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Autore: Latis Lensherr    19/11/2011    11 recensioni
Quella che vi presento è una raccolta di One-Shot e Spin-off che sono stati omessi dalla narrazione ufficiale della mia long "DOVE CI SEI TU, ECCO, QUELLA E' CASA MIA" e che fa parte della serie "ALL THAT'S DONE IS FORGIVEN", che tratta della vita e della storia d'amore fra TOM ORVOLOSON RIDDLE e la sua amica d'infanzia, PHOEBE HOOL.
Piccoli frammenti di vita vissuta e perduta, che contribuiranno a costruire un piccolo amore senza lieto fine, ma che durerà per sempre.
Spero di avervi incuriosito. Buona lettura!
Latis.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"All that's done is forgiven"'
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77 battiti.
 
 
Il tuono lacerò il chiacchiericcio dei bambini nella mensa, mettendoli tutti a tacere.
Il tempo aveva promesso pioggia per l’intera giornata: sembrava sempre sul punto di cominciare, ma poi, quasi con ritrosia, le nuvole facevano spazio a qualche lieve sprazzo di sole. Sembrava proprio che il cielo non riuscisse a decidersi. Alla fine, quando oramai tutti avevano perso le speranze di vedere qualche goccia di acqua, il temporale era scoppiato con violenza, facendo sobbalzare tutti leggermente.
Il silenzio venne spezzato dal rumore tagliente di un bicchiere che finì a terra, spezzandosi in tante piccole schegge, che schizzarono in tutte le direzioni del pavimento. Tutti gli sguardi degli ospiti dell’Orfanotrofio, dai più piccoli di tre anni a quelli più grandi di diciassette, si voltarono tutti verso lo stesso punto della sala, dove, una bambina di nove anni dai capelli neri, teneva i suoi grandi occhi verde bottiglia sgranati e fissi davanti a lei. Le piccole labbra erano serrate con forza una sopra l’altra, incapaci di allontanarsi. Sembrava che facesse addirittura fatica a respirare, tanta era l’angoscia che l’aveva travolta. Il viso era diventato tremendamente pallido, quasi avesse visto comparirle un fantasma davanti agli occhi.
< Ma che diavolo fai?> domandò stizzito il ragazzino a fianco a lei, osservando l’acqua sparsa per tutto il pavimento e il luccichio leggero delle schegge di vetro, che rifletteva la luce fioca delle lampade della mensa. < Sei la solita imbranata…>
Quasi non riuscì a terminare la frase, perché, in quel momento, si accorse dell’espressione spaurita dell’amica, che aveva ancora la mano, che aveva retto fino a poco prima il bicchiere d’acqua, sollevata a mezz’aria.
Aveva allungato una mano, posandogliela sulla spalla, preoccupato, mentre si piegava leggermente verso di lei, cercando disperatamente di incrociare il suo sguardo; cercando di capire quale fosse la causa di quel suo strano atteggiamento.
< Phoebe…> era riuscito a malapena a pronunciare, quando un ‘altra voce, molto più alta ed infuriata della sua, aveva ripetuto il nome della bambina a gran voce, continuando poi ad urlare in modo isterico:
< PHOEBE HOOL! Guarda che pasticcio hai combinato. Credevi di essere divertente, impiastrando tutto il pavimento?!>
La signora Cole aveva raggiunto il tavolo con un passo deciso e spedito, fermandosi dietro al punto in cui la bambina era seduta, dandole le spalle. Era tutto il giorno che la direttrice era di pessimo umore, tutti gli orfani non avevano impiegato molto a capirlo. Aveva urlato e sbraitato contro tutti e contro chiunque gli capitasse a tiro, usando come pretesto qualsiasi cosa le passasse per la testa, senza preoccuparsi che fosse una scusa plausibile o meno. Fra i bambini e i ragazzi erano corse le voci che la donna fosse meteoropatica o che, più semplicemente, stesse affrontando i suoi fatidici cinque giorni del mese. In un altro momento, un banale bicchiere rotto non l’avrebbe nemmeno indispettita, ma, quella sera, sembrava che la piccola Phoebe Hool avesse, con quell’affronto, insultato il suo onore e la sua virtù. La bambina, ancora pallida per la tensione, si voltò lentamente verso la direttrice dell’Orfanotrofio, con le labbra tremanti, senza riuscire a pronunciare nemmeno una misera sillaba. La donna l’afferrò per un braccio e la costrinse ad alzarsi dalla panca, con un energico strattone, per poi puntarle un dito a pochi centimetri dal naso e continuare a ringhiarle contro:
< Grazie a questa tua bravata, signorina, ti sei appena guadagnata una bella notte di reclusione nella Stanza. Spero che tu sia contenta.>
La bambina sussultò, spaventata, mentre la Cole la trascinava fuori dalla mensa e un altro tuono rimbombava nell’aria, facendo fremere leggermente le finestre sporche, che contornavano i muri. Il ragazzino, abbandonando le sue posate nel piatto, scivolò fuori dalla panca e fece qualche passo per seguirle.
< Signora Cole! Phoebe non c’entra…> tentò di dire, ma la direttrice si voltò verso di lui, inchiodandolo con uno sguardo truce.
< Al tuo posto, Riddle!> gli tuonò contro l’altra, indicandogli, con il solito dito puntato, il posto dal quale si era alzato. < Non voglio problemi da te, oggi.>
Detto questo, la donna gli voltò nuovamente le spalle ed uscì dalla mensa, trascinandosi dietro la piccola Phoebe Hool.
 
