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Autore: PattyOnTheRollercoaster    23/10/2011    4 recensioni
L torna alla Whammy's House, indeciso se continuare la sua carriera da detective dopo il caso Kira. Near si dà alla filosofia, Mello alla boxe e Matt continua con l'informatica.
Mentre vanno avanti con le loro vite Ryuk scrive un nome sul Death Note, una ragazza trova un quaderno incastrato nel portatile, qualcuno viene ucciso e qualcun'altro rapito. Un nome viene scritto e un'altro cancellato.
Si dice che il battito d'ali di una farfalla può causare un uragano dall'altra parte del mondo. Se una farfalla può causare questo, allora cosa causerà uno Shinigami annoiato?
[Dal capitolo 6]
“Ryuk”, chiamò L.
Lo Shinigami si avvicinò con passo lento. “Sì?”
“Ci sono altri Shinigami che vanno in giro a dare Death Note alle persone?”
Il mostro scosse la testa, gli occhi fissi sul detective. “Non che io sappia.”
“Sei sicuro?!”, intervenne impetuoso Mello. “Allora come cazzo è possibile che una bambina abbia gli occhi dello Shinigami?”
Genere: Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo sedici
Put out the fire





Light Yagami fissò interdetto L, senza capire. Com’era possibile? Non era vero, lo prendevano in giro, tutti quanti! Erano lì solo per confonderlo, per farlo arrabbiare. Ma presto sarebbero morti, uno dopo l’altro. Una questione di pochi minuti. Rasserenò lo sguardo e domandò: “Come faccio a crederti L? Io so per certo di non aver sbagliato nulla. E’ un bluff”, disse, tentando di convincere più sé stesso che di smascherare L.
L scosse la testa piano, senza perderlo di vista. “No, è come ti ho spiegato.”
Light digrignò i denti. “E se così fosse… come hai fatto a sapere che era il momento giusto per usare il quaderno? Sei un veggente, forse? Questo spiegherebbe molti dei tuoi casi risolti.”
“Ho dovuto chiamare Roger, alla Wammy’s House, e lui mi ha raccontato ogni cosa. Near era vivo e vegeto nella stessa stanza con me nel momento in cui lui mi faceva le condoglianze. Abbiamo subito pensato che eri stato tu: ti sei ancora una volta presentato come Eikichi Kazuro. Roger ci ha detto tutto ciò che ti aveva raccontato su Near. In quel modo deve essere stato facile scoprire il suo nome, no?” L sorrise velatamente, aveva il cuore gonfio di trionfo, orgoglio e tranquillità. Ma non lo dava a vedere, preferiva far pensare a Light che era stata una passeggiata sconfiggerlo. “Abbiamo pensato a come lo avresti usato, probabilmente per scoprire i nostri nomi, così abbiamo fatto in modo che Near ti desse quelli falsi.” L aggiunse, per puro dispetto: “Ancora una volta ti sei scoperto troppo, è stato un tuo errore”.
“Non è vero! Non si può ingannare un Death Note!”, esclamò Light sputacchiando.
“Invece sì”, intervenne Near. “Con un altro Death Note.” Così dicendo tirò fuori dalla tasca il Death Note di Noodle e lo fece vedere bene a Light. Il ragazzo rimase zitto, gli occhi incollati al quaderno nero che penzolava di fronte a lui.
“I nomi che Near ha scritto come nostri erano dunque:”, L si frugò nei jeans e tirò fuori un pezzetto di carta spiegazzato, “Leander Foster, John Galber, Hans Nieminen, Jennifer Tipes e Irina Kamberg.” L alzò lo sguardo e lo osservò come se fosse dispiaciuto. “Non sono i nostri. Near ha falsificato i nomi, scrivendo quelli di cinque criminali che dovevano morire oggi. E invece ha scritto il tuo, sul nostro Death Note. Per questo hai organizzato l’incontro, te l’abbiamo ordinato noi. Nulla di tutto questo è stata una tua idea, Light-kun.”
