E poi la vita riprese, e quella sera
parve soltanto una sera
tra le sere, nel senso che non ne parlarono più; ma Mecenate
non dimenticò mai
le parole che Virgilio gli aveva rivoltom e le conservò
sempre in un piccolo
posto privato dentro di sé.
Frattanto Virgilio, le cui
convinzioni stoiche si erano
ormai consolidate, aveva cominciato a raccogliere materiale per le
Georgiche,
come intendeva chiamare il suo nuovo progetto; come Mecenate ormai ben
sapeva,
la raccolta di materiale consisteva nel fumarsi un intero rotolino
bianco,
sedersi da qualche parte, e ragionare. Mecenate lo lasciava fare,
troppo preso
da altre occupazioni, da altri personaggi; in primis, quel Quinto
Orazio Flacco
che, dopo nove mesi di conoscenza, ebbe l’onore di essere
accolto tra gli
intimi di Mecenate. Era un giovane
assolutamente promettente, e, tra
le
altre cose, aveva delle solide basi metriche, che era forse la cosa che
Mecenate maggiormente amava in lui. ma aveva anche un buon carattere,
comunque.
Ma alla fine Virgilio
cominciò a scrivere, un po’ a caso,
certo, ma meravigliosamente; e quando il primo libro fu
pressoché compiuto,
almeno nella sua brutta copia, lo diede a Mecenate e glielo fece
leggere. E
Mecenate s’infuriò, lo mandò a
riscriverlo tutto, ma Virgilio glielo riportò
immutato, replicando che non aveva trovato errori e che anzi gli
sembrava un
inizio piuttosto interessante. Al
che
Mecenate gli fece la ripassata che abbiamo visto nel prologo e si
ritrovò a
correggere tutta la metrica, cosa che gli richiese circa tre settimane
di
tempo, considerando tutti i suoi altri impegni.
Tre settimane inutili almeno quanto i
suoi vani tentativi di
insegnargli la metrica: tre mesi dopo, Virgilio cominciò a
lavorare a una bozza
della bozza della bozza della bozza della prima parte del terzo libro,
bello
quanto il primo, sbagliato quanto e più del primo, e
Mecenate passò giorni
interi a correggerlo. Ma era contento che Virgilio si affidasse a lui
per le
correzioni e i consigli, anche se non glielo disse direttamente.
Ma poi c’era Ottaviano, un
Ottaviano che non si poteva
trascurare o mettere da parte, e naturalmente un Antonio che era
lontano ma che
dopotutto si faceva sentire; e poi c’erano altre persone,
persone importanti di
cui tenere conto.
Nel 33 Orazio pubblicò
infine il primo libro delle sue
Satire, e Mecenate compì finalmente un progetto che aveva in
mente da secoli e
acquistò per lui un podere nella campagna sabina. E Orazio
andò, come dire, al
settimo cielo e abbandonò il suo triste appartamento accanto
allo spacciatore
di Virgilio per ritirarsi a vivere e a lavorare in pace.
Qualche giorno dopo questi
avvenimenti, Mecenate, entrato
nel suo bel soggiorno per cercare una certa bozza che gli era stata
recapitata,
trovò Virgilio seduto, cupo, presso il suo tavolo da lavoro
abituale.
“Virgilio! Che cosa
succede?” domandò Mecenate,
avvicinandoglisi sorpreso. Virgilio alzò lo sguardo su di
lui e lo scrutò
intensamente: i suoi occhi erano asciutti e lucidi, come Mecenate non
li vedeva
da almeno quattro anni.
Mecenate si fermò al suo
fianco, perplesso, e Virgilio
chiese a mo’ di risposta: “Perché gli
hai comprato quel podere?”.
