026
- The
Scars I Bear
«Zetsu,
potresti portarmi qui Shikamaru?»
«Shikamaru?
Chi è?»
«È
il ragazzo con il codino e i capelli castani». Zeus
stava seduto nel letto con la schiena appoggiata ai cuscini, lo sguardo
già più
lucido e fermo. Negli occhi, però, nonostante la ripresa
avvenuta, permaneva
un'ombra cupa di tristezza, che difficilmente si poteva ignorare o
confondere
con una stanchezza che, Zetsu lo sapeva, sarebbe stata più
che giustificata in
una situazione come quella.
«Vado».
Si
sollevò dalla sedia su cui si era seduto, le gambe
aggranchite per l'eccessiva immobilità, poi uscì
nel corridoio; non appena aprì
la porta della stanza in cui erano alloggiati gli ospiti,
si trovò puntate addosso cinque paia d'occhi che,
di primo
acchito, non sembravano affatto contente di vederlo.
«Notevole
che vi siate ricordati di noi...» fece la
ragazza bionda «... visto e considerato che stiamo morendo di
fame».
«Dovete
perdonarci,» la voce di Zetsu, falsamente
accondiscendente, causò un moto di stizza nella donna
«ma ci sono successe cose
poco piacevoli nelle ultime ore, e non siamo riusciti ad occuparci di
voi. Farò
in modo che vi sia portato da mangiare e da bere... e suppongo che
avrete
bisogno di andare in bagno, giusto? Tu, però, adesso vieni
con me». Indicò
Shikamaru, che gli rivolse un'occhiata confusa. Poi si alzò
e, silenzioso,
varcò la porta che Zetsu teneva aperta.
«Perché
questa cosa?» Domandò, mentre camminavano
verso la stanza di Zeus.
«Non
lo so... suppongo che il Prototype voglia
parlarti».
«A
proposito della confusione che abbiamo sentito?»
«È
probabile. Non vi hanno detto nulla su quello che è
successo, vero?»
«No.
Qualcosa di particolarmente grave?»
«Deidara
è morto».
Shikamaru
si bloccò nel mezzo del corridoio, le
braccia lungo i fianchi e lo sguardo incredulo. Guardò il
viso di Zetsu, che
non sembrava tradire emozioni di sorta, poi deglutì; sentiva
improvvisamente
caldo.
«Non
stai scherzando». Concluse poi, scuotendo la
testa «E questa è definitivamente la peggior
situazione in cui potessi
capitare».
Zetsu
non chiese il perché - non gli interessava,
aveva ben altro di cui occuparsi - e riprese a muoversi. Shikamaru,
silenzioso,
lo seguì fino alla camera del Prototype.
«Zeus
è molto debole, ma ti consiglio di non
irritarlo. È un momento piuttosto delicato, per
lui».
Nara
colse l'avvertimento e ringraziò con un cenno del
capo, poi appoggiò una mano sulla maniglia della porta;
quando l'abbassò e
spinse, gli sembrò che davanti a lui si spalancasse la porta
di un limbo.
Il
Prototype stava sdraiato sul materasso, la testa
affondata tra i cuscini, e lo fissava con uno sguardo che, nonostante
fosse
segnato da profonde occhiaie scura, restava vigile e attento; il viso
era
disteso, apparentemente sereno, ma nell'aria Shikamaru
avvertì un'inquietudine
che gli fece correre una serie di brividi poco piacevoli lungo la spina
dorsale. Ignorando quell'ultimo, disperato segnale del suo istinto, si
avvicinò
al letto e, a fatica, atteggiò l'espressione del volto ad
una smorfia tranquilla
e controllata.
«Tu
e Deidara avete fatto delle ricerche insieme, non
è vero?»
Ecco,
sapeva che prima o poi quel momento sarebbe
arrivato. Il cliché finale di quel pessimo film che era
stata la sua
"avventura" di Manhattan; peccato che, a differenza di quanto sarebbe
probabilmente successo in un film, Shikamaru non avesse la
possibilità di
salvarsi con qualche stratagemma brillante, o con un discorso sagace.