Light Yagami era furioso. Non era mai stato tanto arrabbiato in vita sua. Non poteva credere di essere stato ancora una volta battuto da L. Un’altra vita, un’altra possibilità, un altro Kira, un altro Dio!... e lui se lo era fatto sfuggire di nuovo. Possibile? No, no, quello era un demonio, non un essere umano. Un demonio che lo avrebbe perseguitato finché lui non avesse ceduto, finché non avesse implorato pietà, finché non fosse morto piuttosto di non sentirsi più perseguitato da lui.
In quel momento qualcosa, nella mente di Light Yagami, si spezzò. Dimenticati gli affetti che credeva ancora di avere e che consistevano solo nella sua famiglia, dimentico del suo scopo, la ragione prima per cui era al mondo, dimentico persino del luogo dove si trovava e del perché si trovava lì, osservò quegli occhi scuri e senza fondo, quegli occhi in cui non aveva mai trovato un’espressione umana. La sua rabbia esplose, come non l’aveva mai provata prima, gli strinse le ossa e le fece bruciare, gli divampò nella mente e bruciò ogni traccia di razionalità, ogni piano ben congegnato, tutto ciò che lo mandava avanti. Ora l’unica consapevolezza che aveva era quella di odiare l’uomo che aveva di fronte a sé.
Non vedeva gli altri -erano esseri senza importanza ai suoi occhi- vedeva solo L. All’improvviso capì la vera ragione del perché era lì. Sì, per ucciderlo. A qualsiasi costo. In qualunque modo. Era un essere sbagliato, non sarebbe mai dovuto esistere, non poteva esistere, era un mostro sulla terra, un demone arrivato da chissà dove solo per lui, per perseguitarlo, per dargli fastidio, per non farlo dormire la notte. All’improvviso lo vide per quel che era veramente. Qualcosa di grottesco che gli impediva di vivere, un mostro. In quella frazione di secondo Light smise di respirare e prese una decisione: lo avrebbe ucciso.
Desiderava che morisse, con dolore assordante e brutale. Lo avrebbe preso per la gola, avrebbe stretto. Avrebbe annullato ogni suo sforzo per salvarsi, proprio come aveva fatto lui con il suo sogno, con il suo ideale di mondo perfetto. Lui lo aveva preso, strappato in mille e pezzi e calpestato, davanti ai suoi occhi, ridendo sadicamente, mentre Light non aveva potuto fare nulla per impedirglielo. E dopo aver vanificato tutti i suoi tentativi di salvezza, Light Yagami decise che avrebbe osservato i suoi occhi spegnersi, lentamente e con terrore. E si sarebbero guardati negli occhi, ed L avrebbe avuto paura di lui, no si sarebbe sentito inferiore, e gli occhi di Light pieni di furia e rabbia e crudeltà sarebbero stati l’ultima cosa che avrebbe visto, sarebbero stati l’ultima immagine che si sarebbe portato fino all’inferno. Perché, dopotutto, un demone come lui dove altro sarebbe potuto andare a finire?
Mentre pensava a tutte queste cose Light stringeva i pugni e le labbra, fissando L. Stava per muoversi, quando all’improvviso si rese conto che il demone stava parlando.
“…in questo modo potremmo bruciare i due Death Note.” Light non aveva sentito, non seguiva le parole di quell’essere, e lui riprese a parlare. “Sai perché sei vivo?”
Questa domanda arrivò forte a Light, come una bomba scoppiata direttamente nelle sue orecchie. “No.”
“Qualcuno si è appropriato del Death Note di Ryuk e ha cancellato il tuo nome con una gomma, usata appositamente per questo scopo dagli Shinigami”, disse L pacato. Fece una pausa ad effetto. “Tu questo non lo sapevi.” Il detective sapeva benissimo che in questo modo avrebbe solo fatto arrabbiare Light Yagami, e che sottolineare certe sottigliezze di sicuro non sarebbe servito a nulla di particolare, se non al solo scopo di batterlo, ancora una volta, in un confronto verbale. L’ultimo.
“Come potevo saperlo?”, sputacchiò Light fra i denti facendo una brutta smorfia.
