mio fratellino che ammazza androidi virtuali.

“Brutti idioti che non sapete un fottuto cazzo della vita e della morte!” Ci saluta.

E, mentre l’universo slitta via e svengo di nuovo perché mi trovo “in stato di shock”, m’immagino il funerale di Al.

I miei e i suoi lì, vestiti di nero al party, a smangiucchiare tartine, a fare finta di nulla.

“Erano tanto amici, eh?”

“Inseparabili, che carini..."
 
 

Allora, brevi annotazione su questa cosa. Primo, lo stile è volutamente molto semplice. Forse mentre scrivevo pensavo al colonnello Leek di "Il petalo cremisi e il bianco" di Michael Faber, dato che è spuntato dal nulla il vecchio Joe, o forse avevo in mente "Dead" o "Kill all your friends" dei My Chem, ma in ogni caso, è nata questa shot. Andy, nella mia testa, ha 16 anni (mi sento vecchia O_O) e non ha alcun vero motivo per voler scappare di casa: è solo stufo del piattume intellettuale che lo circonda. Il fatto che si senta, chessò, non accettato, è un classico tema da adolescenti, ma lungi da me parlarne. E poi, nonno Joe è il più matto di tutti, ma qualcosa mi dice che ha vissuto e che fa bene a mandare tutti al diavolo.
Avete riflessioni e pareri da riferirmi? Spero di sì.
Ringrazio U.U
Ero
 
   
 
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