«S-sì».
"Sono
nella completa merda".
«Che
avete scoperto? Sono certo che Deidara mi avrebbe
informato, se aveste trovato qualcosa di importante, ma visto quello
che è
successo ho bisogno di sapere fino a che punto siete
arrivati».
Nara
deglutì, per la prima volta dopo tanto tempo in
seria difficoltà, intimorito dal suo interlocutore. Non
sapeva che fare: la
verità era troppo tremenda e basata su supposizioni per
raccontarla a Zeus,
senza contare che, a quanto pareva, Deidara aveva realmente scoperto
qualcosa
di grosso e l'aveva nascosto al
Prototype. Dire che si sarebbe incazzato di brutto era parlare per
eufemismi.
Optare
per una menzogna pacificatrice, altresì, era
impensabile. Non aveva nessuna voglia di finire sul menu della base,
Shikamaru,
ed era abbastanza furbo per capire che, se mai Zeus l'avesse scoperto -
e l'avrebbe scoperto, vista la sua
buona
stella nell'ultimo periodo - l'avrebbe fatto a pezzi con le proprie
mani.
Non
poteva permettersi di rischiare troppo.
«Io...
ecco... abbiamo effettivamente trovato...
trovato delle informazioni».
«Di
che tipo? Sappiamo chi è Elizabeth Greene?»
Il
fatto che Zeus avesse usato la prima persona
singolare non era affatto rassicurante; Shikamaru aveva già
capito
perfettamente di che tipo di persona si trattava: fiducioso a priori in
tutti,
terribilmente pericoloso quando veniva tradito, e forse proprio per
questo non
gli faceva affatto piacere essere oggetto di tanta fede.
«Ecco...
non proprio. Cioè, lo sappiamo, ma il punto è
che...»
«Parla,
tranquillo...» Zeus lo interruppe con un
sorriso conciliante «... non ti mangio mica, sai?»
Su
questo Shikamaru aveva dei seri dubbi.
Deglutì,
più spaventato che altro da quelle parole, e
cercò di riafferrare il filo del discorso, ormai
irreparabilmente perso.
«Il
punto è che non riusciamo a spiegarci delle...
cose».
«Non
ti preoccupare, vai con calma. Potrai sempre completare
le ricerche insieme a qualcun altro, ma per adesso voglio sapere a che
punto
siamo arrivati».
La
gentilezza di Zeus metteva Nara nella tipica
situazione di chi vorrebbe avere una scusa per mentire al proprio
interlocutore, ma si sente in colpa anche al solo pensiero di farlo, di
fronte
alla magnanimità dimostrata da quest'ultimo. "E
se lo danneggiasse?" pensò, osservando per qualche
secondo il viso stanco del Prototype "La
situazione è delicata, eppure..."
Eppure,
nascondergli tutto avrebbe potuto arrecargli
danni ancora peggiori.
Come
suo solito, Shikamaru ritenne più opportuno
optare per una mezza verità.
«Elizabeth
Greene è il... risultato,
se così vogliamo chiamarlo, di una serie di esperimenti
che furono finanziati dall'esercito nel 1960. In un villaggio
dell'Idaho, Hope,
fu iniettato alle persone un ceppo virale mutante... la gente credeva
si
trattasse di vaccini. Non sappiamo né come né
perché, ma la Greene ha
sviluppato la capacità di non invecchiare ed è
rimasta uguale fino ad oggi».
«Oh,
dovresti vedere che altro sa fare. Che ne è stato
di Hope?»
«Divorato
da un incendio, che suppongo sia stato
appiccato dai militari stessi. Il punto però è un
altro... al momento del
disastro, il 10 Ottobre, la Greene era incinta. Molto incinta, non so
se mi spiego...
il bambino, probabilmente, stava per nascere».
