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Autore: GreedFan    01/11/2011    7 recensioni
Il virus Idra non è una semplice malattia.
E' un vero e proprio incubo.
L'infezione dilaga nell'isola di Manhattan, trasformando i contagiati in aberrazioni assetate di sangue, e, mentre le autorità sanitarie di tutto il mondo si arrovellano per trovare una soluzione, una sola figura si erge al di sopra di tanta degradazione.
Zeus.
Un infetto più potente degli altri o un semplice scherzo della natura? La società "Eden" non può di certo immaginare quali saranno le conseguenze del suo gesto, quando tenterà di creare un'arma biologica in grado di contrastarlo.
E Sasuke Uchiha, l'arma biologica in questione, non ha la minima idea dell'incubo in cui si sta gettando.
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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026 - The Scars I Bear

 

«Zetsu, potresti portarmi qui Shikamaru?»

«Shikamaru? Chi è?»

«È il ragazzo con il codino e i capelli castani». Zeus stava seduto nel letto con la schiena appoggiata ai cuscini, lo sguardo già più lucido e fermo. Negli occhi, però, nonostante la ripresa avvenuta, permaneva un'ombra cupa di tristezza, che difficilmente si poteva ignorare o confondere con una stanchezza che, Zetsu lo sapeva, sarebbe stata più che giustificata in una situazione come quella.

«Vado».

Si sollevò dalla sedia su cui si era seduto, le gambe aggranchite per l'eccessiva immobilità, poi uscì nel corridoio; non appena aprì la porta della stanza in cui erano alloggiati gli ospiti, si trovò puntate addosso cinque paia d'occhi che, di primo acchito, non sembravano affatto contente di vederlo.

«Notevole che vi siate ricordati di noi...» fece la ragazza bionda «... visto e considerato che stiamo morendo di fame».

«Dovete perdonarci,» la voce di Zetsu, falsamente accondiscendente, causò un moto di stizza nella donna «ma ci sono successe cose poco piacevoli nelle ultime ore, e non siamo riusciti ad occuparci di voi. Farò in modo che vi sia portato da mangiare e da bere... e suppongo che avrete bisogno di andare in bagno, giusto? Tu, però, adesso vieni con me». Indicò Shikamaru, che gli rivolse un'occhiata confusa. Poi si alzò e, silenzioso, varcò la porta che Zetsu teneva aperta.

«Perché questa cosa?» Domandò, mentre camminavano verso la stanza di Zeus.

«Non lo so... suppongo che il Prototype voglia parlarti».

«A proposito della confusione che abbiamo sentito?»

«È probabile. Non vi hanno detto nulla su quello che è successo, vero?»

«No. Qualcosa di particolarmente grave?»

«Deidara è morto».

Shikamaru si bloccò nel mezzo del corridoio, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo incredulo. Guardò il viso di Zetsu, che non sembrava tradire emozioni di sorta, poi deglutì; sentiva improvvisamente caldo.

«Non stai scherzando». Concluse poi, scuotendo la testa «E questa è definitivamente la peggior situazione in cui potessi capitare».

Zetsu non chiese il perché - non gli interessava, aveva ben altro di cui occuparsi - e riprese a muoversi. Shikamaru, silenzioso, lo seguì fino alla camera del Prototype.

«Zeus è molto debole, ma ti consiglio di non irritarlo. È un momento piuttosto delicato, per lui».

Nara colse l'avvertimento e ringraziò con un cenno del capo, poi appoggiò una mano sulla maniglia della porta; quando l'abbassò e spinse, gli sembrò che davanti a lui si spalancasse la porta di un limbo.

Il Prototype stava sdraiato sul materasso, la testa affondata tra i cuscini, e lo fissava con uno sguardo che, nonostante fosse segnato da profonde occhiaie scura, restava vigile e attento; il viso era disteso, apparentemente sereno, ma nell'aria Shikamaru avvertì un'inquietudine che gli fece correre una serie di brividi poco piacevoli lungo la spina dorsale. Ignorando quell'ultimo, disperato segnale del suo istinto, si avvicinò al letto e, a fatica, atteggiò l'espressione del volto ad una smorfia tranquilla e controllata.

«Tu e Deidara avete fatto delle ricerche insieme, non è vero?»

Ecco, sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Il cliché finale di quel pessimo film che era stata la sua "avventura" di Manhattan; peccato che, a differenza di quanto sarebbe probabilmente successo in un film, Shikamaru non avesse la possibilità di salvarsi con qualche stratagemma brillante, o con un discorso sagace.

