Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Dira_    10/10/2011    20 recensioni
Per diventare un Guaritore basta essere un po' fifoni, parecchio incoscienti e, sopratutto, avere un amico come Thomas Dursley.
[Spin-off di Doppelgaenger]
Genere: Avventura, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Severus Potter, Harry Potter, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

 
Chiedetelo a qualunque medico e saprà indicarvi l’istante esatto in cui lo è diventato.
Generalmente, non è il giorno della laurea in medicina.
(Grey’s Anatomy)
 
 
Papà non stava bene.
Albus aveva sette anni ma non era un bambino stupido. Per niente. Non glielo aveva detto nessuno; l’aveva capito da solo.
La sera prima suo padre non era tornato a casa. Non si era annunciato come al solito con il forte scoppio della materializzazione, facendo accorrere lui e i fratelli. Ad Al piaceva quando faceva così; lo prendeva sempre in braccio prima di tutti – era il più veloce a correre, anche se il più goffo.
Forse lo prendeva in braccio proprio per non farlo ruzzolare a terra.
Comunque.
Adorava essere tirato su e frugare nelle tasche del mantello del padre per trovarci qualche Ape Frizzola, o ancora meglio le Bolle Bollenti. Era buffo, perché suo padre fingeva sempre di non sapere come ci fossero finite quando sua madre si arrabbiava vedendoli masticare con tanta lena poco prima di cena.
La sera prima però non era successo. Era arrivato solo zio Ron, tardi e con una faccia strana. Sua madre l’aveva fatto andare in cucina mentre lui, Jamie e Lils avevano avuto l’ordine di tornare in camera.
Naturalmente Jamie aveva tirato fuori il suo paio di Orecchie Oblunghe ed erano andati ad appiccicarsi alla porta. Sua madre però si era fatta furba: s’era sentito solo un gran ronzio.
Al era stato il primo a ricordarsi che rumore faceva un mufflatio.
 
Le cose non erano andate meglio quella mattina. Erano stati infatti portati alla Tana perché la mamma era dovuta uscire.
I nonni erano seri e smettevano di parlare di colpo se lui o Jamie, o se per quello anche Lily che era ancora piccola, li sorprendevano. Aveva anche notato che atterravano un sacco di Gufi, e un paio neppure li aveva riconosciuti. Non erano di casa.
Albus non era come i suoi fratelli in tante cose; non era forte e tosto come Jamie, capace di arrampicarsi su un albero e spenzolarsi attaccato per le gambe. Non era una bambina come Lils, e quindi era più difficile per lui chiedere di essere coccolato. Non era rumoroso come loro e faceva molti meno capricci. Quindi finiva sempre per venir lasciato in disparte.
Doveva ammettere che c’era abituato. Per questo gli stava bene stare sotto il vecchio salice a leggere un libro dove un prode mago affrontava un drago spaventoso.
Non gli piaceva quel libro, comunque.
E voleva sapere cosa stava succedendo e sapeva che non glielo stavano dicendo perché era una cosa brutta.
Albus aveva sette anni ma non era stupido per niente.
 
“Ehi maghetto. Che ci fai qui tutto solo?”

Suo zio Ron lo trovava simpatico. Anche lui trovava simpatico zio Ron. Gli aveva insegnato a giocare a scacchi ed era buffo quando si arrabbiava seguendo le radiocronache di Quidditch.

Sua madre una volta gli aveva detto che entrambi erano i maschi più piccoli di una famiglia con fratelli chiassosi. Forse era per quello che zio Ron era sempre tanto gentile con lui.
“Ciao zio.” Sorrise, perché non voleva far vedere che si sentiva triste. Supponeva che portarli dalla nonna e farli giocare con Ted servisse per farli sorridere e non preoccupare. “Sto leggendo un libro.”
“È un bel libro?” Gli chiese, accovacciandosi davanti a lui. Gli piaceva quando i grandi lo facevano. Era molto meglio che essere fissati dall’alto.
Si strinse nelle spalle, senza sapere cosa dire. “È di Jamie. Me l’ha prestato.”
Suo zio annuì come se avesse detto una cosa interessantissima. Sembrava imbarazzato. “Ehi, ehm… di che parla?”
“Che cos’ha il mio papà?” Forse non andava bene che lo chiedesse così, ma non gli importava. Suo padre era il suo papà, e se aveva qualcosa che non andava, qualcuno, chiunque, glielo doveva dire.

“Ma no, che dovrebbe avere, non…”
“Sta male?”
Suo zio era proprio buffo quando spalancava la bocca in quel modo. “E tu come fai a saperlo?”
“Ieri non è tornato, e torna sempre. Se non torna, ci chiama col camino e ieri non l’ha fatto.” Era un ragionamento talmente semplice… Possibile gli adulti fossero così scemi?

“Sei proprio un tipo sveglio.” Sospirò. “Accidenti, quanto hai preso da tua ma’…”  
“Mi porti da lui?”
Di nuovo quella faccia strana. La odiava. “No, maghetto… non posso. Il tuo papà ora non può vedere nessuno.”
“Ma presto sì?”
“Certo!”
Tom, quel suo strano cugino, diceva sempre che i grandi facevano pena a dire bugie.

Ed era vero, perché suo zio stava mentendo e si vedeva lontano un miglio.
Gli venne da piangere.
“No, ehi… ehi, Albie, non piangere! Andiamo, maghetto… oh, miseriaccia!”  
Quella era una situazione schifosa, decretò silenziosamente scosso dai singhiozzi, con la mamma che non c’era e i suoi fratelli che facevano tanto baccano da renderlo invisibile.
“Voglio andare via.” Sbottò quando si fu un po’ ripreso.
“Dove?”
“Via!”

“Oh… ah, da Thomas?”
Proposta inaspettata, ma allettante. Dal cugino erano strani, per l’amor di Merlino se lo erano. Erano babbani. Però d’altro canto Tom aveva una bella altalena e tanti giochi. E sua mamma faceva torte buonissime.

“Sì, voglio andare da Tom.”
 
****
 
“Perché sei qui?”
Il cugino Thomas era strano. Si poteva dire che fossero un po’ amici, ma non come con Rosie, sua cugina e super-miglior-amica – il grado massimo dell’amicizia.

