.Work.
Nel corridoio si vedevano Ludwig, il direttore tedesco del giornale, discutere animatamente con Lovino, un fotografo italiano che lavorava con loro da più o meno un anno.
I motivi erano ignoti a lui come ai restanti colleghi che li fissavano, ma si sentivano molto bene i vari insulti, più che altro provenienti dalla parte del italiano, nelle loro lingue madri.
Passando di lati ai due litiganti, Arthur, si diresse verso la piccola stanza che era stata adibita a ufficio del caporedattore, cioè lui, lì però, seduto tranquillamente sulla sua scrivania, trova un Antonio allegro e sorridente.
«Hola, Arthur! »
Lo salutò, con il solito insistente sorriso sulle labbra.
«Umh, ‘morning.. »
La sua voglia di parlare con lo spagnolo stava intorno allo zero, già normalmente non provava una grande simpatia per lui figuriamoci in quella giornata che era iniziata maledettamente male.
« Que tal? Ti sei alzato con il piede sbagliato?»
A quanto pare invece il ragazzo non era della sua stessa idea, anzi, continuava imperterrito a parlargli, accavallando le gambe e puntando un gomito sulla coscia per poi appoggiarvi sopra la testa. Maledetto Antonio.
« Mh, non ho voglia di parlare, Antonio..»
Lo congedò, voltandogli le spalle per portare l’impermeabile all’attaccapanni.
La voce dello spagnolo gli arrivò da dietro.
« Uff, tu eres muy aburrido!»
Il ragazzo si diede una spinta con le mani e saltò giù dal tavolo per poi uscire finalmente dalla sua stanza.
Si lasciò cadere sulla sedia, portando le mani sulla faccia con aria scoraggiata, non ce l’avrebbe fatta a superare quel giorno, era lì dentro da tipo quindici minuti, anche meno, e già sentiva il principio di un mal di testa orrendo; maledetti il crucco e l’italiano, proprio di prima mattina dovevano mettersi a fare le loro scenate isteriche?
Quando tolse le
mani la vista si aprì di nuovo sul piccolo
ufficio disordinato, sfortunatamente i suoi desideri di trovarsi di
nuovo a
casa non erano stati esauditi, davanti a lui c’erano ancora
le stesse veneziane
color marroncino abbassate, sul muro che un tempo doveva essere bianco
ancora
era appesa la stessa bacheca che straripava di post-it, foto e
documenti vari lasciati
lì per poi essere bellamente dimenticati.
Con un sospiro abbassò lo sguardo sulla scrivania, fissando
l’ultimo lavoro, il
quale giaceva lì sopra ad altri miliardi di fogli vecchi,
guardandolo per un
po’ con aria più che altro schifata lo prese tra
il pollice e l’indice,
lasciandolo penzolare di fronte al suo viso.
Giusto
un’ occhiata gli bastò a verificarne il livello,
uno
schifo assurdo, frasi sconnesse, nessun significato, argomento
già abbandonato
alla seconda riga, diciamo peggio di un articolo da giornalino della
scuola; lo
accartocciò e lo lanciò verso il cestino.
Perché non riuscivano
più a scrivere cose
decenti?
Perché nessuno comprava più il loro giornale?
Perché i tempi d’oro erano passati?
Perché?
Cosa diamine era cambiato?
La risposta a quelle domande anche oggi non sarebbe arrivata.
Con un braccio fece spazio sulla scrivania, spostando tutti i fogli da
una
parte in modo da poter mettere davanti a lui il computer portatile.
Con la solita melodia lo schermo si illuminò, le sue dita
batterono
automaticamente sulla tastiera, digitando la password, lentamente si
caricò,
mostrando lo stesso schermo di sempre.
Da lì iniziò la ricerca mattutina, qualche idea
ce l’aveva già, cose che gli
erano venuto in mente nei giorni come stupidi articoli sui parchi
londinesi o
sul problema dell’inquinamento, in pratica sempre la solita
roba.
E fu così che anche quel giorno, spulciando nei meandri
della memoria, si
decise a scrivere un articolo che aveva in testa quanto meno da un mese
ma che
sarebbe risultato ovviamente come tutti gli altri.
Le ore passarono lentamente, lui continuava a tenere lo sguardo fisso
sullo
schermo illuminato, le sue dita si muovevano da sole sulla tastiera
scura,
lasciando impresse parole senza veri significati; solo verso
l’ora di pranzo si
decise ad abbandonare il computer, si alzò dalla sedia,
muovendo alcuni passi in
tondo per l’ufficio, indeciso se rischiare e uscire in
corridoio dai suoi
adorati colleghi, o starsene lì chiuso fino a che non
sarebbe scoccata l’ora di
tornare a casa, alla fine la voglia di un caffè vinse.