La Stanza, circa dieci anni prima, era stata uno sgabuzzino, dove gli assistenti della signora Cole sistemavano spazzoloni e scope, stracci e spolverini, decorazioni natalizie e una quantità inaudita di cianfrusaglie, alcune delle quali sarebbero state perfettamente a loro agio in un cassonetto dell’immondizia. Poi, un giorno, racimolando un bel po’ di coraggio, la direttrice dell’Orfanotrofio di Londra aveva deciso di liberarlo da quell’immondezzaio, risistemandolo, in modo da far saltare fuori un’altra stanza da letto. Ma l’ambiente era decisamente troppo piccolo, anche per un bambino che dormisse da solo, così, utilizzando un bel po’ di fantasia, la donna decise che, quella piccola camera da letto, sarebbe diventata il suo “luogo di punizione”. La Stanza era il luogo in cui venivano chiusi a chiave quei bambini che, non rispettando le direttive imposte dalla Cole, combinavano qualche guaio o causavano disturbi e problemi. Il metro di giudizio era decisamente poco imparziale, in quanto seguiva gli sbalzi d’umore e le lune della donna. Tom, dal canto suo, ricordava di averci passato un’intera settimana all’interno, dopo l’incidente che era avvenuto al coniglio di Billy Stubbs. Da solo, nella loro stanza, aveva fissato per un po’ il letto vuoto, dall’altra parte della stanza.
Ha paura del buio, vecchia ciabatta! pensò, mentre scostava le coperte e scendeva a piedi nudi dal proprio letto. Aveva aspettato che scattasse il coprifuoco, prima di decidersi ad avventurarsi per i corridoi bui dell’istituto. Qualche assistente gironzolava sempre, di notte, controllando svogliatamente che nessuno uscisse dalla propria stanza, quindi doveva fare assoluta attenzione. Attraversò con passo veloce i corridoi, in direzione delle scale che portavano al terzo ed ultimo piano dell’Orfanotrofio, tendendo più che poteva le orecchie, per riuscire a percepire il più piccolo rumore. Una volta raggiunte le scale, cominciò a salire, facendo gli scalini a due a due ed evitando i gradini che, oramai sapeva fin troppo bene, scricchiolavano e facevano rumore. Passò in fretta, fugace come un’ombra, davanti ad una porta, dalla quale provenivano voci che chiacchieravano, all’interno. Fortuna volle che, grazie al fragore dei tuoni, che non sembravano per nulla intenzionati a diminuire di intensità né di allontanarsi da lì, riuscì a non farsi sentire e a raggiungere la porta della Stanza, senza problemi. L’ingresso della Stanza era abbastanza riconoscibile, in quanto era sicuramente quello nelle condizioni peggiori di tutto l’istituto, poiché, a causa della forte umidità che vi era all’interno, la porta si era parecchio corrosa e rovinata. Il ragazzino vi si accostò, appoggiandovi appena l’orecchio, per provare a cogliere qualche movimento all’interno, ma gli rispose solo il brontolare del temporale, che continuava a rumoreggiare fuori.
< Phoebe. Mi senti?> provò a chiamarla, a bassa voce, per poi tornare ad ascoltare il silenzio dall’altra parte. Nessuna risposta. Che stesse dormendo? Provò ad abbassare la maniglia, ma, come si aspettava, la serratura era stata chiusa accuratamente a chiave. Fece un respiro profondo, poi, fissò il proprio sguardo sulla serratura di metallo arrugginito, cominciando a concentrarsi. Il meccanismo gli rispose dopo una manciata di secondi, con un allegro e secco clack. Entrò in silenzio nella Stanza, chiudendosi con cura la porta alle spalle. Sebbene la Cole avesse arredato la stanza con un letto a una piazza e un armadio mangiucchiato dalla tarme, quel buco non sarebbe assomigliato ad una camera da letto, nemmeno con parecchia immaginazione. Il letto di ferro occupava praticamente tutta la lunghezza della parete, alla quale era accostato, ed era lontano soltanto di un paio di passi dall’armadio. Sulla terza