Era molto intelligente, questo lo sapevano tutti. Leggeva più libri di Teddy – sì, era possibile – e giocava a giochi difficili, come un gioco babbano chiamato Rosiko¹ che né lui, né tantomeno i fratelli, avevano mai capito.
Nonostante le poco esaltanti premesse, per Al era un tipo a posto. Non aveva dimenticato la volta in cui l’aveva aiutato a Natale con James, sommergendolo di neve perché faceva il cretino. 
Tom con lui era gentile, più o meno. Forse perché non urlava e non si agitava, forse perché gli chiedeva sempre il permesso per fare tutto in camera sua.
In ogni caso, lui e Thomas dovevano essere amici.
All’incirca.
Perché Tom, seduto sul tappeto, lo guardava arrabbiato. Aveva di nuovo smembrato uno dei suoi giocattoli con gli attrezzi di suo papà, che Al ricordava non dovesse tassativamente toccare.
“Rispondi.” Lo incalzò, dato che non replicava. “Perché sei qui?”
Al sapeva come arginare qualcuno arrabbiato con lui. Funzionava sempre allo stesso modo.
“Sono venuto a trovarti…” Pigolò, cercando di ricordare qualcosa di triste per farsi venire gli occhi lucidi. Non ci mise molto dato che a conti fatti triste ci si sentiva davvero. “… se vuoi me ne vado.”
Tom lo guardò come se non capisse che diavolo stesse dicendo. “Perché piangi? Che cos’hai?” Gli chiese aggrottando le sopracciglia. “Ti sei fatto male?”
“No! È che… succedono delle cose strane, a casa. E non volevo più starci.”

Tom sembrò ancora più confuso. “Dimmi cos’è successo.”
A molte persone non piaceva che Tom avesse quel tono di comando. Lui invece lo trovava riposante. Preferiva quando qualcuno gli diceva chiaro e tondo cosa voleva.

“Papà ieri sera non è tornato a casa, e neanche stamattina. Mamma non c’è, e tutti sono seri e preoccupati. E zio Ron non mi voleva dire che stava male.”
A Tom andavano spiegate le cose precisamente. Perché se gli dicevi le cose come stavano, le capiva al volo. E anche di più. Infatti smise subito di essere arrabbiato. “Zio Harry sta male?” Si alzò in piedi e lo raggiunse. “Si è fatto male?”
“Non lo so, ma se fosse malato starebbe a casa a farsi curare, no?” Obbiettò. “Come quando ti cola il naso, ed hai la tosse e…”
“Si chiama raffreddore.” Lo interruppe brusco. “No, non è una cosa così banale. Ieri lavorava?” Al annuì. “Allora può essersi fatto male mentre lavorava. È un auror.”

Al sentì lo stomaco torcersi in una morsa. Suo papà era un auror e gli auror facevano un lavoro pericoloso. Poteva essersi fatto molto male.
Tom l’afferrò per una spalla. Stringeva sempre un po’ troppo. “Non piangere. Scopriremo cos’è successo se non ce lo vogliono dire.”
“Magari ce lo diranno…” Forse gliel’avrebbe detto sua madre una volta tornata.

Tom fece un sorrisetto di scherno. “Certo. Siamo bambini. Ai bambini non si dice mai niente, non lo sai?”
Al lo sapeva. Annuì. “Come facciamo allora?”

Il cugino fece una piccola smorfia. “Non adesso… si accorgerebbero subito che siamo usciti.”
“Usciti?”
Lo guardò come se fosse scemo, e Al si sentì arrossire. “I maghi quando stanno male dove vanno?”

Quello che gli piaceva però, era che si sforzava di fargli capire le cose. Non lo trattava poi troppo da scemo. “Al San Mungo!” Esclamò. “Papà è al San Mungo?”
“Sì.” Tom gli piaceva anche perché ti potevi fidare di lui: se diceva una cosa non ne faceva mai un’altra. “Stanotte andiamo al San Mungo.”

“Il tuo papà ci accompagna?” Non sapeva che i babbani potessero entrarci.
“No, ci andiamo solo noi due.” Ah, ecco.
No, un attimo.
“Ma…”
Tom inarcò il sopracciglio come un adulto molto antipatico. “Ci posso andare anche da solo.”

“… no! No, vengo!” Era un po’ spaventato a dirla tutta. Ma non era un fifone. “Però… come ci andiamo?”
“Ho un piano.” Disse. Lanciò uno sguardo oltre le sue palle. “Alicia!” Chiamò.

Al conosceva la sorellina di Tom. Aveva l’età di Lily ed era sveglia, anche se faceva troppi capricci. Ma mai con Tom. In effetti, spuntò subito la sua testolina ricciuta.
“Che c’è?” Chiese. “Tom, non devi giocare con gli attrezzi di papà, non vuole!” Esclamò quando vide la cassetta. “Ah, ma c’è anche Albume!” Rise.
Al arrossì; sapeva che per i babbani il suo nome era ridicolo, ma non era mai bello sentirselo ricordare. Specialmente da una bambina più piccola di lui.
“Si chiama Albus.” Chiarificò Tom. “Lascialo perdere. Devi fare una cosa per me.”
Alicia smise subito di ridacchiare. “Cosa? È un gioco?” Domandò curiosa.
“Sì.” Quando Tom sorrideva in quel modo, Al era quasi certo che non facesse sul serio. Non sembrava un sorriso vero, sembrava più che altro un’imitazione. Secondo lui, Tom imitava le espressioni degli altri un po’ come Jamie prendeva la vecchia Firebolt del padre per fingere di essere un giocatore di Quidditch.
Non l’aveva mai detto a nessuno.

“Va bene!” Esclamò la bambina. “Che devo fare?”
“In cucina ci dovrebbe essere zio Ron.”
“Bleah!” Esclamò. “Uno di quei tipi strani col mantello?”
“Ehi!” Esclamò Al, sentendosi tirato in causa. Tom gli lanciò un’occhiata ammonitrice. Stette zitto.

“Sì. Devi prendergli un legnetto pieno di bozzi che avrà sicuramente nella tasca interna del mantello. L’avrà appeso all’ingresso. Mamma fa appendere i cappotti e cose simili all’ingresso.” Spiegò a suo beneficio. Al si sentì inquieto. Rubare una bacchetta non era quello che definiva un buon piano, né tantomeno un gioco. Era una cosa che non si faceva.
“Ma zio Ron se ne accorgerà…” Gli fece notare. “… è un auror.”
Suo cugino non si scompose. “Ho letto che gli auror hanno sempre due bacchette. Una di riserva, che tengono nel mantello e una che tengono addosso. Non se ne accorgerà subito.”

Aveva senso, naturalmente. Anche se era del tutto sbagliato. “Ma che ci facciamo con una…” Si zittì vedendo la seconda occhiataccia di Tom. Poi capì che Alicia ascoltava tutto avidamente. “… oh, ehm, okay.”
“Vai, e non farti scoprire.” La bambina non se lo fece ripetere due volte: sgusciò via silenziosissima, calata nella sua parte.
“Lils non mi darebbe mai retta così.” Disse per dire qualcosa. Anche se Tom era un po’ inquietante quando comandava sua sorella, lo stava pur sempre facendo per permettergli di vedere suo padre.
“Io non sono te.” Replicò con un’alzata di spalle, tornando sul tappeto e alla vivisezione del suo giocattolo. Doveva essere stato un camion.
Albus si sedette accanto a lui. Voleva abbracciarlo, ma ci aveva provato una volta e si era trovato spinto via. Però un braccio sulle spalle andava bene, aveva scoperto dopo un po’ di tentativi. Tom infatti si irrigidì, ma si limitò a lanciargli un’occhiataccia. Da quell’angolazione sembrava Minnie, il gatto di casa, dopo che Jamie gli aveva tirato la coda.
Non glielo disse.
“Grazie Tom.” Disse invece. “Sei forte.”
L’altro non disse nulla, rivolgendo di nuovo l’attenzione al suo scacciavite e quant’altro. Però lo vide tutto rosso sul collo e seppe che quel suo strambo cugino sì, fingeva. Però lo faceva soprattutto quando faceva buone azioni. Il che, supponeva, andava bene.
 