Messo un piede fuori però si pentì di averlo
fatto, fortunatamente la
discussione della mattina era bella che finita ma per l’ora
di pranzo tutti,
escluso chi era uscito nella capitale, si erano riversati nel piccolo
corridoio, intasandolo e riempiendolo di futili parole.
Appoggiandosi ad un muro, sperando di non essere visto, Arthur
tirò fuori dalla
borsa il panino che aveva preparato per pranzo.
Addentò il pane, strappandone un pezzo, non
riuscì nemmeno ad ingoiare il
boccone che ecco riapparire dalla porta di ingresso lo spagnolo
accompagnato
dall’odioso fratello albino del direttore tedesco, Gilbert,
lui un compito
preciso lì dentro non l’aveva, diciamo che si
credeva un giornalista ma
scriveva un articolo all’anno, la teoria del ragazzo era che
il suo talento si
sarebbe sprecato scrivendo tanti articoli quanti gli altri e quindi per
quello
ne scriveva uno ma
l’inglese credeva
senza indugi che fosse solamente perché era estremamente
pigro, anche se doveva
ammettere che possedeva un certo talento nella scrittura.
Comunque, Gilbert e Antonio passavano tutto il tempo insieme,
praticamente
l’albino seguiva l’iberico in giro per la
città, sostenendo di aiutarlo così a
scrivere i suoi articoli, e tornavano in ufficio solo per scassare i
cosiddetti
a lui e agli altri colleghi.
«Hey! Arthur!»
Urlarono in coro i due ragazzi appena smisero di ridere e riuscirono a
notarlo.
Non ricevendo risposta e per qualche altro strano motivo a noi
sconosciuto
continuarono per la loro strada, scoccandogli delle occhiate miste di
noia e
curiosità, dirigendosi poi nell’ufficio di Antonio
dopo esser riusciti a
strappargli solo un gesto con la mano.
Con ancora in bocca l’ultima parte del pranzo praticamente si
mise a correre
verso la macchina del caffè, posizionandovisi davanti la
rivendicò come sua
almeno fino a che non si sarebbe degnata di sputargli fuori la sua
bevanda.
Con tutta la calma del mondo inserì le sterline nella
fessura poi con un dito
iniziò a premere i tasti.
Un suono strano provenne dalla macchina la qualche però dopo
poco fece cadere
un bicchiere tra i ganci, iniziando a versarvi dentro il suo
caffè.
Lo prese tra le mani, godendosi il caldo che emanava in quella giornata
di
freddo autunno; poi girò i tacchi e tornò nel suo
ufficio.
Aprì
nuovamente il documento word, non aveva il coraggio di
dargli già un’ occhiata, sapeva che gli avrebbe
fatto schifo, come cavolo può
essere interessante un articolo sul inquinamento del Tamigi? Anche un
bambino
di cinque anni sapeva dirti che il fiume che attraversava la
città era inquinato!
Che palle.
Prima di riprendere a scrivere si alzò ancora una volta, con
il caffè in mano
si diresse verso la finestra, alzandone le veneziane in modo da poter
vedere la
strada affollata; appoggiò i gomiti al davanzale e accanto
vi lascio il bicchiere
di plastica mentre con gli occhi si lasciava trasportare nella
città, scendeva
giù tra le strade, camminava tra i londinesi indaffarati
senza degnare nessuno
di un vero sguardo ma lasciando sulle labbra un insolito sorriso, poi
si dava
la spinta con un piede e in un balzo iniziava a volare in cielo,
planava sopra
le teste dei suoi concittadini che lo indicavano stupiti, da
lì vedeva tutto,
si muoveva con naturalezza tra i grattacieli, arrivando fin alle nuvole
più
alte e proprio quando stava scendendo in picchiata verso il mare suo
suddito
ecco che la realtà spinge contro le sue fantasie per
riprendere il controllo
della situazione.
La porta dietro di lui si apre lentamente, entra da lì
Alfred con un
espressione stranamente imbarazzata, solo con un colpo di tosse riesce
a farsi
sentire dal inglese sognante.
Arthur si girà di scatto, scontrando con il gomito il
bicchiere del caffè e
rovesciandone l’ultima parte sulla moquette già di
suo sudicia, dalle sue
labbra uscì una bassa imprecazione, raccolse sbuffando il
bicchiere e lo lanciò
nel cestino, borbottando tra sé e sé.
Solo dopo quei passaggi di degnò di alzare il capo verso il
ragazzo che ancora
stava fermo sull’uscio, guardandolo negli occhi un velo di
imbarazzo coprì i
volti di entrambi costringendo il maggiore a spostare velocemente lo
sguardo.
«Cosa c’è, Alfred?»
Gli chiese poi muovendosi verso la scrivania con una finta aria
scocciata e
facendo finta di avere molto da mettere a posto in quel casino che
lì regnava
sovrano.
« Ti ho portato questo articolo, dovresti controllarlo..