parete, quella di fronte alla porta, c’era una minuscola finestrella che, nonostante fosse vicina ad un lampione che c’era in strada, faceva entrare pochissima luce. Tom si avvicinò al lettino con le coperte disfatte e, dopo aver strizzato parecchio gli occhi per vedere meglio al buio, si rese conto che era vuoto. Phoebe non era lì. Rimase confusamente a guardare il materasso sfondato, come se cercasse una qualche botola, nella quale la bambina avrebbe potuto nascondersi. Non poteva essere uscita da lì. La porta era chiusa a chiave. Certo, nell’ultimo periodo era stata in grado anche lei di compiere qualche piccola magia, ma nulla di complicato. Che avesse davvero aperto la porta da sola? Ma allora, dove era andata? Il ragazzino si inginocchiò sul pavimento, per sbirciare sotto il letto, nel momento esatto in cui un nuovo tuono, più rumoroso dei precedenti, riecheggiò nell’aria. Poi lo sentì. Si rimise in piedi di scatto, tendendo l’orecchio.
Un singhiozzo. Flebile e basso. Un singhiozzo appena percepibile, attraverso il rumore scrosciante della pioggia, che batteva senza sosta contro il vetro della finestrella. Tom si voltò lentamente verso l’armadio di legno vecchio e cadente, studiandolo con attenzione. Non era grandissimo, ma avrebbe potuto benissimo ospitare una bimbetta piccola ed esile come Phoebe Hool. Prese i pomelli tondi e rovinati del mobile e, lentamente, aprì entrambe le ante. Dovette aspettare qualche secondo, prima che i suoi occhi si abituassero a quella penombra. La bambina era accucciata sul pavimento dell’armadio, con le gambe contro il petto e la fronte appoggiata alle ginocchia, così da nasconderci dentro il viso. I codini, con i quali di solito teneva legati i capelli, erano stati sciolti, permettendo così alle ciocche corvine di ricadere libere ed incontrollate sulle piccole spalle. Le mani, poi, erano premute con forza contro le orecchie, tappandole. Singhiozzava ancora, inconsapevole della sua presenza.
< Phoebe!> la chiamò allarmato. < Cosa stai facendo?>
La bambina sussultò, alzando lo sguardo verso di lui. Le guance erano state completamente allagate dalle lacrime, che ancora uscivano a fiotti, dagli occhioni arrossati. Rimase a fissarlo senza dire nulla, con quell’espressione di puro terrore, come se fosse riuscita a scappare per un soffio da un mostro spaventoso. Tom riuscì a vedere, distintamente, il corpicino che veniva scosso dai brividi. Tremava come una foglia.
Phoebe, sempre con gli occhi sbarrati, deglutì a fatica e, con voce bassissima, balbettò una piccola risposta:
< Io…ho paura. Ho paura…dei tuoni.>
La voce si colorò di un leggero imbarazzo, quando pronunciò l’ultima parola. Il ragazzino non rispose subito. Rimase a fissarla in silenzio, con le mani ancora posate sui pomelli dell’armadio. In effetti, la cosa aveva senso. E, soprattutto, spiegava perché la bimba avesse lasciato andare di botto il bicchiere, durante la cena nella mensa, provocando così l’ira della direttrice. Sempre senza dire niente, lui le voltò le spalle e, avvicinatosi al letto, fece scivolare, con uno strattone, le lenzuola fuori dal materasso. Le gettò sopra alla bambina, coprendola, e, entrando anche lui nell’armadio, chiuse con cura le ante. Si sedette sul pavimento di legno, constatando che, da dentro, il mobile era più grande di quanto sembrasse da fuori. Phoebe, nel frattempo, si sistemò meglio le coperte e fece sbucare la sua testolina scura.
< Non sapevo che avessi paura dei tuoni > cominciò Tom, con calma, voltandosi a guardarla. < Io pensavo avessi solo paura del buio. Perché non me l’hai detto?>