Tanto poco si aspettava questa
domanda, che Mecenate rimase
a lungo in silenzio sorpreso; poi, sedendosi su un divanetto di fronte
a lui,
replicò: “ È molto semplice, Virgilio:
sai in che tipo di casa abitava Orazio,
e sai anche che da lungo tempo aveva bisogno di un luogo più
sereno dove poter
comporre. È tutto qui.” Ma poi, colto come da una
terribile sensazione di
disagio, si affrettò ad aggiungere: “Virgilio,
ascolta. Se a te non ho mai
fatto un regalo del genere, è solo perché tu sai
di poter venire in ogni
momento a casa mia…”
“Oh, Mecenate, Mecenate! Ma
cosa vuoi che m’importi di un
podere da qualche parte che non sia la mia cara e bella Napoli, e poi
non
m’importa nulla di qualche regalo: mi hai già
acquistato un appartamento, anni
fa! Non hai capito ciò che ti sto dicendo?”
sbottò Virgilio alzandosi. Mecenate
sollevò lo sguardo su di lui, e per la prima volta
considerò davvero quanto
Virgilio si fosse fatto alto e bello in quegli anni trascorsi assieme,
e
ammutolì. Virgilio era lucido, non aveva fumato. Ma cosa gli
succedeva?
Virgilio lo scrutò con uno
sguardo che pareva ardere di
passione e di dolore assieme; parlò di nuovo, e parve che la
sua voce tremasse.
“Mecenate…sii
sincero. Tu preferisci Orazio a me, non è
vero?”
A quelle parole Mecenate
sgranò gli occhi, stravolto,
colpito. Impallidì, arretrando, e subito esclamò:
“ Virgilio, mio caro, non
essere sciocco! A livello poetico, vi ammiro entrambi in modo eguale,
tutti voi
artisti così promettenti… e a livello personale,
Virgilio, non nutro la benché
minima preferenza per nessuno di voi due, lo giuro: “nutro
stima e amicizia per
entrambi, in modo diverso, è vero, ma in misura eguale. Non
posso dire davvero
di preferire Orazio a te!”
Ma per qualche motivo quella pareva
non essere la risposta
giusta. Via via che parlava, Mecenate aveva visto come accendersi e
infuocarsi
di rabbia gli occhi di Virgilio: egli ristava immobile davanti a lui,
con gli
occhi infissi nei suoi, e pareva fiammeggiare e far ardere con
sé tutta la
casa. “Vuoi tu dunque dirmi che non hai mai capito nulla di
ciò che cercavo di
dirti, di ciò che…?” Mecenate non
riusciva a muoversi, confuso. Alla lunga, il
suo silenzio gli parve una risposta. Virgilio indietreggiò
di un passo, ma non
distolse gli occhi dai suoi.
“Ti ho sempre considerato
un grande uomo, Mecenate” mormorò.
“Sissignore, proprio un grande uomo. Ma questo devo dirtelo,
Mecenate…non hai
mai capito niente di me.”
Per tutta la notte e per tutto il
giorno seguente Mecenate
continuò a interrogarsi sul significato delle parole di
Virgilio. Cosa voleva
dire tutto quell’astio, tutta quell’insolenza? E
poi, cos’era che Virgilio lo
accusava di non aver mai capito?
Così, la sera seguente,
dopo aver trascorso tutta una
giornata senza ricevere notizie di Virgilio e domandandosi invece
ansiosamente
il significato di quella scena, Mecenate si avviò
risolutamente verso la casa
del suo protetto, non troppo sicuro di ciò che doveva fare,
ma certo di voler
avere almeno un pezzettino di quella verità, forse enorme,
che Virgilio conosceva
bene e di cui lui era all’oscuro. Era lo stesso segreto di
cui gli occhi di
Virgilio gli erano parsi scintillare quella sera nell’ombra
nera? Mecenate non
poteva più non saperlo.
Raggiunse in breve tempo il palazzo
al cui secondo piano si
trovava l’appartamento di Virgilio. Quando, tanti anni prima,
Mecenate lo aveva
comprato, gli avrebbe volentieri acquistato una casa anche
più grande, magari
privata, ma Virgilio aveva detto che gli faceva piacere avere gente
intorno, e
che comunque non gli sarebbe piaciuta l’idea di abitare in
una villa enorme, ma
vuota. Perciò si era giunti alla scelta di quel quartiere
rispettabile ma
semplice, proprio come lui.
Così Mecenate
andò a bussare alla porta di Virgilio, e dopo
forse un minuto una voce gli domandò: “Chi
è?”. Ma non era la voce di Virgilio,
e Mecenate rabbrividì.