****
 
“Non funziona!”
Deve funzionare.”
“Ti dico che non funziona!”
Al si stava arrabbiando perché era sicuro di avere ragione; Tom lo guardava arrabbiato di rimando. Erano arrabbiati in due, stanchi e infreddoliti.

Le cose non si mettevano bene.
Scappare di casa non era stato difficile. Zio Dudley si addormentava sempre davanti alla tv, mentre zia Robbie si ritirava a letto per leggere un libro appena finite le faccende. Quando alle nove e mezzo Tom era sceso dal letto toccandogli la spalla, Al era ancora sveglio.
Si era sentito eccitato, quando erano usciti di soppiatto, controllandosi ossessivamente le scarpe da ginnastica per non calpestare niente di rumoroso; stavano facendo qualcosa di proibito, molto, ma anche giusto.
Comunque l’eccitazione non era durata molto.
Lesse il nome della strada su una lucidissima targa d’ottone affissa su un palo. Wisteria Walk.
Adesso aveva freddo e voleva tornare a casa, perché la bacchetta di zio Ron non funzionava e non stava arrivando nessun Nottetempo, come Tom invece aveva predetto.
“Non lo so perché non…” Borbottò agitandola con il braccio ben steso davanti a sé, come il cugino gli aveva detto di fare. “… insomma, lo faccio, vedi?”
“Sì.” Ammise l’altro, seduto sul ciglio del marciapiede. “Dovrebbe funzionare. Ho letto che è così che si chiama il Nottetempo. Non capisco.” Si calò il cappuccio sulla testa, forse per proteggersi dal venticello freddo. La sua felpa babbana non sembrava calda come il suo maglione di nonna Molly.

“Hai freddo?” Si informò.
“Non ho mai freddo.” Gli fu risposto.
Al si sedette accanto a lui. “Forse non funziona perché non ho… voglio dire, non dovrei avere una bacchetta, giusto?”
“Non c’entra niente. Hai la Magia.” Replicò l’altro. “Visto che è la bacchetta di tuo zio, e quindi avete un legame pensavo fosse…” Arricciò le labbra contrariato. “… ovvio.”
“Forse non ho tutto questo legame.” Sbuffò agitandola davanti a sé e ammirando le leggere scintille colorate che ne scaturirono. “O forse sono una schiappa.” Soggiunse, perché era Jamie quello che faceva saltare le lampadine con la propria Magia Accudente e Lils quella che aveva quella LegiCosa Naturale.

Lui era solo Al, dopotutto.
Tom gli lanciò un’occhiata. “L’anno scorso hai fatto cadere l’albero di Natale. L’hai fatto tu.”
“Sì, ma ero arrabbiato con Jamie.” Scrollò le spalle. “Tanto arrabbiato.”
Tom fece una smorfia. Sembrava deluso. Al sentì uno spiacevole spillo pungergli la pancia, come succedeva sempre quando qualcuno non era contento di lui. “Ci riprovo!” Disse alzandosi in piedi. “Ci riprovo, però… ecco, magari mi puoi dare una mano!” Propose.

“In che senso?”
“Possiamo farlo in due. Magari è perché siamo bambini che il Nottetempo non ci sente. Ma se siamo in due…”
“Non funziona così.”
“Proviamo!” Tom a volte era più testardo di tutte le persone testarde che aveva conosciuto. Ed essendo un Weasley, ne aveva conosciute parecchie. “Dai!”

Tom sospirò, ma con sua grande soddisfazione si alzò. “Non funzionerà.” Decretò afferrando la bacchetta poco sotto la sua mano.
“Proviamo.” Ripeté paziente e stavolta furono in due ad alzarla. Per un momento non accadde nulla e Al poté sentire il sospiro esasperato dell’altro, poi, un forte rumore di clacson squarciò il silenzio dell’isolato.
Nottetempo!
Pochi secondi dopo un bus a tre piani di uno sgargiante colore viola inchiodò a pochi centimetri da loro con un gran stridio di freni. Al gridò spaventato e inciampò finendo lungo disteso. Si tirò dietro la bacchetta e, naturalmente, Tom.
“Al, alzati! Mi stai schiacciando una mano!” Esclamò stizzito. Il rumore della sua voce fu però parzialmente coperto dall’apertura della porta a soffietto vicino all’autista. Ne uscì fuori un uomo allampanato e dall’aspetto che spinse Al a rintanarsi dietro la schiena del cugino.
“Stan Picchetto, al vostro servizio.” Biascicò con l’aria di averlo ripetuto un milione di volte nel corso della serata. “Beh, ci avete chiamato voi?” Chiese notandoli forse per la prima volta.
Al guardò i bozzi che aveva in faccia, i capelli unti e radi e la lunga cicatrice, forse opera di una fattura, che gli correva dal labbro all’occhio per sparire sotto la visiera del cappello dell’uniforme da bigliettaio. Ammutolì.
Tom invece non sembrò minimamente turbato dall’aspetto del mago, perché si alzò in piedi spazzolandosi i pantaloni. “Sì.” Disse senza scomporsi. Al l’avrebbe chiamato coraggioso, se non avesse saputo che parlava sempre in quel modo. “Vogliamo andare al San Mungo.”
“Ah.” Masticò l’uomo. “Non siete un po’ piccoletti per aver bisogno di un passaggio da quelle parti?”
“Dobbiamo andare a trovare suo padre.” E lo indicò. Al desiderò scomparire. Quel tipo sembrava tanto uno appena uscito da Azkaban.

“Ah.” Ripeté annoiato. “Okay. Quattordici falci a testa. Quindici se volete anche lo spazzolino. Potete scegliere il colore.”
Al si guardò sperduto con Tom. Che idioti! Naturalmente ci volevano soldi per i biglietti, e non li avevano. Dubitava peraltro che Tom avesse valuta magica in generale.

“Non ce li abbiamo.” Tom non perdeva mai la calma. A volte lo metteva pure un po’ in soggezione.
“Allora mi dispiace, ma non credo possiate salire, eh.” Replicò il bigliettaio in tono beffardo, facendo scomparire una delle mani dentro il bus, probabilmente per azionare il congegno di chiusura della porta.
“Aspetta.” Lo fermò il cugino, mentre a lui già veniva da piangere per la frustrazione. “Possiamo darti qualcos’altro, qualcosa di molto più prezioso.”
“Ah?” Il mago batté le palpebre. “Che? Girate con roba d’oro, nanetti?”
Al vide che Tom si mangiò una rispostaccia, e capì che voleva andare al San Mungo tanto quanto lui. Si sforzò quindi di mettersi in piedi. “Sì, davvero!” Disse per dargli manforte.