La bambina, con lo sguardo rivolto alle proprie ginocchia, si limitò a scrollare le spalle, senza dire niente. Solo il tamburellare insistente della pioggia rispose alla sua domanda. Il panico che aveva avuto, fino a quel momento, sembrava essere stato mitigato dal disagio, che la sua imbarazzante confessione aveva provocato. Rimasero qualche minuto, senza fiatare, fino a quando il ragazzino, tentando di smorzare la tensione, commentò:
< Sei proprio una fifona!>
< Stai zitt…> era scattata lei, con tono offeso ed ostile. Ma, proprio nel momento in cui parlò, l’ennesimo tuono rimbombò nella strada, lanciando la sua lugubre e potente eco nella stanza, che trapassò senza pietà i muri di pietra e le pareti di legno del mobile. La parola naufragò in un gemito di terrore, che il ragazzino riuscì ad udire, anche se sovrastato dal rumore della tempesta. Non fece in tempo a riflettere su una possibile reazione, che sentì ogni suo muscolo contrarsi ed irrigidirsi, di loro spontanea iniziativa. In uno slancio altrettanto spontaneo, Phoebe, spaventata per l’ennesima volta da quel suono ruggente, che le schiaffeggiava le orecchie, al punto di bloccarle il respiro, gettò le braccia intorno al collo dell’amico, affondando il viso nella sua spalla, come se, quel semplice gesto, avesse potuto mettere fine alla pioggia e ai tuoni all’istante, come se avesse potuto trovare la salvezza, soltanto in lui. La prima cosa che l’altro percepì, con quel poco di lucidità che era riuscito a recuperare, fu la guancia umida della bambina, premuta contro la propria, che irradiava un calore quasi soffice, su tutto il resto del suo viso. Meccanicamente, appoggiò i palmi delle mani sulla schiena inarcata di lei, facendo caso solo in quel momento ai brividi che le percorrevano tutto il corpo, accompagnati dai singhiozzi del suo pianto, che aveva ripreso a tormentarla. Il tipico pianto di una bambina di nove anni, quando è spaventata. Cercò di concentrarsi su quello, per non dover essere costretto a pensare a…quell’altra cosa. Era la prima volta, da quando si conoscevano, che erano così vicini. Phoebe era arrivata all’Orfanotrofio di Londra da più di un anno, ormai, e lui l’aveva tenuta per mano; le aveva sfiorato la fronte con le dita; c’erano state delle volte che, giocando, l’aveva pure sollevata di peso. Eppure tutti quei gesti erano stati niente, in confronto a quello! Si sentiva avvolto, da quelle piccole e sottili braccia, che gli stringevano con forza il collo. Si sentiva riscaldato, dal calore delle sue lacrime salate, che penetravano nel tessuto logoro del suo vecchio pigiama. Si sentiva sballottato, dal suo incessante tremare, che lo facevano sentire come un naufrago, spinto su e giù dalla forza dell’oceano. Quei pensieri erano così sconnessi. Senza senso. Gli sembrava di essersi perso, in mezzo ad una vegetazione fitta ed insondabile, che gli si attorcigliava attorno, stringendolo, strattonandolo, per impedirgli di tornare verso la luce lontana della sua razionalità perduta. Più si agitava, più cercava di pensare con lucidità, più quelle lunghe liane ed erbacce gli si arrampicavano addosso. Voleva uscire da lì! Si sentiva quasi soffocare…Non riusciva a trovare un appiglio, un punto verso il quale dirigersi, per ricominciare a pensare. Per poter riprendere possesso di se stesso, del suo corpo, dei suoi pensieri.
Poi, lo udì.
Tum.
Come un libro che cadde sul pavimento.
Tum.
Come ascoltare il rumore attutito di un martello che picchia un chiodo.
Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum. Tum!
Un suono regolare, preciso. Che si ripeteva alla stessa distanza di tempo. Alla stessa intensità, senza smettere mai. Mai.
Tum.
Un suono quasi ipnotico.
Tum.
Un suono invitante.
Tum.
Un suono che sembrava chiamarlo a sé.
E lui lo seguì, come il Filo d’Arianna che l’avrebbe condotto fuori dal labirinto di un minotauro folle e spietato. Lo seguì, nel modo più logico che riuscì ad usare, in quel momento: cominciò a contare.
 