«S-sì».

"Sono nella completa merda".

«Che avete scoperto? Sono certo che Deidara mi avrebbe informato, se aveste trovato qualcosa di importante, ma visto quello che è successo ho bisogno di sapere fino a che punto siete arrivati».

Nara deglutì, per la prima volta dopo tanto tempo in seria difficoltà, intimorito dal suo interlocutore. Non sapeva che fare: la verità era troppo tremenda e basata su supposizioni per raccontarla a Zeus, senza contare che, a quanto pareva, Deidara aveva realmente scoperto qualcosa di grosso e l'aveva nascosto al Prototype. Dire che si sarebbe incazzato di brutto era parlare per eufemismi.

Optare per una menzogna pacificatrice, altresì, era impensabile. Non aveva nessuna voglia di finire sul menu della base, Shikamaru, ed era abbastanza furbo per capire che, se mai Zeus l'avesse scoperto - e l'avrebbe scoperto, vista la sua buona stella nell'ultimo periodo - l'avrebbe fatto a pezzi con le proprie mani.

Non poteva permettersi di rischiare troppo.

«Io... ecco... abbiamo effettivamente trovato... trovato delle informazioni».

«Di che tipo? Sappiamo chi è Elizabeth Greene?»

Il fatto che Zeus avesse usato la prima persona singolare non era affatto rassicurante; Shikamaru aveva già capito perfettamente di che tipo di persona si trattava: fiducioso a priori in tutti, terribilmente pericoloso quando veniva tradito, e forse proprio per questo non gli faceva affatto piacere essere oggetto di tanta fede.

«Ecco... non proprio. Cioè, lo sappiamo, ma il punto è che...»

«Parla, tranquillo...» Zeus lo interruppe con un sorriso conciliante «... non ti mangio mica, sai?»

Su questo Shikamaru aveva dei seri dubbi.

Deglutì, più spaventato che altro da quelle parole, e cercò di riafferrare il filo del discorso, ormai irreparabilmente perso.

«Il punto è che non riusciamo a spiegarci delle... cose».

«Non ti preoccupare, vai con calma. Potrai sempre completare le ricerche insieme a qualcun altro, ma per adesso voglio sapere a che punto siamo arrivati».

La gentilezza di Zeus metteva Nara nella tipica situazione di chi vorrebbe avere una scusa per mentire al proprio interlocutore, ma si sente in colpa anche al solo pensiero di farlo, di fronte alla magnanimità dimostrata da quest'ultimo. "E se lo danneggiasse?" pensò, osservando per qualche secondo il viso stanco del Prototype "La situazione è delicata, eppure..."

Eppure, nascondergli tutto avrebbe potuto arrecargli danni ancora peggiori.

Come suo solito, Shikamaru ritenne più opportuno optare per una mezza verità.

«Elizabeth Greene è il... risultato, se così vogliamo chiamarlo, di una serie di esperimenti che furono finanziati dall'esercito nel 1960. In un villaggio dell'Idaho, Hope, fu iniettato alle persone un ceppo virale mutante... la gente credeva si trattasse di vaccini. Non sappiamo né come né perché, ma la Greene ha sviluppato la capacità di non invecchiare ed è rimasta uguale fino ad oggi».

«Oh, dovresti vedere che altro sa fare. Che ne è stato di Hope?»

«Divorato da un incendio, che suppongo sia stato appiccato dai militari stessi. Il punto però è un altro... al momento del disastro, il 10 Ottobre, la Greene era incinta. Molto incinta, non so se mi spiego... il bambino, probabilmente, stava per nascere».

Zeus pareva improvvisamente interessato: corrugò le sopracciglia, gli occhi più attenti di prima; Shikamaru lo notò, e il suo primo impulso fu quello di tapparsi la bocca all’istante.

«E che fine ha fatto il bambino? Lo avete scoperto?»

«È... è morto».

«Mh. Basta così?»

«Sì. Ignoriamo quale fosse lo scopo dell'arma biologica che hanno tentato di creare».

«Capito. Be', grazie per queste informazioni... mi aspettavo che la Greene fosse diventata un mostro a causa dell'esercito, ma non credevo che l'America avrebbe mai appoggiato lo sterminio di un intero villaggio».

«Potrò continuare a cercare?»

«Sì... non da solo, ovviamente. Vedrò se qualcuno dei nostri vuole darti una mano».