“Io lo so.” L fece un sorrisino. “So una cosa che tu non sai.” Aveva preso un eccessivo tono canzonatorio, come se fossero bambini di dieci anni. “Questo significa che io sono superiore a te. Ma Dio… non è il grado più alto che esista sulla faccia della terra?, e oltre, direi.” Light lo osservava truce, non aveva capito dove volesse arrivare -non era da lui- ma non gli importava, non ascoltava realmente le sue parole. “Questo dimostra che tu non sei affatto un Dio, perché Dio dovrebbe sapere ogni cosa. Piuttosto… io sono un Dio.”
A quelle parole Light Yagami scattò in avanti, le braccia tese e un ringhio che gli saliva in gola. Agguantò L per il collo e lo trascinò a terra per la violenza dell’impatto. Le sue mani stringevano implacabili. Il detective, a terra, si divincolava e graffiava le mani di Light, ma non riusciva a spostarlo neanche di un millimetro. La gola gli doleva per quanto il ragazzo premeva forte le dita contro la trachea, e la sensazione così improvvisa, così forzata, di non poter respirare, lo mandò nel panico. Si guardavano negli occhi, L e Light, e in quel momento il detective capì che il giovane era impazzito. I suoi occhi erano vacui, parevano addirittura vuoti, non c’era più Light Yagami là dentro, ma una persona senza ragione, impossessata da qualcosa di assurdo e maligno.
Death Note.
Tutti scattarono. Matt si buttò addosso a Light e lo prese per il torace, cercando di staccarlo da L. Allo stesso modo Noodle si abbatté sulle sue mani, graffiandole e stringendole sempre di più, tentando di allentare la sua stretta. Grida esagitate e mani frenetiche si confusero di fronte ad L. Il detective sentiva più male alla gola, tentava di respirare freneticamente ma l’aria non riusciva a passare lungo la trachea: il pomo d’Adamo vi premeva dolorosamente contro. L cominciava a vedere il mondo dileguarsi attorno a lui, mentre gli angoli degli occhi venivano invasi dal bianco, che cancellava tutto il resto, e da puntini di colore che apparivano qua e là, e subito dopo come fantasmi sparivano di nuovo.
All’improvviso Light Yagami si bloccò. Matt lo tirò su, sorreggendolo per le ascelle, e si rese conto che il ragazzo aveva gli occhi spalancati, la bocca aperta in un grido e un’espressione di sorpresa terrorizzata sul volto. Si portò una mano al petto, lasciandosi sorreggere da Matt, ed emise un suono gutturale con la gola, osservando di fronte a sé una lapide. Il dolore al petto esplose e si dipanò presto in tutto il corpo. All’improvviso Light si sentì molto stanco e infelice. Chiuse gli occhi e buttò fuori dai polmoni tutta l’aria che aveva in corpo.
Morì.

Diane Colfer e Noodle erano tornate alla macchina senza dire una parola. Sapevano che cosa sarebbe successo di lì a poco, ma non avevano voglia di restare a guardare, o di parlare con Near, di consolarlo, di salutarlo. Avevano detto solo ‘ci vediamo a casa’, come se fosse tutto normale, come se fra qualche ora tutti sarebbero tornati facendo gracchiare la serratura della porta d’ingresso, e li avrebbero visti incorniciati alla porta, che entravano a piccoli passi. Ma tutte e due sapevano che non sarebbe andata così.
Diane decise di guidare e le due fecero il viaggio in silenzio, senza sapere che cosa dire o se fosse il caso di dire qualcosa, se per caso non avessero dovuto consolarsi l’una con l’altra o forse se fosse stato meglio continuare a rimanere zitte. Forse era così, non era opportuno parlare in quei casi. Non si sa mai cosa dire, e si finisce sempre per imbarazzarsi di più e dire cose inopportune e stupide.