Sì, ma che cosa?
Tom estrasse quella cosa dalla tasca posterieri dei jeans. Al lo riconobbe subito: era lo scacciavite con cui aveva armeggiato tutto il pomeriggio. “Lo vedi questo?” Disse all’espressione perplessa del bigliettaio. “È un cacciavite. I babbani lo usano per…” Lo sguardo del cugino si fece di colpo vacuo, e Al ricordò come non fosse bravo ad improvvisare le bugie.
Ma lui sì.
“… per aprire tutte le loro casseforti. Sai, dove tengono le cose d’oro!” Esclamò. “È molto, molto utile!”
Stan Picchetto li scrutò attentamente. Al cercò la mano di Tom automaticamente e la strinse. Il cugino non rispose alla stretta, ma neppure si scostò. Forse un po’ di paura l’aveva pure lui.
“Non mi raccontate una palla, ah?” Chiese. “Perché sono stato ad Azkaban.” Si passò un dito sulla cicatrice. “Ho ammazzato un sacco di gente, eh. Non mi piacciono le palle.”
C’è stato! c’è stato! È cattivo!
Afferrò direttamente il braccio di Tom.
“Smonta gli oggetti babbani.” Sussurrò sperando di non farsela addosso per la paura. “Non… non è una bugia.”

Il bigliettaio lo prese, rigirandoselo tra le dita. “Mah. Vabbeh. Diciamo che vi credo.” Borbottò. “Salite, sbrigatevi. Non abbiamo tutta la notte e serviamo altre corse, oltre la vostra.”
Al si sentì quasi prendere di peso da Tom. Non era più così sicuro di voler salire.

Azkaban!
“Sta’ calmo. Non lo vedi che è un povero idiota?” Gli sussurrò all’orecchio. Al preferì non rispondere; entrato dentro si guardò attorno. Aveva già sentito parlare del Nottetempo dai racconti di suo padre. Era come l’aveva descritto; letti al posto dei sedili, un lampadario a cristallo che oscillava pericolosamente e carta da parati giallognola ovunque, quasi fosse la stanza di una vecchia – molto vecchia – locanda.
“Questo posto avrebbe bisogno di essere pulito.” Commentò Tom con aria disgustata. “O rottamato.”
“Non ci metteremo tanto. È molto veloce.” Mormorò sedendosi su uno dei letti, che notò fosse fermato da un sistema piuttosto complesso di cinghie mobili.
Beh, papà ha detto che era un viaggio avventuroso.
Per sicurezza afferrò la testata del letto con entrambe le mani. Tom invece restò in piedi, ben attento a non toccare nulla.
“Ehi, piccoletto.” Lo apostrofò Stan Picchetto. “Ti consiglio di metterti seduto e reggerti forte come il tuo amico. Balleremo parecchio.”
“Preferisco restare dove sono.” Replicò Tom con aria beffarda, senza spostarsi di un millimetro.
“Come vuoi, peggio per te.” Fu la risposta seguita da una lieve risatina. “Dacci dentro, Ern!”
Ern, scoprì Al sporgendosi, era una vecchia mummia seduta al volante. Ad una seconda occhiata capì che era un uomo vero, solo mostruosamente anziano e con due enormi occhiali da vista.

Non che fosse meglio.
“Guida lui?” Mormorò Tom incredulo. Non fece in tempo ad aggiungere altro perché il bus ripartì e a velocità folle.
Tom!
Al vide il cugino ruzzolare per metà bus prima di afferrarsi disperatamente alla gamba di un letto per evitare di finire contro il parabrezza.
“Te l’avevo detto, ragazzino. Si balla.” Disse questo, sorseggiando quietamente una tazza di cioccolata.
Stavolta Tom non replicò. Arrancò piuttosto verso il letto, tutto rosso e arruffato.
Lo afferrò per un braccio, aiutandolo ad issarsi accanto a lui. “Tom, stai bene?!”
“Sì.” Sibilò. “Sta’ zitto.”
Al sapeva quando non era il caso di insistere. Si limitò a nascondere una risatina in una mano quando lo vide aggrapparsi ad una delle colonne del letto come se ne andasse della sua stessa vita.

 
****
 
“Sono già stato da quelle parti, eh.”
Al batté le palpebre e quasi gridò quando si trovo il naso storto del bigliettaio a pochi centimetri dal viso. Si era addormentato perché il Nottetempo era veloce, ma meno veloce di quando non avesse detto suo padre. O forse aveva davvero sonno e si era addormentato non appena aveva capito che non sarebbe morto nel tragitto.

“Co… come?” Pigolò mentre Tom accanto a lui fissava ostinato una macchia di muffa particolarmente brutta sulla carta da parati.
“Dove vi abbiamo preso. Io e Ern ci siamo già stati.” Ripeté alzando gli occhi al cielo. “Non è posto da maghi quello, nossignore. Puzza di babbano lontano un miglio. Little Whinging, giusto? Lì abbiamo caricato Harry Potter però, te lo ricordi Ern?” Il guidatore non emise suono né segno di aver sentito, e Stan Picchetto continuò come se nulla fosse. “Sissignore, me lo ricordo come fosse ieri.” Gli piantò gli occhi azzurri e acquosi addosso. “Tu un po’ ci somigli.”
“Sono io quello che abita lì.” Disse Tom, senza distogliere lo sguardo dalla macchia-nemica. “Lui è solo venuto a trovarmi. Io gli somiglio?” Chiese inarcando le sopracciglia.

Ovviamente non gli assomigliava per niente. A dirla tutta, Thomas non somigliava neanche al suo di papà, con quei suoi capelli scurissimi e gli occhi blu. Tom assomigliava… solo a sé stesso.
“Nah.” Ammise il bigliettaio. “È solo che mi chiedevo se il tuo vecchio non fosse l’Harry Potter che ho conosciuto io.”
Era meno scemo di quanto non pensassero. Scosse la testa. “N… no! Per niente!”
Il mago schioccò le labbra con sospetto, ma scrollò le spalle. “Si dice che stia al San Mungo adesso, ecco perché chiedevo.”
Papà?
“Che cos’ha?” Chiese cercando di non far tremare la voce. Non gli riuscì.

“Piace anche a te, eh maghetto?” Ghignò. “Bah, pare che tutta la stampa di Londra sia lì … C’è questa mezza notizia che è intervenuto con la sua squadra in un villaggio sulla penisola di Lizard¹, ed è saltato fuori che c’era questa epidemia. Dicono che sia in pericolo di vita.”
“Harry Potter è un auror. Gli auror non si occupano di epidemie, ma di maghi oscuri.” Intervenne Tom al posto suo, perché lui si sentiva il cuore battere fortissimo e non riusciva a parlare.