Shikamaru annuì, poi fece per uscire. Sulla porta, all'improvviso, si voltò, ricordando un particolare che, repentino, gli era venuto in mente.

«Un'ultima cosa...» disse, rivolgendosi al Prototype; quello lo fissava ancora, scrupolosamente, come ipnotizzato, forse cercando di capire se gli avesse nascosto qualcosa - peccato che i suoi poteri funzionassero soltanto con gli infetti, e non con gli umani sani.

«Parla».

«Il vero nome di Elizabeth Green è...» indugiò per qualche secondo, sperando di ricordarlo bene «... Kushina Uzumaki».

Zeus impallidì.

 

***

 

La prima volta che aveva assorbito qualcuno, il dolore era stato atroce.

Ricordava ancora la sensazione strana e piacevole allo stesso tempo che aveva provato quando, conficcando il braccio nel corpo stanco di un senzatetto, la sua essenza vitale si era infiltrata nelle vene dell'uomo, e dal suo corpo erano sbucata, famelica, una rete di filamenti neri e rossicci che, in pochi secondi, aveva inglobato l'intero corpo, fagocitandolo.

Immediatamente dopo l'assorbimento, aveva provato un piacere puro, indescrivibile, e una sensazione di energia pura che gli scorreva per le vene, rinfrancandolo. Per giorni aveva vagato tra i vicoli di New York, spaurito e macilento, affamato senza saper bene di cosa, finché l'istinto non lo aveva portato a quel gesto.

Il dolore ci mise qualche secondo per arrivare.

Lo colse impreparato, violento come una stilettata nel cranio; si piegò sulle ginocchia, Zeus, ansimando pesantemente e stringendosi la testa tra le mani, quasi sperasse di cancellare quella fitta improvvisa chiudendosi su sé stesso. Ma la fitta non passò e, anzi, crebbe d'intensità fino a intontirlo, annientandolo. Cadde a terra, il capo abbandonato tra l'immondizia e le pozzanghere.

In quel momento, vide la prima immagine.

Oscurando del tutto il suo campo visivo, gli si presentò davanti un paesaggio a lui completamente sconosciuto: enormi distese ondulate, coperte di verde, si stendevano in ogni dove davanti ai suoi occhi, rosseggianti sotto i raggi di un sole prossimo al tramonto. Una voce chiamò un nome che Zeus non conosceva, eppure, manovrata da qualcun altro, la sua testa si voltò, giusto in tempo per guardare il volto bello e delicato di una giovane ragazza bionda.

Come per magia, quella visione si dissolse improvvisamente, subito sostituita da un'altra; ed ecco che davanti agli occhi del Prototype, nell'arco di pochi secondi, si spiegarono, in rapida successione, frammentari fotogrammi della vita dell'uomo che aveva assorbito. Non era tutto, ma bastò perché Zeus capisse cosa stava accadendo; nonostante ciò, non tentò di contrastare quel processo, che, anzi, gli parve improvvisamente naturale, quasi divertente.

Quando le immagini svanirono, si ritrovò sdraiato per terra, una guancia premuta sull'asfalto umido e caldo. Un sorriso estatico gli correva da una parte all'altra del viso.

Oh, se aveva capito.

Rialzandosi in piedi, spazzolandosi i pantaloni laceri con le mani, sentì fluire nel suo corpo un nuovo tipo di sicurezza, sottile e melliflua come il sapore dolciastro di un potente veleno. La consapevolezza di aver ucciso un uomo non lo toccava minimamente - nella sua ottica, nella sua fame, era naturale cibarsi di ciò che l'istinto gli suggeriva - mentre, con la forza di una deflagrazione, aveva compreso l'enorme potenziale della capacità appena scoperta.

Possedeva una finestra sui loro piani, un'arma che gli avrebbe permesso di sconfiggerli. Doveva soltanto mangiarne degli altri, e avrebbe conosciuto in anticipo ogni loro mossa, leggendola direttamente dai ricordi - una sorgente che, a differenza delle parole, non contemplava menzogna.

Loro, gli uomini vestiti di nero, in quei giorni lo avevano cercato. Mentre la città cambiava e si accartocciava su sé stessa, mentre enormi nuvole di vapori rossi coprivano i grattacieli e strane creature barcollanti, coperte di sangue rosso, cominciavano a comparire per le strade - proprio allora Zeus, respirando quell'aria putrida e sentendosi a casa in un modo strano, piacevole, si rifugiava nei luoghi più bui e solitari per evitare di essere trovato. Sapeva, grazie alle sue pulsioni ancestrali, che, se mai gli si fossero presentati dei reali pericoli, lui avrebbe saputo affrontarli.