Zeus
pareva improvvisamente interessato: corrugò le
sopracciglia, gli occhi più attenti di prima; Shikamaru lo
notò, e il suo primo
impulso fu quello di tapparsi la bocca all’istante.
«E
che fine ha fatto il bambino? Lo avete scoperto?»
«È...
è morto».
«Mh.
Basta così?»
«Sì.
Ignoriamo quale fosse lo scopo dell'arma
biologica che hanno tentato di creare».
«Capito.
Be', grazie per queste informazioni... mi
aspettavo che la Greene fosse diventata un mostro a causa
dell'esercito, ma non
credevo che l'America avrebbe mai appoggiato lo sterminio di un intero
villaggio».
«Potrò
continuare a cercare?»
«Sì...
non da solo, ovviamente. Vedrò se qualcuno dei
nostri vuole darti una mano».
Shikamaru
annuì, poi fece per uscire. Sulla porta,
all'improvviso, si voltò, ricordando un particolare che,
repentino, gli era
venuto in mente.
«Un'ultima
cosa...» disse, rivolgendosi al Prototype;
quello lo fissava ancora, scrupolosamente, come ipnotizzato, forse
cercando di
capire se gli avesse nascosto qualcosa - peccato che i suoi poteri
funzionassero soltanto con gli infetti, e non con gli umani sani.
«Parla».
«Il
vero nome di Elizabeth Green è...»
indugiò per
qualche secondo, sperando di ricordarlo bene «... Kushina
Uzumaki».
Zeus
impallidì.
***
La
prima volta che aveva assorbito qualcuno, il dolore era stato atroce.
Ricordava
ancora la sensazione strana e piacevole allo stesso tempo che
aveva provato quando, conficcando il braccio nel corpo stanco di un
senzatetto,
la sua essenza vitale si era infiltrata nelle vene dell'uomo, e dal suo
corpo
erano sbucata, famelica, una rete di filamenti neri e rossicci che, in
pochi
secondi, aveva inglobato l'intero corpo, fagocitandolo.
Immediatamente
dopo l'assorbimento, aveva provato un piacere puro,
indescrivibile, e una sensazione di energia pura che gli scorreva per
le vene,
rinfrancandolo. Per giorni aveva vagato tra i vicoli di New York,
spaurito e
macilento, affamato senza saper bene di cosa, finché
l'istinto non lo aveva
portato a quel gesto.
Il
dolore ci mise qualche secondo per arrivare.
Lo
colse impreparato, violento come una stilettata nel cranio; si
piegò
sulle ginocchia, Zeus, ansimando pesantemente e stringendosi la testa
tra le
mani, quasi sperasse di cancellare quella fitta improvvisa chiudendosi
su sé
stesso. Ma la fitta non passò e, anzi, crebbe
d'intensità fino a intontirlo,
annientandolo. Cadde a terra, il capo abbandonato tra l'immondizia e le
pozzanghere.
In
quel momento, vide la prima immagine.
Oscurando
del tutto il suo campo visivo, gli si presentò davanti un
paesaggio a lui completamente sconosciuto: enormi distese ondulate,
coperte di
verde, si stendevano in ogni dove davanti ai suoi occhi, rosseggianti
sotto i
raggi di un sole prossimo al tramonto. Una voce chiamò un
nome che Zeus non
conosceva, eppure, manovrata da qualcun altro, la sua testa si
voltò, giusto in
tempo per guardare il volto bello e delicato di una giovane ragazza
bionda.
Come
per magia, quella visione si dissolse improvvisamente, subito
sostituita da un'altra; ed ecco che davanti agli occhi del Prototype,
nell'arco
di pochi secondi, si spiegarono, in rapida successione, frammentari
fotogrammi
della vita dell'uomo che aveva assorbito. Non era tutto, ma
bastò perché Zeus
capisse cosa stava accadendo; nonostante ciò, non
tentò di contrastare quel
processo, che, anzi, gli parve improvvisamente naturale, quasi divertente.