Noodle, nel sedile del passeggero, guardava fuori dal finestrino. Era ancora giorno. Faceva caldo. Era Luglio, la gente per strada aveva le maniche corte, i pantaloncini e gli occhiali scuri. Il sole splendeva forte sopra New York, riscaldava più del dovuto. E il caldo, l’afa e il sudore appiccicoso erano insopportabili. Noodle aprì il finestrino e si fece scorrere l’aria fresca sul viso, osservando le persone che passavano, le macchine che andavano più forte di loro e le biciclette che si lasciavano indietro. Pensò a Near, ma non guardò l’orologio. Non lo conosceva troppo bene, non lo aveva mai conosciuto più di tanto, più di quel che lui voleva farsi conoscere, ma non sapeva se essere triste o sollevata. Near sembrava soffrire la vita stessa, la sua essenza, più di ogni altra cosa al mondo. Noodle aveva paura della sua solitudine, le dava angoscia perché le dispiaceva per lui. Aveva provato quella solitudine solo dopo che era morto suo padre, nelle settimane appena successive al decesso. Una solitudine senza motivazioni, abbastanza pressante da farti sentire abbattuto, ma non troppo da farti desiderare la compagnia di qualcuno. Una solitudine che lasciava uno spazio infinito fra sé stessi e il mondo. In quel periodo Noodle non credeva che la vita avesse un senso, e sentiva di trascinarsi avanti giorno dopo giorno, senza una mèta, senza un ragione, senza una motivazione. Nonostante nessuno sappia qual è lo scopo della propria esistenza si va avanti, e lo scopo si trova lungo il tragitto: i sogni, gli affetti… Noodle, subito dopo la morte di Stephen, aveva trovato la sua motivazione nella vendetta, e in seguito anche in Mello. Ma aveva paura della solitudine di Near: sembrava doversi protrarre per sempre. Per questo era divisa in due: non sapeva se essere sollevata perché Near aveva smesso di essere solo, o triste perché non aveva avuto la possibilità di trovare qualcosa per cui rinascere. Nonostante la calura estiva un brivido freddo gli passò lungo la schiena.
Quando arrivarono a casa Diane la informò: “Io faccio una doccia. Vuoi mangiare?”.
“No grazie, ci penso da sola. Adesso non ho fame”, rispose Noodle dirigendosi in camera sua.
“D’accordo”, sussurrò Diane, più a sé stessa che alla ragazza. Si diresse in camera sua, prese il pigiama e l’accappatoio, poi si diresse in bagno. Voleva fare una doccia veloce, era dall’età di undici anni che non faceva il bagno, ma a metà strada dalla stanza alla doccia cambiò idea, virò il suo tragitto e si diresse al bagno con la vasca. Cominciò a far scorrere l’acqua con il bagnoschiuma. Attese pazientemente che la vasca si riempisse e osservò le bolle profumate aumentare di volume ad ogni secondo. Quando fu piena chiuse l’acqua e decise di concedersi una sciccheria: andò in cucina e si servì un grosso bicchiere di vino rosso, secco e pungente. Tornata in bagno si spogliò e posizionò il bicchiere accanto a sé.
Quando si immerse nella vasca fu all’improvviso assalita dall’angoscia. Pensò a Matt e poi a Near. Era felice di aver ritrovato suo figlio, era di sicuro la cosa migliore che le fosse mai capitata, ma ad un tratto ebbe paura: che cosa faceva Matt in quell’istante? Che cosa pensava? Che cosa voleva fare? Pensò che se avesse perso Mail, così come qualcun altro che non conosceva aveva perso Near, allora la vita non valeva più la pena di essere vissuta. Che cosa l’avrebbe portata avanti senza di lui? Mail, Mail Jeevas. Come aveva potuto pensare ad un nome tanto strano? Avrebbe potuto chiamarlo John, o Michael, o magari Steven. Perché Mail? Diane sospirò e prese il bicchiere. L’odore del vino era forte e il sapore si appiccicò nella sua bocca.
Perché dovevano accadere cose come questa? Un ragazzo era morto, senza una reale motivazione. Era assurdo, no? Ogni morte era assurda, sia quella degli anziani che quella dei ragazzi. Nessuno poteva capire l’intricata ragnatela in cui ci eravamo tutti cacciati fin dalla nascita. Alla fine Diane sospirò e rilassò i muscoli, e pensò che non valeva la pena fare così, sentire quella tensione e quella angoscia ogni ora, ogni giorno. Tutti i fili della ragnatela potevano rompersi quando meno ce lo aspettavamo… Forse era più sano continuare a vivere senza queste paure, per godersi appieno ogni momento. Ed ogni persona.