“Sono Caio Cilnio
Mecenate” disse “amico di Virgilio.”
Sentì che
un’assicella veniva rimossa e che la porta si
apriva; vide un volto pallido e magro con gli occhi rossi, un volto di
ragazzo,
e riconobbe uno della cerchia di Virgilio. Allora cercò di
sorridere e mormorò:
“Buona sera. Sono un amico di Virgilio, è un
po’ che non lo vedo. È in casa?”
“Ehi amico”
borbottò il ragazzo. “Ti chiami Mecenate, eh?
Eppue Virgilio era proprio ieri a casa tua, e tutto oggi
ha…oh, non importa. Te
lo chiamo.” E scomparve in una stanzetta adiacente, e dopo
pochi momento ne
emerse Virgilio. Pareva tutto arruffato e con gli occhi rossi; alla sua
vista,
Mecenate si sentì pulsare lo stomaco come di uno strano
impulso, ma non reagì.
“Ehi, Mecenate”
borbottò Virgilio. “Che cosa vuoi?”.
“Mecenate era ancora
immobile sulla porta. Ora la richiuse,
e schiarendosi la voce, come per darsi un contegno, mormorò:
“Mi stavo
interrogando sul senso delle tue parole…e ancora non sono
riuscito a trovarvi
una risposta.”
Virgilio aggrottò un
momento le sopracciglia, freddamente, e
non parve intenzionato a rispondere. Ma dopo qualche momento, vedendo
che
Mecenate non demordeva, replicò a bassa voce:
“Se ancora non l’hai capito, devi
essere ben stupido.”
Mecenate si sarebbe altrove offeso
profondamente, avrebbe
protestato contro quell’ingiuria. Ma in quel momento, dinanzi
a
quell’individuo, si sentì invece profondamente
colpito e infelice. Non
avrebbe voluto che proprio Virgilio
dicesse o pensasse questo di lui. E tutto ciò che
poté fare il grande Mecenate,
l’amico e collaboratore di Ottaviano, l’uomo
più ricco e potente di Roma, fu
chinare mestamente il capo dinanzi a quel ragazzo venuto dalla
provincia,
sentendosi, come aveva detto lui, molto stupido. Non sapeva cosa avesse
fatto,
ma di qualunque cosa si trattasse, era stata la cosa sbagliata, e
avrebbe voluto
poter rimediare.
“Hai ragione”
disse semplicemente, e ne era convinto.
Virgilio sbuffò,
arricciò le labbra. Non voleva aver
ragione.
“Sono anni che cerco di
fartelo capire, Mecenate” mormorò.
“Non intendo passare altro tempo a…oh, basta
così. Vattene pure dal tuo caro
Orazio se devi, oh, il tuo caro Orazio con
i suoi Epodi e le sue Satire, con il suo Archiloco e il
suo scudo
gettato! Chi sono io, chi è il povero Virgilio con le sue
Bucoliche e le sue
Georgiche che non vanno mai bene? Ma vattene pure, forza! Vattene da
qui, e
torna solo quando avrai capito la verità.”
E gli indicò, con sguardo
severo, la porta; e Mecenate non
poté fare altro che obbedire, e allontanarsi in silenzio,
ferito, da quella
casa.
Ma continuò a vagare per
le vie di Roma, sentendosi
scoppiare il cuore di un certo sentimento che, fino ad allora, non
aveva mai
provato. Era un bel
sentimento buono,
positivo, eppure egli aveva l’impressione di sentirlo
diventare un dolore nel
proprio animo. Ma cos’era?
Era quella strana fitta rabbiosa che
aveva provato nel
vedere quel giovane a lui ancora sconosciuto in casa di Virgilio. Era
lo strano
pulsare delle sue viscere, che aveva provato parlando col suo protetto
dopo il
lasso di tempo più lungo che li avesse mai divisi mentre si
trovavano nella
stessa città. Ed era lo strano, eccessivo dolore causato
dalle aspre parole di
Virgilio, ed era una specie di terribile, tragico senso di una
fatalità che
stava solo a lui impedire, ma non sapeva più in quale modo.