Quando
le immagini svanirono, si ritrovò sdraiato per terra, una
guancia
premuta sull'asfalto umido e caldo. Un sorriso estatico gli correva da
una
parte all'altra del viso.
Oh,
se aveva capito.
Rialzandosi
in piedi, spazzolandosi i pantaloni laceri con le mani,
sentì
fluire nel suo corpo un nuovo tipo di sicurezza, sottile e melliflua
come il
sapore dolciastro di un potente veleno. La consapevolezza di aver
ucciso un
uomo non lo toccava minimamente - nella sua ottica, nella sua fame, era
naturale cibarsi di ciò che l'istinto gli suggeriva -
mentre, con la forza di
una deflagrazione, aveva compreso l'enorme potenziale della
capacità appena scoperta.
Possedeva
una finestra sui
loro piani, un'arma che gli avrebbe
permesso di sconfiggerli. Doveva soltanto mangiarne degli altri, e
avrebbe
conosciuto in anticipo ogni loro mossa, leggendola direttamente dai
ricordi -
una sorgente che, a differenza delle parole, non contemplava menzogna.
Loro, gli uomini
vestiti di nero, in quei giorni lo avevano cercato. Mentre la
città cambiava e
si accartocciava su sé stessa, mentre enormi nuvole di
vapori rossi coprivano i
grattacieli e strane creature barcollanti, coperte di sangue rosso,
cominciavano a comparire per le strade - proprio allora Zeus,
respirando
quell'aria putrida e sentendosi a casa in un modo strano, piacevole, si
rifugiava nei luoghi più bui e solitari per evitare di
essere trovato. Sapeva,
grazie alle sue pulsioni ancestrali, che, se mai gli si fossero
presentati dei
reali pericoli, lui avrebbe saputo affrontarli.
Altresì,
leggeva la paura negli occhi degli uomini, quando lo incontravano,
e comprendeva che la sua gioia e il loro terrore nascevano dalla
medesima
fonte, ed erano entrambi completamente giusti.
A
poco a poco, stava imparando la vita.
*
Aveva
scelto di provare il suo metodo su un tipo importante.
Lo
aveva visto spesso recarsi al grande palazzo da cui lui era scappato,
chiuso in una di quelle brutte, lente gabbie di metallo che si
chiamavano
"elicotteri". Lo aveva spiato mentre si aggirava attorno agli alveari
con un grosso seguito di uomini corazzati, lui che con il suo camice
bianco
spiccava incredibilmente in quel caos di terra rossa e uniformi nere;
aveva
capito il suo status dal modo in cui camminava, dal tono aspro che la
sua voce
assumeva quando parlava con qualcun altro e dal grande impegno che gli
altri
umani mettevano nel proteggerlo.
Aveva
aspettato con pazienza che l'elicottero gli arrivasse sulla testa,
dove sapeva che sarebbe passato; aveva spiccato un balzo poderoso,
sollevandosi
fino ad un'altezza di quasi venti metri, poi aveva proteso il braccio,
mutato
in frusta, verso l'alto.
Gli
esseri umani volavano troppo bassi.
La
frusta si era avvolta con uno schiocco sonoro sulla coda del mezzo, e
le
spine nere si erano conficcate nel metallo, deformandolo. Quando era
atterrato
sul portellone, reggendosi alle minime sporgenze sulle lamiere che
custodivano
l'abitacolo, gli occupanti avevano cominciato a gridare; non che fosse
servito
a molto. Aveva afferrato il suo obiettivo mentre il sangue del pilota
ancora
colava sul quadro dei comandi, fluendo lento dal cranio spaccato, e lo
aveva
trafitto da parte a parte con violenza. Quello che vide poi, non
l'avrebbe più
dimenticato.