Near sedette a terra, la schiena poggiata contro il tronco di un albero, la testa abbandonata all’indietro e gli occhi fissi sulle foglie verdi, immobili nella calura di quel giorno d’estate. Accanto a lui, piano piano, arrivarono L, Mello e Matt. Sedettero al suo fianco e rimasero per un po’ in silenzio. L teneva in mano un accendino e nell’altra i Death Note di Noodle e di Light Yagami. Li porse a Near. “Sai benissimo che sei ancora in tempo, potremmo cancellare il tuo nome senza sforzo.”
Poco opportunamente, Ryuk si intromise. “Ho qui la gomma se cambi idea, Nate”, e così dicendo tirò fuori dal tascapane una normalissima gomma bianca, leggermente consumata agli angoli.
Near scosse la testa, e invece prese in mano il Death Note di Noodle e l’accendino. “Bruceremo il nome di Light Yagami assieme a questo quaderno, così non potrà più tornare.”
“Siccome hai fatto lo scambio degli occhi, moriresti presto anche se il tuo nome non fosse scritto, Near. Ma una volta morto si potrebbe strappare il foglio con il tuo nome prima di bruciarli!”, osservò Ryuk. “Solo il tuo, così potresti tornare…”
“No”, ripeté Near. “Non è giusto riportare in vita i morti, è contro natura.”
“Ma non dovresti nemmeno andartene così, anche questa morte è contro natura”, osservò Matt. Near lo guardò in viso, poi scosse la testa. “Come vuoi…”
Near mise i due quaderni a terra, in uno spiazzo di terra battuta dove le fiamme non avrebbero potuto alimentarsi. Accese il fuoco e lo appiccò. Lentamente, di fronte a loro, i due quaderni iniziarono a bruciare. Il fuoco crebbe in poco tempo e il fumo che emanava aveva il puzzo acre e soffocante di qualcosa di marcio. Il calore sprigionato dalle fiamme erano strano, non scaldava, e la sua luce era stranamente fredda sul viso dei ragazzi, che osservavano in silenzio.
Mello maledisse sé stesso per il dolore che avvertiva all’altezza del petto e della gola. Non voleva farsi vedere da Near, anche quella volta era come darla vinta a lui!
Delle volte aveva seriamente creduto di odiarlo, ma si rese conto solo allora che, al contrario, Near era prezioso come l’oro. Gli sarebbe mancata quella sfacciataggine tipica del ragazzo, che usava con lui solo per farlo arrabbiare. E quegli occhi luminosi e divertiti quando riusciva nel suo intento di farlo uscire dai gangheri. Near era sempre stato un ragazzo complicato, solo e taciturno e, forse anche a causa della sua intelligenza, un po’ lasciato da parte, perché un po’ troppo strano. Alla fine dei conti Mello era felice di averlo conosciuto, era fiero di essergli stato amico. Sì, perché questo erano, erano amici, anche se un genere di amici molto strano… amici-nemici. Ma era fiero perché un giorno avrebbe potuto dire di conoscerlo; lui era uno dei pochi a conoscere Near. Effettivamente le uniche persone a conoscere veramente Near quel giorno erano riunite tutte nello stesso punto. Mello era uno di loro e sapeva che cosa turbava il ragazzo, che cosa lo rendeva triste o preoccupato, sapeva come tirarlo su di morale, o per lo meno distrarlo. Il metodo migliore era fare finta di avercela con lui, far finta di prenderlo in giro, di essere irritato dalla sua presenza: cominciava uno scambio di battute -per altro vinte quasi sempre da Near- che per un po’ lo facevano pensare ad altro. Tutti e due sapevano che era solo un gioco, solo un modo per farlo più allegro, per togliergli dalla mente quei brutti pensieri che a volte lo riempivano e gli soffocavano il respiro.