Ma nel frattempo calava la notte, ed
egli, confuso, si
faceva trascinare qua e là dal vento di una notte per nulla
calda. Era ormai
tardi, ed egli avrebbe dovuto tornare a casa: non aveva avvertito i
servi, ed
essi l’avrebbero aspettato con la cena in caldo. Tuttavia,
egli sentiva come
una terribile forza che lo tratteneva, che gli impediva di andare dove
voleva,
o meglio dove avrebbe dovuto: quando Mecenate guardò,
capì che altro non aveva
fatto se non girare per ore nelle vie attorno al quartiere di Virgilio,
ma
senza allontanarsene.
“Mecenate,
Mecenate” si disse. “Sei diventato un uomo molto
sciocco, o un uomo molto vecchio. Lo sai come si dice quando non si
riflette
sulle cose: o sei vecchio, oppure sei…”
Allora Mecenate si fermò e
si toccò la sua morbida faccia
non più giovanissima, e tacque: si volse di colpo e
tornò indietro lungo le vie
e le strade buie, ed ecco, si sentiva
mossa come da un sentimento di determinazione e confusione
insieme.
Sentiva come se da qualche parte della sua mente vi fosse la risposta a
tutti i
suoi perché , il nome del sentimento che aveva cercato tanto
a lungo. C’era la
verità, insomma, tra tutti quei dubbi e quelle macchie nere
che affollavano la
sua mente; eppure, egli non poteva ancora guardare in
quell’angolo e scoprire
tutto, no, no: non poteva farlo da solo.
Così tornò
indietro, e giunse fino al palazzo di Virgilio, e
salì le scale senza incontrare nessuno; e ugualmente,
nessuno rispose ai suoi
colpi. Egli bussava, ma Virgilio non apriva. Continuava a bussare, e
gli pareva
che quei colpi rintoccassero nella notte come lugubri suoni degli
inferi.
Perché Virgilio non gli apriva?
Allora, preso dal panico, Mecenate si
diresse alla porta di
fianco; bussò; gli fu chiesto chi fosse.
“Sono Gaio Cilnio Mecenate;
potete aprirmi?”
Ora c’era un uomo austero
di mezza età, che ben doveva
conoscere il suo nome; e Mecenate si affrettò a spiegarsi.
“Signore, buonasera.
Voi conoscete Publio Virgilio Marone, non è vero?”
“Certo. È il mio
vicino” replicò l’uomo con calma, senza
scomporsi.
“Temo che si senta
male” disse Mecenate. “E vorrei andare da
lui, ma non posso, poiché egli, in preda ai suoi attacchi,
è incapace di
aprirmi la porta, e io sono molto preoccupato. Vorreste essere
così gentile da
lasciarmi passare per la vostra finestra?”
L’uomo lo
scrutò: Mecenate era bello e ben vestito, ed era
famoso, e il suo volto pareva segnato da infinite rughe di
preoccupazione. Ma
Mecenate, prendendo per recalcitranza la sua esitazione, estrasse dal
mantello
un sacchetto e glielo porse, dicendo seriamente: “Vi
pagherò per l vostro
disturbo, ma vi prego, un minuto per passare dalla vostra finestra! E
se volete
potrò pagarvi ancora.”
L’uomo guardò la
borsa che Mecenate gli offriva. Era un
borsetto modesto, che chiunque avrebbe potuto portarsi dietro, eppure
tintinnava in modo invitante, e a offrirglielo era un uomo molto ricco
e forse
molto disperato, un uomo che forse in quel momento si curava di tutto,
fuori
che del proprio denaro.
“Va bene” gli
disse. “Venite. Ho una finestra che dà accanto
alla sua; potete passare, se ci riuscite.”
Lo fece passare. Mecenate
attraversò un modesto appartamento
che non guardò minimamente.
C’era una finestra non
molto grande, ma Mecenate, affacciandosi
e sporgendosi col busto, ne vide un’altra esattamente di
fianco. Distava forse
un metro, e Mecenate ringraziò quell’uomo di tutto
cuore e gli diede il denaro;
poi si arrampicò sulla finestra e
s’inginocchiò in precario equilibrio sullo
stretto davanzale.