Altresì, leggeva la paura negli occhi degli uomini, quando lo incontravano, e comprendeva che la sua gioia e il loro terrore nascevano dalla medesima fonte, ed erano entrambi completamente giusti.

A poco a poco, stava imparando la vita.

*

Aveva scelto di provare il suo metodo su un tipo importante.

Lo aveva visto spesso recarsi al grande palazzo da cui lui era scappato, chiuso in una di quelle brutte, lente gabbie di metallo che si chiamavano "elicotteri". Lo aveva spiato mentre si aggirava attorno agli alveari con un grosso seguito di uomini corazzati, lui che con il suo camice bianco spiccava incredibilmente in quel caos di terra rossa e uniformi nere; aveva capito il suo status dal modo in cui camminava, dal tono aspro che la sua voce assumeva quando parlava con qualcun altro e dal grande impegno che gli altri umani mettevano nel proteggerlo.

Aveva aspettato con pazienza che l'elicottero gli arrivasse sulla testa, dove sapeva che sarebbe passato; aveva spiccato un balzo poderoso, sollevandosi fino ad un'altezza di quasi venti metri, poi aveva proteso il braccio, mutato in frusta, verso l'alto.

Gli esseri umani volavano troppo bassi.

La frusta si era avvolta con uno schiocco sonoro sulla coda del mezzo, e le spine nere si erano conficcate nel metallo, deformandolo. Quando era atterrato sul portellone, reggendosi alle minime sporgenze sulle lamiere che custodivano l'abitacolo, gli occupanti avevano cominciato a gridare; non che fosse servito a molto. Aveva afferrato il suo obiettivo mentre il sangue del pilota ancora colava sul quadro dei comandi, fluendo lento dal cranio spaccato, e lo aveva trafitto da parte a parte con violenza. Quello che vide poi, non l'avrebbe più dimenticato.

Superato il dolore, ormai diventato una consuetudine dell'assorbimento, gli si presentò un'immagina nota e sconosciuta insieme: davanti a lui c'era un vetro dall'apparenza spessa, perfettamente pulito e lucido. Oltre il vetro, steso su un lettino di metallo con un'incalcolabile serie di macchinari tutt'intorno, stava un ragazzo dall'aspetto inconfondibile.

Lui, semplicemente.

Sembrava che respirasse, ma non compiva il minimo movimento; su uno schermo, a qualche passo di distanza da lui, una linea che si increspava regolarmente segnava i battiti del suo cuore.

La sensazione di guardare se stesso era davvero strana, lo faceva sentire confuso - specialmente considerando che quella parte della sua vita lui non la ricordava nemmeno. Ad ogni modo, il ricordo doveva appartenere ad un periodo estremamente vicino alla sua fuga, visto che il suo corpo era identico al presente e indossava persino la stessa vestaglia da ospedale. Forse addirittura poche ore prima.

«A volte mi chiedo cosa sogna... se sogna». Fu qualcun altro a parlare, forse un collega.

La sua voce, più bassa e mascolina del solito, rispose con tono pacato.

«Credi che gli animali sognino? Se è così, anche Zeus sogna».

«Ma...» la voce del collega tremò leggermente; dunque, era un suo subordinato «... un tempo lui era... voglio dire, un essere umano normale, no?»

«Certo, lo era. Ti hanno detto come si chiamava?»

«No. Lui era di...»

«No, figurati. Di quel posto c’è una sola superstite, e adesso si trova in un laboratorio dieci piani più in basso di noi».

«Ma allora da dove viene?»

«Che vuoi che ne sappia... i capoccia non ci danno questo tipo di informazioni, dovresti saperlo. Sarà una cavia come tante, uno di quei figli di nessuno che vengono pescati per strada o venduti dai genitori alle aziende come la nostra... comunque, vuoi sapere come si chiama? Non sembra, ma è giapponese».

«Giapponese? Sul serio?»

«Dal nome si direbbe. Si chiama Naruto Uzumaki».

Prima che la visione svanisse, a Zeus parve di cogliere un fremito nelle palpebre del corpo adagiato sul lettino.

