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Autore: Afaneia    17/10/2011    1 recensioni
L'autore delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide, l'intellettuale dell'epicureismo e dello stoicismo, il poeta di Ottaviano Augusto, il cantore della virtus Romana: ma chi era veramente Publio Virgilio Marone? Era realmente così come la leggenda lo vuole, timido e schivo? Quali erano realmente i suoi rapporti con il potente Mecenate e com'erano entrati in contatto questi due uomini così diversi?
Siete disposti a scoprirlo?
Genere: Satirico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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E poi la vita riprese, e quella sera parve soltanto una sera tra le sere, nel senso che non ne parlarono più; ma Mecenate non dimenticò mai le parole che Virgilio gli aveva rivoltom e le conservò sempre in un piccolo posto privato dentro di sé.

Frattanto Virgilio, le cui convinzioni stoiche si erano ormai consolidate, aveva cominciato a raccogliere materiale per le Georgiche, come intendeva chiamare il suo nuovo progetto; come Mecenate ormai ben sapeva, la raccolta di materiale consisteva nel fumarsi un intero rotolino bianco, sedersi da qualche parte, e ragionare. Mecenate lo lasciava fare, troppo preso da altre occupazioni, da altri personaggi; in primis, quel Quinto Orazio Flacco che, dopo nove mesi di conoscenza, ebbe l’onore di essere accolto tra gli intimi di Mecenate. Era un  giovane assolutamente promettente, e,  tra le altre cose, aveva delle solide basi metriche, che era forse la cosa che Mecenate maggiormente amava in lui. ma aveva anche un buon carattere, comunque.

Ma alla fine Virgilio cominciò a scrivere, un po’ a caso, certo, ma meravigliosamente; e quando il primo libro fu pressoché compiuto, almeno nella sua brutta copia, lo diede a Mecenate e glielo fece leggere. E Mecenate s’infuriò, lo mandò a riscriverlo tutto, ma Virgilio glielo riportò immutato, replicando che non aveva trovato errori e che anzi gli sembrava un inizio piuttosto interessante.  Al che Mecenate gli fece la ripassata che abbiamo visto nel prologo e si ritrovò a correggere tutta la metrica, cosa che gli richiese circa tre settimane di tempo, considerando tutti i suoi altri impegni.

Tre settimane inutili almeno quanto i suoi vani tentativi di insegnargli la metrica: tre mesi dopo, Virgilio cominciò a lavorare a una bozza della bozza della bozza della bozza della prima parte del terzo libro, bello quanto il primo, sbagliato quanto e più del primo, e Mecenate passò giorni interi a correggerlo. Ma era contento che Virgilio si affidasse a lui per le correzioni e i consigli, anche se non glielo disse direttamente.

Ma poi c’era Ottaviano, un Ottaviano che non si poteva trascurare o mettere da parte, e naturalmente un Antonio che era lontano ma che dopotutto si faceva sentire; e poi c’erano altre persone, persone importanti di cui tenere conto.

Nel 33 Orazio pubblicò infine il primo libro delle sue Satire, e Mecenate compì finalmente un progetto che aveva in mente da secoli e acquistò per lui un podere nella campagna sabina. E Orazio andò, come dire, al settimo cielo e abbandonò il suo triste appartamento accanto allo spacciatore di Virgilio per ritirarsi a vivere e a lavorare in pace.

Qualche giorno dopo questi avvenimenti, Mecenate, entrato nel suo bel soggiorno per cercare una certa bozza che gli era stata recapitata, trovò Virgilio seduto, cupo, presso il suo tavolo da lavoro abituale.

“Virgilio! Che cosa succede?” domandò Mecenate, avvicinandoglisi sorpreso. Virgilio alzò lo sguardo su di lui e lo scrutò intensamente: i suoi occhi erano asciutti e lucidi, come Mecenate non li vedeva da almeno quattro anni.

Mecenate si fermò al suo fianco, perplesso, e Virgilio chiese a mo’ di risposta: “Perché gli hai comprato quel podere?”.