Ad un tratto un pensiero terribile -un pensiero orrendo- invase Mello, e lo fece tremare di paura. Near non è mai riuscito a dimenticare la sua vecchia vita.
Il dolore alla gola di Mello si era fatto più forte, quello al petto era diventato come un tamburellare sordo, che sarebbe continuato assieme al suo cuore finché non avesse smesso di battere.
Non voleva farsi vedere da Near, sarebbe stata come dargliela vinta ancora una volta… Per questo motivo, quando una lacrima sfuggì agli occhi di Mello, il ragazzo si voltò infastidito per non farsi vedere.

Quando Mello si volse di scatto dalla parte opposta a Near, come se ce l’avesse con lui, di nuovo come se avessero litigato per qualcosa, Matt registrò il fatto con una parte della mente, in modo meccanico.
Era come se il suo cervello fosse intorpidito, come quando stava per arrivare il formicolio alle gambe ma ancora non veniva, e ad ogni movimento gli sembrava che quegli arti non fossero i suoi, che fossero separati dal suo corpo. Era esattamente così che si sentiva: separato dal corpo, separato da tutto in realtà. Era come se ciò che stava vivendo stesse capitando ad un altro, un altro Matt, uno diverso da lui.
Senza capire niente di ciò che gli succedeva intorno, Matt guardò Near. Lo fissava, mentre il ragazzo guardava il fuoco bruciare, gli occhi ipnotizzati dal danzare delle fiamme. Matt, invece, era ipnotizzato dal suo volto.
In quell’istante si rese conto di quanto Near fosse giovane, e bello, e intelligente. Si rese conto che lui possedeva tutte queste qualità e si domandò come mai una persona così speciale, una così fortunata e strabiliante, fosse lì con lui in quel momento. Forse era così che andavano le cose. Era semplicemente questo lo schema con cui si svolgevano, lo schema deciso da Dio, o da chi per lui comandava. La regola era semplice: persone troppo speciali non potevano restare per molto in questo universo.
Matt non aveva mai creduto in Dio, nel Diavolo, nell’Aldilà e in tutte quelle cose. Le considerava sciocchezze per persone troppo deboli, per persone che sentivano il bisogno di votare l’anima a qualcosa, o qualcuno. Sciami di deboli che si illudevano di poter vivere anche dopo la morte. Non lo aveva mai creduto, no, ma in quel momento sperò con forza che invece fosse il contrario. Che il debole fosse lui perché non era riuscito a credere incondizionatamente, senza prove. Se così fosse stato per lo meno significava che Near sarebbe andato fra i beati, fra le braccia di San Pietro e del Signore stesso! Perché? Perché era impossibile che fosse altrimenti. Lui era Near, era quello speciale, era quello che, per qualche strano gioco della sorte, aveva tutto e niente.
Lui era intelligente ma triste, giovane ma disperato, bello ma solo. Vivo. Ma morto.
Matt era sicuro che Near non fosse mai stato del tutto fra i vivi. Una parte di lui se n’era andata nell’incidente di quando aveva appena sette anni, al quale non era nemmeno presente. Matt desiderò ancora che non fosse così, che in fondo Near avesse vissuto una vita bella, piena, felice. In quel momento Mail desiderò molte cose, ma non seppe mai se i suoi desideri fossero reali, se quel che desiderava fosse successo davvero.
Near era bello, giovane e aveva un gran cervello. E ancora un minuto di vita.

Nella mente di L si accavallavano immagini su immagini. Pensieri, scritte, sentimenti, cose che aveva visto, cose che avrebbe voluto vedere, persone che aveva incontrato, fatti, date, libri lasciati a metà, sogni, sorrisi. Tutto si accavallava con una velocità che lui non riusciva a controllare e che lo lasciò per un secondo stordito.
Quando il detective si riscosse il suo sguardo cadde sul fuoco. Bruciava, e la danza intricata delle fiammelle catturava il suo sguardo. Pensò che voleva guardare l’orologio, vedere quanti minuti -o secondi- di vita rimanevano a Near. Per tutto il tempo che guardò il fuoco ebbe l’impulso di mettere la mano in tasca e guardare l’ora. Ma non lo fece.