 

***

 

Orochimaru aveva pensato che, dopo quel trambusto improvviso, Zeus avesse predisposto un qualche sistema di difesa davanti alla propria base; quello che non si aspettava era la somma ingenuità e stupidità con cui questa barriera era stata approntata.

Se anche un estraneo non avesse conosciuto la reale ubicazione del rifugio - com'era, d'altra parte, nel suo caso - difficilmente avrebbe potuto ignorare il gigante con la pelle di un'inequivocabile sfumatura azzurra che sostava davanti alla porta. Appoggiata svogliatamente ad una spalla, suddetto gigante aveva una spada di quello che sembrava osso, bianco-giallognola, formata da centinaia di cuspidi sovrapposte.

Che un tipo del genere non si trovasse lì per fare un picnic era abbastanza lampante.

«Idioti». Commentò, avvicinandosi con passi lunghi e tranquilli al guardiano immobile. Aveva un aspetto davvero terribile, oltre che rozzo e arrogante; quando gli puntò contro la spada ed emise un grido strozzato, Orochimaru riconfermò questa impressione e vi aggiunse quella di negligenza.

Distratto, evidentemente non lo aveva nemmeno sentito arrivare.

«E tu chi cazzo sei?»

«Uno a cui dovete molto, credimi. Posso parlare con il tuo capo?»

«Ti ho chiesto chi cazzo sei, stronzo».

Orochimaru sorrise, mellifluo, inclinando leggermente la testa di lato; era evidente che quel bruto sulla porta non si sarebbe mai lasciato convincere con le parole, quindi qualsiasi interazione civile andava accantonata. L'unico problema era che rischiava di offendere Zeus, ammazzando uno dei suoi sottoposti, e poi non aveva molta voglia di sporcarsi le mani con della simile feccia.

«Non credo che sapere il mio nome ti convincerebbe a togliere questa cosa. A proposito, potresti abbassarla?» Una delle tante punte che componevano la spada ondeggiava ad un soffio dal suo pomo d'Adamo, e non era piacevole vederla curvare da destra a sinistra in traiettorie via via più incerte.

«E secondo te mi fido del primo che passa?! Potresti essere chiunque!»

«Questo è un ragionamento corretto, ma mi permetto di farti notare avresti potuto usare altrettanta prudenza prima ed evitare di segnalare la presenza del vostro rifugio in un modo così plateale. Sei fortunato che io non sia un tuo nemico, perché chiunque saprebbe interpretare la tua presenza in questo luogo, e non passi di certo inosservato. Detto questo,» Orochimaru si sgranchì le lunghe dita bianche, continuando ad osservare, con la coda dell'occhio, il gigante blu «dubito che serva parlare ancora, giusto?»

Finse di caricare un colpo con il braccio sinistro; il guardiano, come previsto, affondò la spada in avanti, gridando. Orochimaru bloccò la punta della lama con due dita della mano destra, poi fece un passo indietro e, con un'unica mossa fluida, ruotando elegantemente il polso, scaraventò la spada ad una decina di metri di distanza. Quella si conficcò nell'asfalto con un gran frastuono, vibrando leggermente, e Orochimaru sfruttò lo stupore momentaneo dell'avversario per rassettare una ciocca di capelli sfuggita all'ordine.

«Nessuno mi aveva mai tolto di mano la Samehada...» biascicò lo spadaccino, fissando la sagoma immobile piantata nel cemento grigio.

«"Pelle di squalo"... come ti chiami, guardiano? Credo di poter pretendere almeno il tuo nome».

«Kisame Hoshigaki. Tu chi saresti?»

«Orochimaru. Ti offro una possibilità di salvarti la vita, Kisame: chiama il tuo capo e portalo qui in modo che io possa parlarci. Non sono un tuo nemico, non è nel mio interesse ucciderti».

Kisame annuì, palesemente a malincuore, poi si voltò e, girandosi ogni tanto per controllare le mosse di Orochimaru, sparì all'interno di un magazzino; qualche minuto dopo ne uscì di nuovo, seguito da quello che pareva un ragazzino dall'aria particolarmente provata.

Se anche Orochimaru non avesse chiesto espressamente di vedere il capo, avrebbe saputo di trovarsi di fronte a Zeus.

Poteva avere diciotto anni, non uno di più. Era magro, basso e sottile, con la pelle leggermente scura e i capelli innaturalmente chiari, biondi come il grano; gli occhi, azzurri, lo fissarono con un'aria insospettita che gli suscitò un sorriso spontaneo. Le occhiaie che li circondavano e l'espressione abbattuta del Prototype, tuttavia, non raccontavano una storia allegra.