Tanto poco si aspettava questa domanda, che Mecenate rimase a lungo in silenzio sorpreso; poi, sedendosi su un divanetto di fronte a lui, replicò: “ È molto semplice, Virgilio: sai in che tipo di casa abitava Orazio, e sai anche che da lungo tempo aveva bisogno di un luogo più sereno dove poter comporre. È tutto qui.” Ma poi, colto come da una terribile sensazione di disagio, si affrettò ad aggiungere: “Virgilio, ascolta. Se a te non ho mai fatto un regalo del genere, è solo perché tu sai di poter venire in ogni momento a casa mia…”

“Oh, Mecenate, Mecenate! Ma cosa vuoi che m’importi di un podere da qualche parte che non sia la mia cara e bella Napoli, e poi non m’importa nulla di qualche regalo: mi hai già acquistato un appartamento, anni fa! Non hai capito ciò che ti sto dicendo?” sbottò Virgilio alzandosi. Mecenate sollevò lo sguardo su di lui, e per la prima volta considerò davvero quanto Virgilio si fosse fatto alto e bello in quegli anni trascorsi assieme, e ammutolì. Virgilio era lucido, non aveva fumato. Ma cosa gli succedeva?

Virgilio lo scrutò con uno sguardo che pareva ardere di passione e di dolore assieme; parlò di nuovo, e parve che la sua voce tremasse.

“Mecenate…sii sincero. Tu preferisci Orazio a me, non è vero?”

A quelle parole Mecenate sgranò gli occhi, stravolto, colpito. Impallidì, arretrando, e subito esclamò: “ Virgilio, mio caro, non essere sciocco! A livello poetico, vi ammiro entrambi in modo eguale, tutti voi artisti così promettenti… e a livello personale, Virgilio, non nutro la benché minima preferenza per nessuno di voi due, lo giuro: “nutro stima e amicizia per entrambi, in modo diverso, è vero, ma in misura eguale. Non posso dire davvero di preferire Orazio a te!”

Ma per qualche motivo quella pareva non essere la risposta giusta. Via via che parlava, Mecenate aveva visto come accendersi e infuocarsi di rabbia gli occhi di Virgilio: egli ristava immobile davanti a lui, con gli occhi infissi nei suoi, e pareva fiammeggiare e far ardere con sé tutta la casa. “Vuoi tu dunque dirmi che non hai mai capito nulla di ciò che cercavo di dirti, di ciò che…?” Mecenate non riusciva a muoversi, confuso. Alla lunga, il suo silenzio gli parve una risposta. Virgilio indietreggiò di un passo, ma non distolse gli occhi dai suoi.

“Ti ho sempre considerato un grande uomo, Mecenate” mormorò. “Sissignore, proprio un grande uomo. Ma questo devo dirtelo, Mecenate…non hai mai capito niente di me.”

 

Per tutta la notte e per tutto il giorno seguente Mecenate continuò a interrogarsi sul significato delle parole di Virgilio. Cosa voleva dire tutto quell’astio, tutta quell’insolenza? E poi, cos’era che Virgilio lo accusava di non aver mai capito?

Così, la sera seguente, dopo aver trascorso tutta una giornata senza ricevere notizie di Virgilio e domandandosi invece ansiosamente il significato di quella scena, Mecenate si avviò risolutamente verso la casa del suo protetto, non troppo sicuro di ciò che doveva fare, ma certo di voler avere almeno un pezzettino di quella verità, forse enorme, che Virgilio conosceva bene e di cui lui era all’oscuro. Era lo stesso segreto di cui gli occhi di Virgilio gli erano parsi scintillare quella sera nell’ombra nera? Mecenate non poteva più non saperlo.

Raggiunse in breve tempo il palazzo al cui secondo piano si trovava l’appartamento di Virgilio. Quando, tanti anni prima, Mecenate lo aveva comprato, gli avrebbe volentieri acquistato una casa anche più grande, magari privata, ma Virgilio aveva detto che gli faceva piacere avere gente intorno, e che comunque non gli sarebbe piaciuta l’idea di abitare in una villa enorme, ma vuota. Perciò si era giunti alla scelta di quel quartiere rispettabile ma semplice, proprio come lui.