In pericolo di vita era una cosa bruttissima, non ci voleva certo un genio per intuirlo.
“Beh, … è quel che ho sentito dire in giro.” Ammise il mago irritato. “Forse non è proprio così, ma pare che sia una roba del genere.”
“Non ci credo.” Replicò Tom. “E comunque, non c’entriamo nulla con Harry Potter.”

“Seh, seh… ho capito.” Sbuffò scocciato, quasi gli avesse guastato il divertimento.  
 
“Zio Harry non può aver fatto una cosa del genere. Non è nei suoi compiti.” Esordì Tom quando il bigliettaio fu fuori portata.
“Ma se fosse vero?” Sentiva i lucciconi pizzicargli l’angolo degli occhi. Era stanco, assonnato e spaventato. “Ho paura, Tom.” Confessò.

Il cugino gli lanciò un’occhiata. Poi sospirò e gli passò un braccio sulle spalle nello stesso, identico modo in cui lo faceva lui. Sì, imitava alla grande. Però era bravo, perché Al si sentì consolato come se l’avesse fatto davvero.
 
****
 
Quando il Nottetempo li scaricò davanti al vecchio magazzino polveroso che ospitava magicamente il San Mungo, Albus si sentì più tranquillo. Il grosso era stato fatto, avrebbe detto sua nonna.
“È qui, sei sicuro?” Chiese Tom poco convinto, guardandosi attorno: il vicolo era sporco e buio e c’erano dei vecchi bidoni di un ristorante babbano da cui arrivava un cattivo odore. In effetti non sembrava l’ingresso dell’unico ospedale magico della Gran Bretagna.
Al annuì. “Sì, è qui.” Ricordava quando Lily c’era stata portata l’anno prima, per quella sua cosa particolare. Lui e Jamie l’avevano voluta accompagnare, nonostante le proteste di sua madre.
È stato papà a dire che potevamo …
Deglutì e prese per mano Tom. “È qui.” Ripeté guardando uno dei polverosi manichini nell’unica vetrina non ricoperta di vecchi fogli di giornale. “È nascosto, così i babbani non si insospettiscono. Guarda che faccio.” Si rivolse al manichino peggio vestito. “S… siamo qui per vedere il mio papà. È stato ferito ed è re… ri… re…”
“Ricoverato.” Gli venne in aiuto Tom nonostante fosse palesemente scettico.

“Ricoverato qui!” Finì con il fiatone. Forse non l’aveva detto bene. Poi però il manichino fece un secco cenno con la testa, facendogli cenno di avvicinarsi.
Evvai!
Tom in compenso gli strinse forte la mano. Ad Al venne da sorridere. “Sta’ tranquillo.” Lo rassicurò. “Adesso dobbiamo passare dentro la vetrina.”
“Va bene.” Replicò come se non fosse un problema, senza però mollargli la mano. Stringeva un po’ troppo forte, ma non si lamentò. Lo vide chiudere gli occhi e quando entrambi li riaprirono, il cugino non poté trattenere un’esclamazione di sorpresa.

Il San Mungo era enorme; dopotutto, anche se i maghi non erano numerosi quando i babbani, erano comunque tanti, e prima o poi ci si faceva male. L’ospedale seguiva quella filosofia e tutti era efficiente, pulito e gigante.
Individuò subito il banco dell’accettazione e vi trotterellò davanti. Ovviamente non arrivava a superarlo con la testa, ma non era un problema, perché la strega si sporse. Anche perché l’aveva praticamente placcato.
“Signora!” Esclamò. “Signora, sto cercando il …” Si zittì di botto, intuendo che non poteva dire chiaro e tondo che era il figlio di Harry Potter. Sarebbe stato come far capire a tutti che era scappato.
“Sì?” Chiese quella sbrigativa.  
“… il mio papà…” Borbottò confuso. La strega lo guardò raddolcita.

Centro!
Poteva essere un fifone e un imbranato, ma sembrava che gli adulti trovassero quelle cose carine, da come non si arrabbiavano mai con lui. Quindi perché non approfittarne?
“Sei venuto qui da solo?” Gli chiese. “La tua mamma?”
“È venuto con me.” Si inserì Tom, e ad Al sembrò un po’ inutile dato che anche lui era un bambino. A volte Tom però sembrava scordarselo. “I nostri genitori sono qui in giro. Scusi per il disturbo, andiamo a cercarli.” E lo strattonò per un braccio portandolo via.

“Ehi! Perché fai così?! Lasciami, mi fai male!” Disse quando Tom lo trascinò fuori portata, dietro l’angolo. “All’accettazione posso dirci dov’è!
“No che non lo faranno. Chiameranno tua mamma, invece.” Ribatté lasciandogli però il braccio. “Lei si arrabbierà e ti riporterà a casa. Non vedrai zio Harry. È così che fanno gli adulti.”

Al ammutolì; Tom aveva ragione. Si sentì improvvisamente stupido e frustato. Erano arrivati al San Mungo, ma non avevano ancora risolto niente.
“Allora… allora come facciamo?”
“Troviamo degli auror.” Si infilò le mani in tasca e si guardò attorno. “Saranno sicuramente qui, se zio sta male.” Alla sua espressione confusa, spiegò. “Ti ricordi quando l’anno scorso non c’era per i regali perché era andato a trovare quel suo collega in ospedale?”
“Non si abbandonano i compagni!” Recitò, dato che l’aveva sentito dire da James più o meno un milione di volte, durante i loro giochi di gruppo. “Gli auror hanno i mantelli foderati di rosso!” Ricordò ancora. “So come sono fatte le loro uniformi!”
“Bravo.” Lo lodò. “Ora cerchiamone uno… e non farti vedere dall’infermiera all’accettazione.”
“La Medimaga.” Replicò confuso.