Era come se il suo braccio fosse troppo pesante. Non aveva voglia di alzarlo, di compiere il movimento, di sentire la mano passare delicatamente attraverso la stoffa dei jeans, di afferrare il cellulare freddo. Di rendersi conto di come il tempo scorresse veloce e crudele, beffandosi di loro. Scorreva più veloce quando avevano ancora tanto da fare, e tremendamente lento quando aspettavano qualcosa. Seppur fosse qualcosa di terribile.
L Lawliet non aveva mai pensato a quanti orfani ci fossero al mondo. Sapeva che erano molti. E sapeva anche che un consistente numero era assurdamente dotato di capacità intellettive superiori alla media. La Wammy’s House era sempre stata per lui un luogo quasi sacro, forse perché fin da piccolo lo aveva ospitato e, nonostante le ore buie e tristi, nonostante i visi fintamente allegri dei compagni che vedeva ogni giorno, quel posto gli piaceva. Era calmo, distendeva i nervi, e soprattutto in quel luogo c’erano persone come lui. Non persone geniali, non persone intelligenti no, non intendeva quello. Alla Wammy’s House c’erano bambini orfani. C’erano bambini soli.
Molte volte L aveva peccato di superbia, ritenendosi migliore di altri, ma non lo aveva mai fatto alla sua Wammy’s House, nemmeno con il più piccolo dei bimbi. Sentiva come se un destino comune li unisse tutti, loro, gli orfani della Wammy’s House. Li sentiva suoi pari.
Il fatto che ci fosse una graduatoria fra loro, e quella specie di assurda gara per divenire il miglior detective del mondo, non era che una farsa, un modo per spronarli sempre di più, incentivare il loro intelletto e insegnare loro cose che in altri istituti non avrebbero potuto apprendere, e in pochi l’avevano preso sul serio. Effettivamente, chi l’aveva presa davvero sul serio, erano stati Near e Mello. Gli altri bambini avevano priorità diverse, volevano frequentare Harvard, diventare scienziati o, meglio ancora, astronauti e ballerine. L preferiva di gran lunga che un bambino gli dicesse che voleva diventare un calciatore piuttosto che il suo erede. Questo perché sapeva bene quali sacrifici comportava diventare L. La solitudine. Una solitudine che avrebbe volentieri risparmiato a tutti quei bimbi, che potevano ancora anelare ad un futuro migliore di com’era stata la loro infanzia.
Secondo L era sempre stata una specie di ironia della sorte che il primo e il secondo nella graduatoria fossero i più interessati a quel ruolo, mentre gli altri bambini, sebbene a molti piacesse l’idea, lasciavano perdere al massimo dopo qualche anno, e pensavano ad altri e più genuini interessi.
L Lawliet era profondamente dispiaciuto per Near: non sarebbe mai potuto diventare L. Forse, solo per accontentarlo e per far sì che tutti i suoi sacrifici non fossero stati vani, avrebbe ceduto il posto a Mello. Lui, d'altronde, aveva già deciso che non voleva più essere L, il detective. Preferiva essere piuttosto L Lawliet, lo scrittore.
L Lwaliet alzò lo sguardo su Near. Quasi si sentiva dispiaciuto, come se gli avesse mentito, come se gli avesse promesso il paradiso per poi strapparglielo dalle mani. Sospirò, e abbassò lo sguardo.
Non controllò l’ora.

All’improvviso, Near capì come dovevano essersi sentiti i suoi genitori, quando era nato. Una pace si impossessò della sua anima con fermezza, ma in modo delicato. E allo stesso tempo una leggera inquietudine, la paura di non sapere che cosa ci aspetta dopo, lo avvolse. Ma Near non aveva paura.