Così Mecenate andò a bussare alla porta di Virgilio, e dopo forse un minuto una voce gli domandò: “Chi è?”. Ma non era la voce di Virgilio, e Mecenate rabbrividì.

“Sono Caio Cilnio Mecenate” disse “amico di Virgilio.”

Sentì che un’assicella veniva rimossa e che la porta si apriva; vide un volto pallido e magro con gli occhi rossi, un volto di ragazzo, e riconobbe uno della cerchia di Virgilio. Allora cercò di sorridere e mormorò: “Buona sera. Sono un amico di Virgilio, è un po’ che non lo vedo. È in casa?”

“Ehi amico” borbottò il ragazzo. “Ti chiami Mecenate, eh? Eppue Virgilio era proprio ieri a casa tua, e tutto oggi ha…oh, non importa. Te lo chiamo.” E scomparve in una stanzetta adiacente, e dopo pochi momento ne emerse Virgilio. Pareva tutto arruffato e con gli occhi rossi; alla sua vista, Mecenate si sentì pulsare lo stomaco come di uno strano impulso, ma non reagì.

“Ehi, Mecenate” borbottò Virgilio. “Che cosa vuoi?”.

“Mecenate era ancora immobile sulla porta. Ora la richiuse, e schiarendosi la voce, come per darsi un contegno, mormorò: “Mi stavo interrogando sul senso delle tue parole…e ancora non sono riuscito a trovarvi una risposta.”

Virgilio aggrottò un momento le sopracciglia, freddamente, e non parve intenzionato a rispondere. Ma dopo qualche momento, vedendo che Mecenate non demordeva, replicò a bassa voce:  “Se ancora non l’hai capito, devi essere ben stupido.”

Mecenate si sarebbe altrove offeso profondamente, avrebbe protestato contro quell’ingiuria. Ma in quel momento, dinanzi a quell’individuo, si sentì invece profondamente colpito e infelice.  Non avrebbe voluto che proprio Virgilio dicesse o pensasse questo di lui. E tutto ciò che poté fare il grande Mecenate, l’amico e collaboratore di Ottaviano, l’uomo più ricco e potente di Roma, fu chinare mestamente il capo dinanzi a quel ragazzo venuto dalla provincia, sentendosi, come aveva detto lui, molto stupido. Non sapeva cosa avesse fatto, ma di qualunque cosa si trattasse, era stata la cosa sbagliata, e avrebbe voluto poter rimediare.

“Hai ragione” disse semplicemente, e ne era convinto.

Virgilio sbuffò, arricciò le labbra. Non voleva aver ragione.

“Sono anni che cerco di fartelo capire, Mecenate” mormorò. “Non intendo passare altro tempo a…oh, basta così. Vattene pure dal tuo caro Orazio se devi, oh, il tuo caro Orazio con  i suoi Epodi e le sue Satire, con il suo Archiloco e il suo scudo gettato! Chi sono io, chi è il povero Virgilio con le sue Bucoliche e le sue Georgiche che non vanno mai bene? Ma vattene pure, forza! Vattene da qui, e torna solo quando avrai capito la verità.”

E gli indicò, con sguardo severo, la porta; e Mecenate non poté fare altro che obbedire, e allontanarsi in silenzio, ferito, da quella casa.

 

Ma continuò a vagare per le vie di Roma, sentendosi scoppiare il cuore di un certo sentimento che, fino ad allora, non aveva mai provato.  Era un bel sentimento buono, positivo, eppure egli aveva l’impressione di sentirlo diventare un dolore nel proprio animo. Ma cos’era?

Era quella strana fitta rabbiosa che aveva provato nel vedere quel giovane a lui ancora sconosciuto in casa di Virgilio. Era lo strano pulsare delle sue viscere, che aveva provato parlando col suo protetto dopo il lasso di tempo più lungo che li avesse mai divisi mentre si trovavano nella stessa città. Ed era lo strano, eccessivo dolore causato dalle aspre parole di Virgilio, ed era una specie di terribile, tragico senso di una fatalità che stava solo a lui impedire, ma non sapeva più in quale modo.