Superato
il dolore, ormai diventato una consuetudine dell'assorbimento, gli
si presentò un'immagina nota e sconosciuta insieme: davanti
a lui c'era un
vetro dall'apparenza spessa, perfettamente pulito e lucido. Oltre il
vetro,
steso su un lettino di metallo con un'incalcolabile serie di macchinari
tutt'intorno, stava un ragazzo dall'aspetto inconfondibile.
Lui,
semplicemente.
Sembrava
che respirasse, ma non compiva il minimo movimento; su uno
schermo, a qualche passo di distanza da lui, una linea che si
increspava
regolarmente segnava i battiti del suo cuore.
La
sensazione di guardare se stesso era davvero strana, lo faceva sentire
confuso - specialmente considerando che quella parte della sua vita lui
non la
ricordava nemmeno. Ad ogni modo, il ricordo doveva appartenere ad un
periodo
estremamente vicino alla sua fuga, visto che il suo corpo era identico
al
presente e indossava persino la stessa vestaglia da ospedale. Forse
addirittura
poche ore prima.
«A
volte mi chiedo cosa sogna... se sogna». Fu qualcun altro a
parlare,
forse un collega.
La
sua voce, più bassa e mascolina del solito, rispose con tono
pacato.
«Credi
che gli animali sognino? Se è così, anche Zeus
sogna».
«Ma...»
la voce del collega tremò leggermente; dunque, era un suo
subordinato «... un tempo lui era... voglio dire, un essere
umano normale, no?»
«Certo,
lo era. Ti hanno detto come si chiamava?»
«No.
Lui era di...»
«No,
figurati. Di quel posto c’è una sola superstite, e
adesso si trova in
un laboratorio dieci piani più in basso di noi».
«Ma
allora da dove viene?»
«Che
vuoi che ne sappia... i capoccia non ci danno questo tipo di
informazioni, dovresti saperlo. Sarà una cavia come tante,
uno di quei figli di
nessuno che vengono pescati per strada o venduti dai genitori alle
aziende come
la nostra... comunque, vuoi sapere come si chiama? Non sembra, ma
è
giapponese».
«Giapponese?
Sul serio?»
«Dal
nome si direbbe. Si chiama Naruto Uzumaki».
Prima
che la visione svanisse, a Zeus parve di cogliere un fremito nelle
palpebre del corpo adagiato sul lettino.
***
Orochimaru
aveva pensato che, dopo quel trambusto
improvviso, Zeus avesse predisposto un qualche sistema di difesa
davanti alla
propria base; quello che non si aspettava era la somma
ingenuità e stupidità
con cui questa barriera era stata
approntata.
Se
anche un estraneo non avesse conosciuto la reale
ubicazione del rifugio - com'era, d'altra parte, nel suo caso -
difficilmente
avrebbe potuto ignorare il gigante con la pelle di un'inequivocabile
sfumatura
azzurra che sostava davanti alla porta. Appoggiata svogliatamente ad
una
spalla, suddetto gigante aveva una spada di quello che sembrava osso,
bianco-giallognola, formata da centinaia di cuspidi sovrapposte.
Che
un tipo del genere non si trovasse lì per fare un
picnic era abbastanza lampante.
«Idioti».
Commentò, avvicinandosi con passi lunghi e
tranquilli al guardiano immobile. Aveva un aspetto davvero terribile,
oltre che
rozzo e arrogante; quando gli puntò contro la spada ed emise
un grido
strozzato, Orochimaru riconfermò questa impressione e vi
aggiunse quella di
negligenza.
Distratto,
evidentemente non lo aveva nemmeno sentito
arrivare.
«E
tu chi cazzo sei?»
«Uno
a cui dovete molto, credimi. Posso parlare con il
tuo capo?»
«Ti
ho chiesto chi cazzo sei, stronzo».