Tom alzò gli occhi al cielo. “Come ti pare. Andiamo.”
Sgusciare trai pazienti fu abbastanza divertente, quasi un gioco. Al guardò divertito affiorare varie espressioni sul viso del cugino. Le malattie magiche erano diverse da quelle babbane. Erano più… vistose. Di fronte ad un uomo con una proboscide in mezzo alla fronte e le orecchie da elefante, Tom non poté fare a meno di fermarsi di botto.
“Sul serio?” Borbottò meravigliato. “Come si chiama quella malattia?”
“Quello mi sa che è un incidente, sai, un incantesimo andato tanto storto!” Ridacchiò sotto i baffi, tirandolo via prima che il poveretto si accorgesse di loro.
Dopo parecchio cercare, finalmente trovarono i mantelli rossi-e-neri e con essi, gli auror che li portavano. Erano ad un banco dove una vecchia strega serviva caffè e dolci. Erano due, e Al ne riconobbe uno. Era Flannery, uno dei compagni di squadra di suo padre, quello irlandese e dalla risata tonante. In quel momento però non rideva.
“Quello lì lo conosco.” Fece in tempo a dire, prima che si allontanasse assieme al collega. Tom gli picchiò un dito sulla spalla, facendogli segno di seguirli. Fu facile essere piccoli e poco visibili, tra quel serraglio di maghi che nitrivano, starnutivano uccellini e sputavano fuoco. Si dovettero però fermare di fronte agli ascensori, non potendo salire con loro.
“Vediamo a che piano salgono.” Disse Tom. La freccetta di ottone si fermò al secondo piano. Al ricordò subito qual’era e gli tornarono alla mente anche le parole di Stan Picchetto.
Epidemia…
“Ci sono le malattie magiche lì.” Disse deglutendo ansia.
Tom gli lanciò un’occhiata. “Andiamo.” Disse solo, ma sembrava molto meno spavaldo di prima. Il viaggio in ascensore fu brevissimo e silenzioso. Quando arrivarono al piano, le porte si aprirono su un lungo e stretto corridoio coperto di pannelli di quercia. Al si guardò attorno; era tutto molto tranquillo, e la luce di candele che proveniva da grosse bolle di sapone – no, erano sfere – che fluttuavano sul soffitto era quasi calda.
“È diverso da un ospedale babbano.” Disse Tom sottovoce. “Non puzza.” Aggiunse.
“Perché, che odore c’è?”
“Non di erbe come qui, di sicuro.” Replicò scrollando le spalle. Al pensò che non ci sarebbe mai andato allora. Si sentì più sicuro. Quell’odore gli piaceva, quindi suo padre non era in un posto orribile. Quindi poteva stare bene. “Adesso?”
“Adesso…” Prima che Tom potesse rispondere, Al si sentì toccare la spalla. Si voltò e si trovò di fronte un uomo con un sacco di lentiggini, le orecchie a sventola e un pastrano piuttosto messo male.

“Ehi!” Fece loro un largo sorriso. “Tu non sei il figlio di Harry Potter?”
Al batté le palpebre perplesso: era strano come chiunque lo vedesse sapesse subito chi era.

“Io…” Guardò Tom in cerca di aiuto, ma il cugino aveva un’aria confusa quanto lui. Non si era aspettato quell’improvvisata.
Ci hanno scoperti?
“Tranquilli, tranquilli.” Rise il Lentigginoso quasi avesse indovinato i loro pensieri. “Non sono una cattiva persona, okay? Non dirò a nessuno che vi siete allontanati dalla mamma.” Strizzò loro l’occhio. “Sei Albus, vero?”
“Sì.” Non aveva senso nascondersi se quel tipo sembrava già sapere tutto. Magari sapeva anche cos’aveva suo padre. “Tu come lo sai?”
“Sono un giornalista, è il mio mestiere!” Rise. “Mi chiamo Richie. E il tuo amico?” Chiese adocchiando Tom, che per tutta risposta fece una smorfia.

“Affari miei.” Disse, incrociando le braccia. “Che vuoi?”
“Tom!” Esclamò. Non era carino rivolgersi così ad un adulto. “Scusa.” Disse per lui.

Richie scosse la testa. “Va bene, non importa. Cerchi il tuo papà?”
“Sì!” Esclamò. “Sai dov’è?”
“Alla fine di questo corridoio.” Indicò la direzione distratto. “Ma non si può entrare… hai visto tutti quegli auror, no? Non fanno passare nessuno. ” Tirò fuori una tavoletta con un sacco di fogli e una piuma. “Ascolta… ti va di rispondere ad un paio di domande?”
“Eh?” Non capiva. “Delle domande?” Non sapeva niente su quella faccenda, era il motivo per cui era lì.

“Un paio, niente di che. Per esempio… com’è avere come papà il Salvatore?”
“Il cosa?” Al sapeva che suo papà era una persona speciale²; una volta il Ministro della Magia era venuto a prendere il the da loro e non era una cosa che avrebbe fatto con tutti, supponeva. C’entrava qualcosa con il fatto che aveva combattuto contro una persona cattiva e l’aveva sconfitta, tipo.

Ma che vuol dire poi Salvatore?
Il giornalista continuò, quasi non l’avesse ascoltato. “Dev’essere difficile vivere con un eroe come papà, specialmente quando succede una cosa come questa. Come ti senti?”
“Non capisco…” Non gli piaceva quel Richie. I suoi genitori gli avevano insegnato a non rispondere a sconosciuti che faceva troppe domande. “Non lo so. Voglio vedere il mio papà.” Gli venne da piangere, perché non ci stava capendo un accidente e gli stava venendo di nuovo paura.
Il giornalista lo fissò perplesso. “Aspetta… vuoi dirmi che non sai cos’ha fatto tuo padre?”
“Fa… fa l’auror.” Ed era il suo papà. Cos’altro c’era da sapere?

“No, io intendevo prima. Non dirmi che i tuoi genitori ti hanno nascosto…”
Si fermò e alzò la testa di colpo, perché qualcosa scricchiolava sopra di loro. Qualcosa di molto grosso. Tra le lacrime Al notò che era la grossa sfera piena di candele che aveva ammirato prima. Le candele all’interno tremavano, come scosse dal vento.
Poi si acorse che era un bel po’ che Tom non parlava. Si voltò verso il cugino e trattenne il respiro.
È lui!
Tom era arrabbiatissimo. Stringeva i pugni e fissava il giornalista come aveva guardato la macchia d’umido sul Nottetempo.
Anzi, anche peggio.
“Sta’ zitto.” Disse. “Lo stai facendo piangere. E non mi piace quello che stai dicendo.” Aggiunse. 
Il giornalista guardò di nuovo la sfera. “Senti, ma sei tu che…” Fece un mezzo sorriso incerto.

La sfera tremava adesso, tutta. Al vide formarsi delle crepe come se fosse ghiaccio calpestato.    
Vuole rompergliela in testa?
Se lo sarebbe meritato. Ma non sarebbe stata una cosa bella da farsi.
“Tom…” Mormorò. “Tom, dai, lascia stare!”   
 
“Che sta succedendo qui?”
 
Qualcuno era stato richiamato dalle loro voci, e quel qualcuno era un Guaritore, per fortuna. Al lo riconobbe dalla veste verde acido.
Il nuovo arrivato guardò loro e poi il giornalista. “Lei cosa ci fa qui? Questo piano è interdetto ai visitatori e soprattutto alla stampa.” Disse con tono duro. “Se ne vada prima che chiami gli auror di guardia.”
Il giornalista fece una smorfia. “Mi ero perso…” Mentì spudoratamente. Poi però se ne andò in fretta, portandosi dietro il taccuino e le sue orecchie a sventola.