1…
2…
3….
 
Lo seguì, fiducioso del fatto che non l’avrebbe abbandonato. Lo avrebbe guidato, fuori da quella giungla nera. Avrebbe continuato a riecheggiare, intorno a lui.
 
15…
16…
17…
 
Eppure era così avvolgente. Sembrava non essere mai lontano. Solo vicino. Così confortevolmente vicino.
 
23…
24…
25…
 
Ricominciò a percepire lievemente il proprio corpo. A rivedere la penombra umida dell’armadio, in cui era seduto, sentendo il legno sotto il sedere. Continuò a seguirlo.
 
39…
40…
41…
 
Così vicino! Così vicino…quel suono era così vicino! Lo sentiva risuonare, tutto attorno, come se impregnasse l’intera aria con il suo martellante ripetersi. Sembrava che inondasse l’ossigeno, che gli entrava nei polmoni.
 
56…
57…
58…
 
Lo riempiva, ecco! Si sentiva riempito, da quel suono. Non era tutto intorno a lui. Ma dentro di lui. Lo attraversa. Lo percorreva. Lo trafiggeva, ma senza ucciderlo. Anzi, facendo vibrare con più forza quella vita che il suo corpo conteneva.
 
60…
61…
62…
 
Facendo risaltare maggiormente, quello stesso suono che…però proveniva da lui.
 
70…
 
Due voci, che cantavano all’unisono, la stessa canzone.
 
73…
 
Due voci, che avevano la stessa identica voce.
 
76…
 
Il suo cuore. Il cuore di Phoebe Hool, che gli batteva come un pugno, contro la parte vuota del suo petto, l’aveva riportato indietro.
 
77!
 
Fu come riemergere da un lungo periodo di apnea. Sentì le sue dita muoversi appena, lentamente, sugli abiti della bambina, che se stava ancora rannicchiata contro di lui, con le piccole braccia attorno al suo collo e il viso contro la sua spalla. Percepì le sue labbra socchiuse, che gli sfioravano involontariamente la pelle sotto l’orecchio. Stava dormendo.
Quanto tempo era passato? Un minuto? Un’ora? Una vita? Non avrebbe mai saputo dirlo con certezza. Notò soltanto che i rumori del temporale, fuori, si erano indeboliti, fino a sparire. Aveva smesso di piovere e lui non se n’era nemmeno accorto.
Rimase immobile, in quella posizione, osservando confusamente il buio, terrorizzato dall’idea che, spostandosi appena, avrebbe potuto svegliarla. Terrorizzato dall’idea di non sapere cosa dirle, come comportarsi, dopo quell’uragano, quella catastrofe naturale di emozioni che lei, solo e semplicemente lei, da sola, era riuscita a fargli provare. Lo aveva fatto perdere, annegare. E allo stesso tempo lo aveva salvato.
Come aveva fatto? Come c’era riuscita? Era solo una bambina di nove anni, piagnona, testarda, che per puro miracolo non bagnava ancora il letto, durante la notte. Eppure…
Lo faceva perdere. Lo salvava.
Tutte quelle emozioni potenti, scaturite da un corpicino così fragile, insignificante. Si procurava lividi solo picchiando contro il pomello della porta. Eppure…
Lo faceva perdere. Lo salvava.
Strinse le dita, involontariamente. Stringendola. Abbracciandola. Facendo attenzione. Come se temesse che, quel corpicino, potesse sbriciolarsi, se solo avesse osato aumentare, anche di poco, la presa su di esso.
Resta con me.
Dopo un anno, il desiderio di averla sempre con sé ritornò prepotente, rendendolo consapevole del fatto che aveva continuato a desiderarlo ogni singolo momento, dopo lo strano giorno dell’Infermeria. La voleva con sé, perché…
 
Lo faceva perdere. Lo salvava.
 