Ecco, egli era ora inginocchiato sul
davanzale di una
finestra a sei, forse sette metri di distanza dal suolo. E
cos’avrebbe pensato
Ottaviano, di più, cos’avrebbe pensato
l’intera Roma, e quale scandalo vi
sarebbe stato, alla vista di Gaio Cilnio Mecenate, cavaliere etrusco,
l’uomo
più ricco di Roma, in bilico a sei metri dal terreno, in
piena notte, sul
davanzale della finestra di un estraneo, in procinto di entrare di
straforo
nella casa del suo protetto Virgilio? Oh, che scandalo, che disonore!
Sì,
Mecenate sarebbe morto se questo si fosse saputo, se soltanto una voce
si fosse
diffusa a Roma di tutto questo. Ma allo scandalo, ora, era bene non
pensare.
Il suo mantello non era pesantissimo,
ma neppure leggero, e
lo sbilanciava non poco penzolando dall’una o
dall’altra parte. Oltretutto, se
si fosse sollevata anche solo una breve raffica di vento, cosa non rara
in
quella stagione, il mantello gli sarebbe svolazzato intorno
impacciandolo. Perciò
Mecenate si slacciò il soggolo dorato e guardò il
suo prezioso mantello di lana
spagnola cadere e appiattirsi sulle lisce pietre della strada
sottostante. Poi
si fece forza, prese coraggio e si protese, tendendo al massimo tutti i
deboli
muscoli del suo corpo sedentario, e si aggrappò alla
finestra vicina. Vi erano
due imposte, in quel momento accostate, e Mecenate si calò
all’interno
scivolando; e nel calarvisi, guardò di sotto e vide
l’ultimo, miserabile resto
della sua dignità perduta, immobile sulla strada. Era
finita, ormai. Quel ricco
mantello perduto gli provava che, qualunque cosa potesse accadere in
quella
casa, nulla sarebbe stato lo stesso di ieri e degli anni passati.
“Che
diamine…ehi, chi c’è?”
Era la voce di Virgilio, che si
avvicinava dalla stanza di
fianco e apriva la porta. Si diffuse dalla porta uno spiraglio di luce,
e
Mecenate si scoprì imbarazzato e vergognoso lì
sul pavimento come un
ladruncolo, come un volgare amante. Virgilio era rimasto immobile sulla
soglia,
incredulo: lo aveva
riconosciuto nella
flebile striscia di luce proveniente dalla stanza di fianco, e la sua
vista lo
aveva sconvolto. Lo fissava.
“Ma…Mecenate!
Sei impazzito? Cosa ci fai qui?”
Ma Mecenate non rispose.
“Oh, ma tu sei pazzo! Sei
passato dalla finestra? Ma…ma come
hai fatto? Da dove sei passato?”
Mecenate si alzò in piedi
con cli occhi acciecati dalla
luce, ma ostinatamente fissi su Virgilio; allargando le braccia,
mormorò: “Ho
pagato il tuo vicino perché mi facesse passare dalla sua
finestra.”
“Hai pagato Tito? Oh, ma tu
sei impazzito per davvero! Sei metri
almeno da terra! E quanto gli hai dato?”
Era una fiumana di domande incessanti
che gli si addiceva
ben poco: ma Mecenate alzò dolcemente le mani per fargli
cenno di smettere, e
Virgilio si quietò.
“Ho capito la
verità” disse. La sua voce era bassissima e
rauca, ma Virgilio pareva pendere dalle sue labbra.
“Io…avevi ragione,
Virgilio. Tutti questi anni senza capire, senza…sono stato
uno stupido”
soggiunse con semplicità, arrossendo vagamente, ma senza un
vero imbarazzo:
sorrideva. “Ma ora ho capito la verità, e mi
dispiace, mi dispiace di non
averla capita prima. Ma nondimeno sono qui, ora, e tutta la mia
dignità, tutto
il mio onore, li ho buttati via per te, nell’arrampicarmi da
quella finestra
come un malvivente…e quello che ne resta, ammesso che ne
resti qualcosa, lo
depongo ai tuoi piedi e puoi farne ciò che vuoi. Ho capito
la verità,
finalmente. Ti amo, e perdonami se ho tanto tardato a
capirlo.”