Al tirò un sospiro di sollievo, un po’ perché quel tipo era orribile, un po’ perché la sfera di cristallo sopra di loro fluttuava di nuovo placidamente.
Il Guaritore a quel punto si voltò. Aveva i capelli color sabbia e l’aria simpatica. “E voi due?” Chiese addolcendo il tono. “Sbaglio o siete dove non dovreste essere?”
“Voglio vedere il mio papà!” Ripeté per la centesima volta in quella giornata. “È laggiù!” 

L’uomo inarcò le sopracciglia sorpreso. “Tuo padre è Harry?” Chiese, palesando un forte accento irlandese. “Cavolo, certo che sì, sei la sua copia sputata senza occhiali. Sei Albus! Come diavolo ci sei arrivato qui?”
“Con il Nottetempo.” Confessò sentendosi orgoglioso. A ripensarci, lui e Tom avevano avuto un’avventura niente male. James sarebbe stato invidioso da morire. “Tu conosci davvero il mio papà?” Chiese poi. Visto i precedenti incontri, era meglio chiedere.
Il Guaritore sorrise. “Sicuro. Mi chiamo Seamus, andavamo a scuola assieme. Sono io che mi occupo del tuo papà adesso.” Lanciò un’occhiata a Tom. “Tu devi essere Thomas.” Sbuffò, guardando la palla di cristallo con due grosse crepe che la solcavano. “Merlino, hai una Magia Accidentale vivace, eh?”

“Può essere.” Concesse suo cugino, senza la minima traccia di senso di colpa. “Portaci da lui.” Aggiunse, perché era Tom.
Il mago schioccò le labbra, guardando oltre le sue spalle. “Sapete che cos’ha?” Chiese, e Al apprezzò il fatto che non li trattasse come due ritardati. Sia il bigliettaio che il giornalista non si erano fatti problemi invece.

“No, è… è grave?”
Seamus si passò una mano dietro la nuca. “Si è preso una malattia complicata. È una mutazione della Peste dei Goblin.”
“Non era stata debellata nel 1756?” Tom sapeva sempre tutto. Anche il Guaritore sembrò meravigliato.

“Non in certe aree dell’Inghilterra.” Rispose comunque. “Come la Penisola di Lizard, dove Harry è andato in missione. È lì che se l’è beccata.”
“E come ha fatto?” Seamus gli avrebbe detto la verità. Forse perché era un amico di suo padre, o forse perché era una brava persona e un Guaritore, che era una bellissima parola.
Sentiva a pelle che poteva fidarsi.
“È andato a scovare uno stregone che aveva dichiarato di voler attaccare un villaggio di babbani. Purtroppo lo stregone era molto malato. Così, quando tuo padre l’ha affrontato nel suo rifugio, è stato contagiato. Non ha fatto avvicinare nessun altro per questo motivo. È stato molto coraggioso.”
“Lo so.” Convenne. Suo padre lo era sempre. “Starà meglio?”  
Seamus gli mise una mano sulla spalla, altra cosa che gli piacque. Odiava che gli arruffassero i capelli. “È un mago tosto, tuo padre. E per fortuna, lo siamo anche noi del reparto Malattie Contagiose.” Ghignò. “La cura sta facendo effetto. Stavo per mandare un Gufo a tua madre per dirle che il peggio è passato.”
“Lo avete salvato!” Esclamò. Aveva sempre pensato che essere un auror fosse la cosa più figa del mondo. Ora era la seconda cosa.  
Quindi possiamo vederlo.” Intervenne Tom. “Se sta meglio.”
Il Guaritore sembrò in imbarazzo, ma finì per mettersi a ridere. “Harry mi aveva raccontato che aveva un figlioccio maledettamente sveglio. Non ti fai fare fesso, eh?”
Tom quasi sorrise. Il che, conoscendolo, equivaleva ad una risata. “Sì.” Si limitò a dire.

“Okay…” Sbuffò. “Ascoltate. Vi farò entrare nella stanza ma poi chiamerò tua madre, Al, e ve ne tornerete a casa.” Li avvisò. “È da incoscienti quel che avete fatto.” Il tono era da predica, ma si vedeva che gli veniva da ridere. “… ma ehi, siete i bambini di Harry. In fondo, perché dovrei stupirmi?”
 
“Albie, Tom!”
Suo padre era a letto, perché era un paziente. E fin qui, tutto giusto. Al si liberò dalla mano di Seamus e sgusciò dentro la piccola stanza. Suo papà aveva visto lui, ma lui doveva ancora vederlo bene.
Vide che era pallido e aveva la barba. Come se non bastasse aveva anche un braccio fasciato da bende intrise di una strana sostanza blu. Però era sveglio, e stava seduto sorretto da una pila di cuscini.
“Che ci fate qui?” La voce era un po’ più bassa del normale e non aveva neppure gli occhiali.
Ad Albus improvvisamente non importò di guardarlo, perché corse fino al letto e ci saltò sopra per abbracciarlo stretto. Suo padre aveva odorava di pozioni, ma aveva anche il profumo di papà che aveva sempre. Andava tutto bene.
“Sono venuti qui col Nottetempo.” Disse Seamus e Al, anche con il viso seppellito nella camicia del padre, capì che ridacchiava sotto i baffi. “Cavolo Harry, hai dei ragazzini tosti.”
“Albie…” Gli fu dato un colpetto gentile sulla schiena e fu costretto ad alzare il viso. Suo padre lo scrutava attentamente, ed era molto serio.
Oh-oh.
“Volevo vederti!” Esclamò. “E… e… poi zio Ron mi ha portato da Tom, e anche lui voleva vederti!”
“Veramente…” Iniziò suo cugino, ma non lo lasciò finire.

“Eravamo preoccupati! Allora a Tom è venuto in mente di rubare la bacchetta di zio, e così abbiamo chiamato il Nottetempo e abbiamo fatto credere al bigliettaio che uno scacciavite era una cosa per trovare l’oro e…” Prese fiato ignorando l’espressione sconvolta di suo padre.
“Sta’ zitto!” Gli intimò Tom con tono allarmato, ma lo ignorò una seconda volta.
“… e poi siamo venuti qua ed un giornalista ti ha chiamato Saldatore ed io non capivo cosa…”
“Era Salvatore.” Borbottò Tom, sembrando un po’ depresso. Non controllò la sua espressione, perché era troppo occupato a guardare suo padre e controllare che stesse bene.

“Okay, okay Albie.” Suo padre gli diede un colpetto sulla spalla per fermarlo. “Fammi capire bene. Siete scappati da casa di zio Dud?”
Riassumeva il tutto, in effetti. Ma non suonava bene come avventura. Suonava più come ‘state per beccarvi una punizione’.