…perché…
 
Non lo sapeva. Era un bambino di nove anni. Dotato e con un’intelligenza fuori dal normale, ma pur sempre un bambino di nove anni. Non poteva sapere come si chiamava, quella cosa.
 
 
7 anni dopo…
 
Il tuono riecheggiò malamente, squarciando il silenzio della notte e disturbando il suo sonno, al punto che, dopo essersi girato un paio di volte nel letto, si svegliò completamente.
Un secondo tuono, fratello maggiore del precedente, lo seguì subito dopo.
Si mise a sedere sul materasso, stropicciandosi la faccia assonnata, con le mani. Alzò lo sguardo verso la camera, strizzando gli occhi, per abituarsi alla penombra: i suoi compagni del sesto anno di Serpeverde dormivano tutti, per nulla disturbati dal temporale, che, dopo una breve rincorsa, aveva cominciato a mostrare tutta la sua intensità.
Loro potevano ignorarli i tuoni, ma lui no: erano anni, ormai, che veniva svegliato malamente, ogni volta che i rumori del cielo risuonavano sulla terra. Il suo organismo si era abituato a svegliarsi automaticamente ad ogni tuono, ormai.
Scostò le coperte e scese dal letto. Aveva la gola secca, quindi, si avvicinò al suo comodino e riempì d’acqua uno dei bicchieri, che vi erano stati posati sopra. Se lo portò alle labbra, cominciando a bere, mentre si avvicinava alla finestrella della camera, appoggiandosi, poi, con una spalla al muro vicino. Non si riusciva a vedere nulla dell’esterno, perché i grossi goccioloni di pioggia si abbattevano senza pietà, sulla superficie del vetro, scivolando velocemente su di esso e creando un disegno molto simile ad una cascata.
Bevve ancora, inumidendosi le labbra. Era una notte molto simile a quella. La mente cominciò a lavorare su ricordi fatti di legno e penombra. Su ricordi fatti di lacrime calde e singhiozzi rumorosi. Su ricordi fatti di lei. Si mise a rammentare quella notte: la notte in cui si era innamorato di lei. Allora era solo un bambino, non aveva capito. Non aveva capito la portata, la profondità, l’intensità di ciò che aveva provato. Non aveva capito che innamorarsi di Phoebe Hool era stato facile, come contare fino a settantasette.
Era ancora perso in quei pensieri, quando lo scricchiolio della porta della stanza lo fece voltare, in quella direzione. Si era abbastanza abituato alla penombra, per  riuscire a riconoscere quel fluttuare corvino dei suoi capelli e il bianco sfrusciante della sua camicia da notte, che le sfiorava le caviglie spoglie.
Phoebe si guardò intorno con circospezione, osservando attentamente gli altri letti occupati, prima di accorgersi di lui, appoggiato alla parete dalla parte opposta. I suoi occhi erano così abituati, che riuscirono ad intravedere anche il rossore che le imporporò le guance, quando i loro sguardi si trovarono.
< Ciao…> abbozzò lei, in un sussurro esitante, alzando la mano in un gesto di saluto. < Non…non pensavo che fossi sveglio…>
< Ti aspettavo > rispose lui, tranquillo, accennando appena al temporale fuori. Si riportò il bicchiere alla bocca e lo svuotò in un unico sorso.
La ragazza esitò, come se avesse paura di ciò che voleva chiedere. Si portò le mani al petto, cominciando a torturarle fra loro, mentre gli lanciava piccoli sguardi dal basso, cercando il coraggio, per parlare. Poi, alla fine, domandò:
< Allora…posso…dormire insieme a te, stanotte?>
< Il letto è lì, Phoebe > disse Tom semplicemente, rivolgendole un sorriso.