Aveva sempre pensato che la sua vita era stato un funesto racconto fin dal principio. La morte dei suoi genitori, la Wammy’s House, la solitudine, l’essere stato preso di mira dagli altri bambini. L’essere stato picchiato più e più volte da Mello. Ad un tratto si riscosse e proprio quell’ultimo pensiero gli fece ribaltare completamente il suo punto di vista. C’era dell’altro nella sua vita. C’erano i suoi genitori, con tutto il bene che gli avevano voluto, poi c’erano Mello e Matt che, sebbene portassero avanti contro di lui una simbolica crociata, erano lì in quel momento, poi c’era L il suo beniamino, che non lo aveva mai deluso. E, ultima, ma non per questo meno importante, c’era Georgie, che gli aveva fatto ricordare esattamente com’era essere bambini. Georgie, che non era mai giù di morale, che vedeva sempre il lato positivo in tutto. Con lei aveva giocato, aveva riso, e si era reso conto di tutto il tempo che aveva perso da bambino, alla Wammy’s House. Essere bambini capita una sola volta nella vita e la si deve sfruttare al massimo. Near si era reso conto di aver avuto una seconda possibilità assieme a Georgie, e la ringraziò per quello che era stata capace di donargli. Era lei che aveva reso la sua visione del mondo diversa, migliore, lo aveva influenzato. E per di più gli aveva voluto bene, così come ne aveva voluto Near a lei.
Mentre i quattro ragazzi si stringevano ancora di più l’uno all’altro, come se tremassero dal freddo nonostante il sole di Luglio, i due Death Note -gli unici sulla terra- si convertivano in cenere, e nulla più restava di loro.
Nessuno si accorse di quando Ryuk, lo Shinigami, se ne andò silenziosamente osservando con fierezza e una luce ironica negli occhi gli umani seduti stretti vicino al grosso albero. Tese le ali senza fare rumore e spiccò il volo. Nessuno poteva più vederlo.
Nate River, o meglio Near, osservò le ultime fiammelle. Un’ondata di caldo e felicità lo raggiunse, e lui chiuse gli occhi con il sorriso sulle labbra, esalando l’ultimo respiro della sua vita.
Near si spense, assieme al fuoco di fronte a lui.




















Allora, buon salve a tutti e spero che abbiate capito cos'è successo: quando Near ha fatto lo scambio degli occhi e ha letto i nomi di tutti quanti, semplicemente li ha solo letti, e infatti mi sono curata di non dire che lui stesse scrivendo quei nomi. Inoltre, nello scorso capitolo, avevo detto che Near sarebbe morto il 12 Luglio, ma muore il 2 perché dopo lo scambio degli occhi la sua vita è dimezzata. Io lo scrivo perché non si sa mai, all'inizio nemmeno a me è venuto in mente e ho cambiato la data in un secondo momento. Tutto chiaro? Spero di sì. Nel caso qualcuno avesse delle perplessità ditemelo, sarò lieta di rispondere! ^^
Ho deciso che Light sarebbe impazzito alla fine, perché mi è sempre sembrato fattibile. Insomma, il Death Note lo cambia, perché il Light che era all'inizio della storia originale è diverso da quel che è diventato alla fine. E la cosa che lo ha fatto cambiare è il Death Note, è per questo che ho fatto questa sceneggiata! xD Devo dire che è stato anche divertente, io odio Light! Ahah!
Poi, spero che questo capitolo, che è all'85% introspezione, non vi abbia annoiato più di tanto.

Vi lascio lo spoiler del prossimo capitolo, che sarà anche l'ultimo. Un capitolo/epilogo che rivelerà le ultime due domande rimaste nella storia (una delle quali è la più interessante, ossia: chi cavolo ha resuscitato Light?) e ci spiegherà che cosa ne è stato dei nostri protagonisti.

A parte questo, voglio ringraziare AliYe, che ha segnalato la storia all'amministrazione per essere inserita fra le scelte dela sezione di Death Note. Ancora grazie mille per questa opportunità!

Non so che altro dire, insomma, domenica prossima sbrodolerò parole zuccherose da ogni sillaba perché è l'ultimo capitolo, quindi per oggi ve le risparmio!
Ciao a tutti,
Patrizia
   
 
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