“Ehm.” Disse. Stavolta neanche la sua migliore faccia triste li avrebbe salvati. “Scusa?”
“Albus Severus Potter…” Iniziò. Aveva un tono stanco, ma nonostante questo, era sempre maledettamente d’effetto. “Ti rendi conto di cosa avete rischiato?” Guardò anche suo cugino. “Thomas, sei un bambino intelligente, e sai bene che è sbagliato quello che avete fatto. Rubare la bacchetta a Ron?”
“Tanto non gli serviva!” Si ribellò Tom. “E poi… è colpa sua, non è stato attento.”

“Thomas.” Suo padre aveva il tono delle grandi prediche. “Sam, puoi lasciarci soli? Manda un Gufo a Ginny e digli che i ragazzi sono qui. Lei e mio cugino saranno impazziti dalla preoccupazione…”
Ops.
Aveva sbagliato, ma non gli importava. Sarebbe persino andato nell’antro di quello stregone malvagio, per salvarlo. Magari non l’avrebbe salvato con una magia eroica, ma l’avrebbe portato via di lì.

In fondo, scappare di casa per andarlo a trovare in Ospedale era roba da niente.
Quando il Guaritore se ne fu andato, dopo un sorriso in sua direzione, suo padre sospirò e si rivolse a suo cugino. “Tom, non voglio che rubi più la bacchetta a nessuno. Anche se lo fai per il motivo migliore del mondo, è sbagliato. Pensa come ti sentiresti se ti rubassero qualcosa di così importante. Ti piacerebbe?”
“No.” Si morse un labbro, lo vide anche da lì. “Ho capito.”
“Bene.” Sospirò. “Perché siete due bambini. E il mondo non è pieno di persone gentili come Seamus.”
“Lo so.” Replicò Tom. Era ancora appoggiato al muro accanto alla porta, con le mani dietro la schiena. “Se qualcuno avesse provato a farci del male, ci avrei difeso.”

Al gli credeva. Guardò di sbieco il padre e vide la sua espressione ammorbidirsi. “Anch’io ti avrei difeso Tom!” Esclamò di getto. “Insomma, gli avrei ficcato la bacchetta nell’occhio o roba del genere!”
Tom sbuffò. “Sei così imbranato che ti saresti fatto male nel tentativo.”
“Ehi, non è vero!”

Sentì suo padre ridacchiare e vide che non era più arrabbiato. Infatti lo strinse a sé con il braccio sano. “Thomas, vieni qui…” Lo invitò.
Tom non tentennò quanto avrebbe fatto normalmente. Di solito, evita quel genere di cose come James evitava i bagni domenicali. Stavolta invece si arrampicò sul letto senza farsi pregare.  
“Stai bene Harry?” Chiese, raggomitolato comunque nell’angolo più distante.
“Sto bene Tom.” Gli sorrise suo padre. “Ma ho avuto una brutta giornata. Posso avere un abbraccio?”
Neanche suo padre era tipo da abbracci, ma quella era un occasione particolare, pensò Al mentre Tom gattonava fino a loro per aggrapparsi forte al collo di suo padre.

“È tutto a posto…” Gli disse, accarezzandogli i capelli. “… grazie per esserti preso cura di Albie.”
Tom tirò su con il naso e si scostò, evitando di guardare ovunque tranne che dalla loro parte.
“È naturale. Avrebbe finito per perdersi, altrimenti.” Borbottò.
Al non se la prese, dato che era vero. Per lui le città babbane era tutte spaventosamente uguali.
“Dovete promettermi che non farete più qualcosa di così pericoloso, va bene?” Disse suo padre di nuovo con tono serio. Poi fece un mezzo sorriso. “Almeno finché non avrete una bacchetta tutta vostra.”
“Quando avrò una bacchetta tutta mia, ci penserò io a curarti!” Ribatté, e lo pensava al cento per cento. Era stato orribile sentirsi in quel modo per tutto quel tempo. Se fosse stato come Seamus invece, avrebbe saputo tutto, e l’avrebbe saputo subito. Ma cosa più importante, avrebbe potuto aiutare, invece di piagnucolare come un bambino piccolo.

“Ah sì?” Suo padre ridacchiò. “Allora ci conto.”
Al annuì e si scambiò un sorrisetto con Tom. Non avrebbe detto quella cosa di fronte a nessun altro bambino, neppure a Rosie. Ma Tom non parlava mai molto. E soprattutto, gli credeva.
“Contaci.”
 
****
 
Al consegnò tutta la documentazione alla strega seduta dietro la cattedra. Non era stato il primo a consegnare l’ultima parte del test, ma neppure l’ultimo. Il giusto mezzo era un po’ la sua filosofia di vita.
Quella gli fece un breve sorriso. E non perché lesse il nome sul cartellino appeso alla sua maglietta, per una volta.
“Spero di vederla per i colloqui attitudinali, Albus.”
Sorrise. “Lo spero anch’io.”

Ne sono certo. Ma non è carino dirlo.
Quando uscì alla luce del sole di una luminosa mattina di Settembre, Tom lo aspettava al piccolo caffè dirimpettaio alla facoltà. Gli si sedette affianco, riparandosi con una mano da un raggio di sole particolarmente tenace.
Il suo ragazzo alzò appena lo sguardo dal libro che stava leggendo, ma seppe comunque di avere tutta la sua attenzione. “Com’è andata?”
Si sedette stiracchiandosi. “Bene. Il test era meno difficile di quanto pensassi, e poi credo di essere stato piuttosto creativo sulla parte motivazionale. Di certo non li annoierò.”
Tom chiuse il libro lanciandogli un’occhiata. “Hai raccontato quella volta?”
Lo amava anche per la sua memoria straordinaria. E per ricordarsi tutto quello che avevano condiviso.

“Già!”
“Spero tu abbia tralasciato le parti troppo personali…”
“Era un test d’ammissione, non un diario segreto.” Prese un sorso del suo caffè. “Sta’ tranquillo. La tua dignità è al sicuro.”

Tom fece una smorfia. “Verrai preso.” Attestò.
Al gli sorrise. “Contaci.”
 
 
****
 
 
Note:

Questa storia partecipa al contest Magia in Pillole di Nefene e Acardia17. Il prompt è tutto merito loro. ;D
(Sì, quindi prendetevela con loro per la cascata di fluff che vi ha investiti).


Il punto di vista di un bambino di sette anni è massacrante
Qui la canzone tenerella che mi ha ispirato.
1. Naturalmente è Risiko. (In inglese: Risk) La versione italiana è diversa da quella originale, improntata su una strategia d’attacco, più che di difesa. Tom gioca con le armate nere, chevvelodicoafà.
2. Penisola di Lizard: Penisola a Sud della Cornovaglia. È la regione più meridionale della Gran Bretagna. Qui per maggiori informazioni.
3. Per quanto riguarda Al e il suo non sapere cosa ha fatto suo padre, mi sono attenuta all’hint che ha lanciato la Rowling nell’Epilogo; da quel che si legge, sembra infatti che Albus e i cugini non abbiano idea del perché tutti guardano Harry al Binario.   


 
  
Leggi le 20 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Dira_