«Sei tu Zeus?»

«Sì, sono io. Tu... tu sei quello di cui parlava Sasuke. Tu mi hai salvato quando...»

«Quando il tumore ti stava divorando. Ma non è a me che devi la vita, Zeus, bensì a chi è con me... qualcuno che è stato capace di infiltrarsi sin dall'inizio nella vostra base e qualcun altro che ha creato la cura. È per quelle persone che io sono qui, adesso».

Zeus annuì, sospirò. C'era qualcosa nel suo comportamento che faceva supporre a Orochimaru uno stravolgimento profondo e una tristezza il cui motivo gli sembrava oscuro; che derivassero dalla stessa cosa che aveva originato quel grido tremendo?

Per diplomazia, scelse di tenere in conto ogni possibilità.

«Ho sentito l'urlo, come tutti in città. Una mossa imprudente, da parte tua, ma, se non altro, ha avuto l'effetto di spaventare i militari... staranno tranquilli per un po'. Qualsiasi fosse la causa, sono qui anche per aiutarti a riparare il danno fatto».

«Uno dei nostri compagni... uno dei miei più grandi amici è stato ucciso, e non sappiamo nemmeno da chi. L'unico testimone, Sasuke... a lui sono stati strappati entrambi gli occhi. Siamo in un vicolo cieco, per il momento, e poi... poi... nulla, lascia stare».

Orochimaru assottigliò lo sguardo, poi fece un gesto ampio con la mano.

«Vieni, camminiamo. Devo dirti molte cose, che forse interessano anche i vostri problemi al momento... ci sono numerose domande ancora prive di risposte, e mi auguro che tu possa aiutarmi a trovarle».

«Va bene».

Lo seguì con aria mesta, guardandolo ogni tanto con quegli enormi occhi azzurri che sembravano sfuggirgli in continuazione; a Orochimaru non era capitato molto spesso, in vita sua, di vedere sguardi che esprimessero quel baratro di sentimenti contrastanti che turbinava nelle iridi di Zeus. Adombrate dalla stanchezza e da chissà quale esperienza tremenda, risplendevano al contempo di una luce vivida e forte, disperata e caparbia.

E poi, ovviamente, aveva notato la somiglianza. Impossibile non vederla.

Eppure, nemmeno lui riusciva a spiegarsi il perché; ciò che vedeva, seppur ovvio, era del tutto privo di giustificazioni.

«Sai qualcosa di una certa Hope, in Idaho? Sai cosa successe lì nel 1960?»

Si sentì strattonare con forza un braccio, e girò il capo in un moto di sorpresa. Il viso di Zeus era improvvisamente così vicino al suo che avrebbe potuto contare, una per una, le sue ciglia bionde.

«Devi dirmelo. Tu devi dirmelo, so che lo sai!»

«Sapere cosa, Zeus?»

«Kushina Uzumaki, o Elizabeth Greene, chiamala come ti pare... lei è mia madre? Sono il figlio di quel mostro?»

Orochimaru sorrise. Se era lo stesso Zeus a fargli quella domanda per primo, se anche lui era arrivato a quel punto investigando da solo, allora voleva dire che le supposizioni di Tsunade erano esatte, e che il mistero, tutt'altro che sciolto, si era almeno chiarito in una sua minima parte.

«Sì».

 

"Quando la maschera che indossiamo divora ciò che custodisce, solo allora possiamo diventare noi stessi".

 

 

 

 

 

 

 

 

_Angolo del Fancazzismo_

Questo capitolo è stata una bella sudata, caprioleggiando tra compiti in classe ed interrogazioni di Greco (argh). Odio il quinto ginnasio, lo odio davvero.

Ad ogni modo, se pensate che quanto scoperto in questo capitolo, alias il Segreto di Pulcinella, sia la terribile rivelazione sul passato di Zeus, vi sbagliate di grosso. Non mi chiamo mica Kishimoto D:

Ci siamo vicini, comunque. Molto vicini.

E, una volta finita la noiosa parte burocratica, potrò finalmente tornare a concentrarmi su una pulitissima trafila di capitoli splatter :3. Non vedo l'ora, guys.

Anche perché, a furia di leggere fyccyne sul fandom di Naruto, ho certi istinti omicidi da sfogare che nemmeno De Niro in Taxi Driver.

See you soon,

Roby

   
 
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