Orochimaru
sorrise, mellifluo, inclinando leggermente
la testa di lato; era evidente che quel bruto sulla porta non si
sarebbe mai
lasciato convincere con le parole, quindi qualsiasi interazione civile
andava
accantonata. L'unico problema era che rischiava di offendere Zeus,
ammazzando
uno dei suoi sottoposti, e poi non aveva molta voglia di sporcarsi le
mani con
della simile feccia.
«Non
credo che sapere il mio nome ti convincerebbe a
togliere questa cosa. A proposito,
potresti abbassarla?» Una delle tante punte che componevano
la spada ondeggiava
ad un soffio dal suo pomo d'Adamo, e non era piacevole vederla curvare
da
destra a sinistra in traiettorie via via più incerte.
«E
secondo te mi fido del primo che passa?! Potresti
essere chiunque!»
«Questo
è un ragionamento corretto, ma mi permetto di
farti notare avresti potuto usare altrettanta prudenza prima
ed evitare di segnalare la presenza del vostro rifugio in un
modo così plateale. Sei fortunato che io non sia un tuo
nemico, perché chiunque
saprebbe interpretare la tua presenza in questo luogo, e non passi di
certo
inosservato. Detto questo,» Orochimaru si sgranchì
le lunghe dita bianche,
continuando ad osservare, con la coda dell'occhio, il gigante blu
«dubito che
serva parlare ancora, giusto?»
Finse
di caricare un colpo con il braccio sinistro; il
guardiano, come previsto, affondò la spada in avanti,
gridando. Orochimaru
bloccò la punta della lama con due dita della mano destra,
poi fece un passo
indietro e, con un'unica mossa fluida, ruotando elegantemente il polso,
scaraventò la spada ad una decina di metri di distanza.
Quella si conficcò
nell'asfalto con un gran frastuono, vibrando leggermente, e Orochimaru
sfruttò
lo stupore momentaneo dell'avversario per rassettare una ciocca di
capelli sfuggita
all'ordine.
«Nessuno
mi aveva mai tolto di mano la Samehada...»
biascicò lo spadaccino, fissando la sagoma immobile piantata
nel cemento
grigio.
«"Pelle
di squalo"... come ti chiami,
guardiano? Credo di poter pretendere almeno il tuo nome».
«Kisame
Hoshigaki. Tu chi saresti?»
«Orochimaru.
Ti offro una possibilità di salvarti la
vita, Kisame: chiama il tuo capo e portalo qui in modo che io possa
parlarci.
Non sono un tuo nemico, non è nel mio interesse
ucciderti».
Kisame
annuì, palesemente a malincuore, poi si voltò
e, girandosi ogni tanto per controllare le mosse di Orochimaru,
sparì
all'interno di un magazzino; qualche minuto dopo ne uscì di
nuovo, seguito da
quello che pareva un ragazzino dall'aria particolarmente provata.
Se
anche Orochimaru non avesse chiesto espressamente
di vedere il capo, avrebbe saputo di trovarsi di fronte a Zeus.
Poteva
avere diciotto anni, non uno di più. Era magro,
basso e sottile, con la pelle leggermente scura e i capelli
innaturalmente
chiari, biondi come il grano; gli occhi, azzurri, lo fissarono con
un'aria
insospettita che gli suscitò un sorriso spontaneo. Le
occhiaie che li
circondavano e l'espressione abbattuta del Prototype, tuttavia, non
raccontavano una storia allegra.
«Sei
tu Zeus?»
«Sì,
sono io. Tu... tu sei quello di cui parlava
Sasuke. Tu mi hai salvato quando...»
«Quando
il tumore ti stava divorando. Ma non è a me
che devi la vita, Zeus, bensì a chi è con me...
qualcuno che è stato capace di
infiltrarsi sin dall'inizio nella vostra base e qualcun altro che ha
creato la
cura. È per quelle persone che io sono qui,
adesso».
Zeus
annuì, sospirò. C'era qualcosa nel suo
comportamento che faceva supporre a Orochimaru uno stravolgimento
profondo e
una tristezza il cui motivo gli sembrava oscuro; che derivassero dalla
stessa
cosa che aveva originato quel grido tremendo?