Ma nel frattempo calava la notte, ed egli, confuso, si faceva trascinare qua e là dal vento di una notte per nulla calda. Era ormai tardi, ed egli avrebbe dovuto tornare a casa: non aveva avvertito i servi, ed essi l’avrebbero aspettato con la cena in caldo. Tuttavia, egli sentiva come una terribile forza che lo tratteneva, che gli impediva di andare dove voleva, o meglio dove avrebbe dovuto: quando Mecenate guardò, capì che altro non aveva fatto se non girare per ore nelle vie attorno al quartiere di Virgilio, ma senza allontanarsene.

“Mecenate, Mecenate” si disse. “Sei diventato un uomo molto sciocco, o un uomo molto vecchio. Lo sai come si dice quando non si riflette sulle cose: o sei vecchio, oppure sei…”

Allora Mecenate si fermò e si toccò la sua morbida faccia non più giovanissima, e tacque: si volse di colpo e tornò indietro lungo le vie e le strade buie, ed ecco, si sentiva  mossa come da un sentimento di determinazione e confusione insieme. Sentiva come se da qualche parte della sua mente vi fosse la risposta a tutti i suoi perché , il nome del sentimento che aveva cercato tanto a lungo. C’era la verità, insomma, tra tutti quei dubbi e quelle macchie nere che affollavano la sua mente; eppure, egli non poteva ancora guardare in quell’angolo e scoprire tutto, no, no: non poteva farlo da solo.

Così tornò indietro, e giunse fino al palazzo di Virgilio, e salì le scale senza incontrare nessuno; e ugualmente, nessuno rispose ai suoi colpi. Egli bussava, ma Virgilio non apriva. Continuava a bussare, e gli pareva che quei colpi rintoccassero nella notte come lugubri suoni degli inferi. Perché Virgilio non gli apriva?

Allora, preso dal panico, Mecenate si diresse alla porta di fianco; bussò; gli fu chiesto chi fosse.

“Sono Gaio Cilnio Mecenate; potete aprirmi?”

Ora c’era un uomo austero di mezza età, che ben doveva conoscere il suo nome; e Mecenate si affrettò a spiegarsi. “Signore, buonasera. Voi conoscete Publio Virgilio Marone, non è vero?”

“Certo. È il mio vicino” replicò l’uomo con calma, senza scomporsi.

“Temo che si senta male” disse Mecenate. “E vorrei andare da lui, ma non posso, poiché egli, in preda ai suoi attacchi, è incapace di aprirmi la porta, e io sono molto preoccupato. Vorreste essere così gentile da lasciarmi passare per la vostra finestra?”

L’uomo lo scrutò: Mecenate era bello e ben vestito, ed era famoso, e il suo volto pareva segnato da infinite rughe di preoccupazione. Ma Mecenate, prendendo per recalcitranza la sua esitazione, estrasse dal mantello un sacchetto e glielo porse, dicendo seriamente: “Vi pagherò per l vostro disturbo, ma vi prego, un minuto per passare dalla vostra finestra! E se volete potrò pagarvi ancora.”

L’uomo guardò la borsa che Mecenate gli offriva. Era un borsetto modesto, che chiunque avrebbe potuto portarsi dietro, eppure tintinnava in modo invitante, e a offrirglielo era un uomo molto ricco e forse molto disperato, un uomo che forse in quel momento si curava di tutto, fuori che del proprio denaro.

“Va bene” gli disse. “Venite. Ho una finestra che dà accanto alla sua; potete passare, se ci riuscite.”

Lo fece passare. Mecenate attraversò un modesto appartamento che non guardò minimamente.

C’era una finestra non molto grande, ma Mecenate, affacciandosi e sporgendosi col busto, ne vide un’altra esattamente di fianco. Distava forse un metro, e Mecenate ringraziò quell’uomo di tutto cuore e gli diede il denaro; poi si arrampicò sulla finestra e s’inginocchiò in precario equilibrio sullo stretto davanzale.