»
Ascoltò le parole dell’americano, annuendo quasi
impercettibilmente con il
capo, evitando sempre accuratamente di incontrarne lo sguardo,
l’altro però
sembrava non volersene andare, anzi, ora si stava avvicinando a lui,
terminando
le sue azione appoggiando una mano sulla spalla dell’inglese
il quale sussultò
visibilmente alzando di scatto gli occhi verso l’altro,
incontrandone definitivamente
lo sguardo.
«Volevo … no, lascia perdere.»
Alfred aveva intenzione di dirgli qualcosa ma a quanto pare non ce
l’avrebbe
fatta, infatti dopo essersi smentito gli lasciò velocemente
i fogli in mano,
borbottando un saluto quando era ormai fuori dalla porta.
Appena uscì, Arthur mise distrattamente via i fogli che gli
aveva appena
consegnato e si abbandonò sulla sedia; ancora con
l’americano non erano ripresi
i contatti, da quando la loro storia era finita nessuno dei due aveva
trovato
il coraggio nemmeno di salutare nuovamente l’altro, questo
perché entrambi
erano allo stesso tempo vogliosi di chiedere scusa, troppo orgogliosi
per farlo
e troppo spaventati dall’idea di prendersi delle
responsabilità vere.
La loro storia era stata importante per Arthur come per Alfred, non era
stata
una cosa del tipo “una botta e via”, no, erano
stati insieme per più di un
anno, avevano appena iniziato a convivere quando tutto pian piano si
era
sgretolato, giorno dopo l’altro l’amore e le
emozioni erano andate scemando, lasciandoli
entrambi stufi di ciò che avevano costruito con grande
sforzo, abbattendo pian
piano il muro di ghiaccio che chiudeva il cuore dell’inglese
e creando insieme
una felicità che nessuno di loro due aveva mai provato. E
tutto un giorno era
scomparso, si erano alzati e insieme avevano detto basta, chiudendo
tutto con
questa semplice parola; da quel giorno le loro vite tentavano di non
incontrarsi più, si scontravano più che altro,
ricongiungendosi in mute memorie
di momenti passati, litigando in silenzio su vecchie discussioni mai
concluse,
ma i loro cuori si erano definitivamente divisi, tagliando in due il
filo che
li divideva e imprigionando ancora una volta l’amore
dell’inglese nella sua
prigione di ghiaccio.
Si affrettò ad asciugare una lacrima solitaria che gli era
scesa lungo la
guancia, non poteva piangere per lui, doveva dimenticarlo, cancellarlo
dalla
sua vita, definitivamente.
Per
occupare la mente riprese il lavoro, le dita infreddolite continuarono
a
battere sulla tastiera, lettera dopo lettera il tempo scorreva pian
piano
scandito dal rumore dei tasti sotto i polpastrelli.
Mezz’ora,
un’ora, due ore.
Il
pomeriggio così passò, lettera dopo lettera,
pagine su pagine vennero a
formarsi davanti al suo sguardo catturato dal candore splendente del
computer.
Arthur
aveva ormai felicemente perso la vera cognizione del tempo quando
terminò il lavoro.
Velocemente,
appena dopo aver digitato l’ultimo punto, cliccò
sull’icona del
“Salva”, voglioso di terminare quella brutta
giornata.
Con
uno scatto brusco della mano chiuse il portatile e staccandolo dalla
corrente lo infilò in borsa chiudendone il fretta la zip.
Arrivato
in corridoio si guardò velocemente intorno. Via libera.
Con
uno scatto arrivò alla porta, posò la mano sulla
maniglia e l’aprì in
fretta, quasi qualcuno lo stesso inseguendo.
Spalancata
la porta non si trovò davanti il corridoio vuoto con la
porta dell’ascensore
aperta ad aspettarlo ma un uomo che lo guardava con un’aria a
dir poco stupida.
Non
l’aveva mai visto, o almeno non lo ricordava.
Biondo,
capelli lunghi e mossi, occhi chiari e il pizzetto.
Decisamente
non una faccia da inglese.
Anzi,
sembrava proprio Francese.
Si
augurò con tutto il cuore di sbagliare.
E
poi un lampo, quando questo aprì bocca.
Quel corpo sconosciuto disteso sul
pavimento.
Gli occhi azzurri sbarrati che lo fissavano ancora
con terrore.
Le sue mani pallide
coperte di sangue caldo.
}
Spazio dell'autore:
Allooooora, tanto per cominciare grazie tante sia a chi ha
recensito, sia a chi a messo la storia tra le seguite, sia a chi l'ha
anche solo letta.
Già questo capitolo è più
lungo del primo e credo che anche i sucessivi saranno più o
meno della stessa lunghezza.
Mi dispiace per il ritardo e vedrò di essere
più puntuale d'ora in avanti.
Arrivederci al prossimo capitolo! :D {