Per
diplomazia, scelse di tenere in conto ogni
possibilità.
«Ho
sentito l'urlo, come tutti in città. Una mossa
imprudente, da parte tua, ma, se non altro, ha avuto l'effetto di
spaventare i
militari... staranno tranquilli per un po'. Qualsiasi fosse la causa,
sono qui
anche per aiutarti a riparare il danno fatto».
«Uno
dei nostri compagni... uno dei miei più grandi amici è stato ucciso, e non
sappiamo
nemmeno da chi. L'unico testimone, Sasuke... a lui sono stati strappati
entrambi gli occhi. Siamo in un vicolo cieco, per il momento, e poi...
poi...
nulla, lascia stare».
Orochimaru
assottigliò lo sguardo, poi fece un gesto
ampio con la mano.
«Vieni,
camminiamo. Devo dirti molte cose, che forse
interessano anche i vostri problemi al momento... ci sono numerose
domande
ancora prive di risposte, e mi auguro che tu possa aiutarmi a
trovarle».
«Va
bene».
Lo
seguì con aria mesta, guardandolo ogni tanto con
quegli enormi occhi azzurri che sembravano sfuggirgli in continuazione;
a
Orochimaru non era capitato molto spesso, in vita sua, di vedere
sguardi che
esprimessero quel baratro di sentimenti contrastanti che turbinava
nelle iridi
di Zeus. Adombrate dalla stanchezza e da chissà quale
esperienza tremenda,
risplendevano al contempo di una luce vivida e forte, disperata e
caparbia.
E
poi, ovviamente, aveva notato la somiglianza.
Impossibile non vederla.
Eppure,
nemmeno lui riusciva a spiegarsi il perché;
ciò che vedeva, seppur ovvio, era del tutto privo di
giustificazioni.
«Sai
qualcosa di una certa Hope, in Idaho? Sai cosa
successe lì nel 1960?»
Si
sentì strattonare con forza un braccio, e girò il
capo in un moto di sorpresa. Il viso di Zeus era improvvisamente
così vicino al
suo che avrebbe potuto contare, una per una, le sue ciglia bionde.
«Devi
dirmelo. Tu devi
dirmelo, so che lo sai!»
«Sapere
cosa, Zeus?»
«Kushina
Uzumaki, o Elizabeth Greene, chiamala come ti
pare... lei è mia madre? Sono il figlio di quel
mostro?»
Orochimaru
sorrise. Se era lo stesso Zeus a fargli quella
domanda per primo, se anche lui era arrivato a quel punto investigando
da solo,
allora voleva dire che le supposizioni di Tsunade erano esatte, e che
il mistero,
tutt'altro che sciolto, si era almeno chiarito
in una sua minima parte.
«Sì».
"Quando
la maschera che indossiamo divora ciò che
custodisce, solo allora possiamo diventare noi stessi".
_Angolo
del Fancazzismo_
Questo
capitolo è stata una bella sudata, caprioleggiando
tra compiti in classe ed
interrogazioni di Greco (argh). Odio il quinto ginnasio, lo odio
davvero.
Ad
ogni modo, se pensate che quanto scoperto in questo
capitolo, alias il Segreto di Pulcinella,
sia la terribile rivelazione sul passato di Zeus, vi sbagliate di
grosso. Non
mi chiamo mica Kishimoto D:
Ci
siamo vicini, comunque. Molto vicini.
E,
una volta finita la noiosa parte burocratica,
potrò finalmente tornare a concentrarmi su una pulitissima
trafila di capitoli
splatter :3. Non vedo l'ora, guys.
Anche
perché, a furia di leggere fyccyne sul fandom di
Naruto, ho certi istinti omicidi da sfogare che nemmeno De Niro in Taxi
Driver.
See
you soon,
Roby