Ecco, egli era ora inginocchiato sul davanzale di una finestra a sei, forse sette metri di distanza dal suolo. E cos’avrebbe pensato Ottaviano, di più, cos’avrebbe pensato l’intera Roma, e quale scandalo vi sarebbe stato, alla vista di Gaio Cilnio Mecenate, cavaliere etrusco, l’uomo più ricco di Roma, in bilico a sei metri dal terreno, in piena notte, sul davanzale della finestra di un estraneo, in procinto di entrare di straforo nella casa del suo protetto Virgilio? Oh, che scandalo, che disonore! Sì, Mecenate sarebbe morto se questo si fosse saputo, se soltanto una voce si fosse diffusa a Roma di tutto questo. Ma allo scandalo, ora, era bene non pensare.

Il suo mantello non era pesantissimo, ma neppure leggero, e lo sbilanciava non poco penzolando dall’una o dall’altra parte. Oltretutto, se si fosse sollevata anche solo una breve raffica di vento, cosa non rara in quella stagione, il mantello gli sarebbe svolazzato intorno impacciandolo. Perciò Mecenate si slacciò il soggolo dorato e guardò il suo prezioso mantello di lana spagnola cadere e appiattirsi sulle lisce pietre della strada sottostante. Poi si fece forza, prese coraggio e si protese, tendendo al massimo tutti i deboli muscoli del suo corpo sedentario, e si aggrappò alla finestra vicina. Vi erano due imposte, in quel momento accostate, e Mecenate si calò all’interno scivolando; e nel calarvisi, guardò di sotto e vide l’ultimo, miserabile resto della sua dignità perduta, immobile sulla strada. Era finita, ormai. Quel ricco mantello perduto gli provava che, qualunque cosa potesse accadere in quella casa, nulla sarebbe stato lo stesso di ieri e degli anni passati.

“Che diamine…ehi, chi c’è?”

Era la voce di Virgilio, che si avvicinava dalla stanza di fianco e apriva la porta. Si diffuse dalla porta uno spiraglio di luce, e Mecenate si scoprì imbarazzato e vergognoso lì sul pavimento come un ladruncolo, come un volgare amante. Virgilio era rimasto immobile sulla soglia, incredulo:  lo aveva riconosciuto nella flebile striscia di luce proveniente dalla stanza di fianco, e la sua vista lo aveva sconvolto. Lo fissava.

“Ma…Mecenate! Sei impazzito? Cosa ci fai qui?”

Ma Mecenate non rispose.

“Oh, ma tu sei pazzo! Sei passato dalla finestra? Ma…ma come hai fatto? Da dove sei passato?”

Mecenate si alzò in piedi con cli occhi acciecati dalla luce, ma ostinatamente fissi su Virgilio; allargando le braccia, mormorò: “Ho pagato il tuo vicino perché mi facesse passare dalla sua finestra.”

“Hai pagato Tito? Oh, ma tu sei impazzito per davvero! Sei metri almeno da terra! E quanto gli hai dato?”

Era una fiumana di domande incessanti che gli si addiceva ben poco: ma Mecenate alzò dolcemente le mani per fargli cenno di smettere, e Virgilio si quietò.

“Ho capito la verità” disse. La sua voce era bassissima e rauca, ma Virgilio pareva pendere dalle sue labbra. “Io…avevi ragione, Virgilio. Tutti questi anni senza capire, senza…sono stato uno stupido” soggiunse con semplicità, arrossendo vagamente, ma senza un vero imbarazzo: sorrideva. “Ma ora ho capito la verità, e mi dispiace, mi dispiace di non averla capita prima. Ma nondimeno sono qui, ora, e tutta la mia dignità, tutto il mio onore, li ho buttati via per te, nell’arrampicarmi da quella finestra come un malvivente…e quello che ne resta, ammesso che ne resti qualcosa, lo depongo ai tuoi piedi e puoi farne ciò che vuoi. Ho capito la verità, finalmente. Ti amo, e perdonami se ho tanto tardato a capirlo.”

   
 
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