Anche sul viso di lei comparve un sorriso, uno dei suoi inconfondibili sorrisi pieni di gioia, che non erano mai cambiati, in tutti quegli anni. L’ennesimo tuono si schiantò contro il cielo, tramutando all’istante la sua espressione. La ragazza si portò prontamente le mani alle orecchie, nello stesso modo in cui, notò il ragazzo, dall’altra parte della stanza, lo faceva quando era piccola. Appena il rumore cessò, Phoebe raggiunse con passi rapidi il letto dell’altro, accucciandovisi sopra, in ginocchio. Rimase a fissarlo, con una fin troppo evidente ansia negli occhi, mentre si allontanava dal muro, con passo calmo, per poi avvicinarsi al comodino e riposarvi sopra il bicchiere. Non gli staccò gli occhi di dosso, come se avesse temuto che la lasciasse da sola, durante quel temporale, nemmeno quando arrivò in prossimità del materasso e, con gesti rapidi e precisi, sciolse i nodi delle corde di tessuto che tenevano legati i drappi verdi del letto a baldacchino. Prima quelli sul lato sinistro del letto. Poi su quello corto, ai piedi del letto. Ed infine sciolse quello del lato destro, sgattaiolando dentro. La ragazza si sentì molto più sollevata: quelle tre pareti di stoffa la facevano sentire protetta. Le sembrò di sentire a malapena i rumori della pioggia, fuori dalla finestra. Ma…forse non erano i drappi del baldacchino, a farla sentire così.
Non appena Tom si lasciò cadere sul materasso, lei si sdraiò su un fianco, dandogli le spalle. Si lasciò avvolgere dall’odore intenso del ragazzo, che ancora impregnava il cuscino, chiudendo gli occhi, mentre lui le faceva scivolare addosso le coperte, per poi sdraiarsi accanto a lei, con il petto appoggiato alla sua schiena. Rimasero così. Senza dire nulla, perché non c’era nulla da dire.
Il ragazzo, incapace di riprendere sonno, ascoltava assorto il lieve suono del suo respiro, mentre faceva scorrere con lentezza le dita fra quei capelli spessi e dritti, seguendo poi distrattamente la curva dei boccoli finali e cospargendole la nuca di baci leggeri.
Lo faceva perdere. Lo salvava.
Phoebe, improvvisamente, cominciò a muoversi, come se fosse infastidita da qualcosa e, con movimenti un po’ impacciati, a causa delle coperte che la ostacolavano, cambiò posizione, portando così il proprio viso verso di lui. Tom fece in tempo solo a registrare come i loro visi fossero esattamente alla stessa altezza. La ragazza si allungò verso il ragazzo, per posargli un fugace bacetto sulle labbra. Questione di mezzo secondo, al massimo un secondo intero, ma che bastò a lui per assaggiare il sapore caldo ed umido della bocca di Phoebe e per godersi il tocco soave delle punte delle sue dita, che gli sfioravano le guance.
< Buonanotte, Tom > gli mormorò come giustifica a quel gesto, dopo che si fu di nuovo allontanata, sorridendogli radiosa. Poi, senza aggiungere altro, ritornò alla sua posizione iniziale, riappoggiando nuovamente la schiena contro il suo petto. Ma, questa volta, portò con sé anche la mano del ragazzo, che aveva intrecciato con forza alla sua, posandosela sul grembo. Non ci mise molto ad addormentarsi: lui se ne accorse da come il suo respiro era diventato più profondo e regolare. Il temporale aveva continuato a rumoreggiare, ma lei non c’aveva fatto più caso. Quando, dopo qualche tempo, cominciò a sentire gli occhi bruciare per la stanchezza, spostò la testa più vicino alla ragazza, affondando il viso nell’abisso scuro dei suoi capelli. Poi, senza allontanare la mano di lei, che sembrava incastrarsi alla perfezione con la sua, portò la propria mano appena sotto i suoi seni, dove lo ritrovò.
Tum.
Tum.
Tum.
Rassicurato da quel suono, chiuse finalmente gli occhi, lasciandosi avvolgere e cominciando a fare quella cosa che, da quella notte di temporale, non aveva più smesso di fare.
 
1…
2…
3…
 
…77.
 
 
Angolo dell’autore.
Salve a tutti!! Per chi non mi conoscesse, io sono Latis. E’ bene che voi sappiate che sono una grandissima fan di Tom Riddle/Lord Voldemort, quindi, se deciderete di seguirmi, dovete partire con la consapevolezza che scriverò soprattutto di lui (o, al massimo, di qualche altro Serpeverde).
 
Qualche piccola informazione su questa One-Shot, PER CHI NON MI CONOSCE: è una specie di “capitolo aggiuntivo” alla mia storia “Dove ci sei tu, ecco, quella è casa mia” (se aveste piacere di darci una sbirciatina, io ne sarei felicissima!!)
Brevemente, questo racconto parla della storia d’amore tra Tom Riddle, futuro Lord Voldemort, e la sua amica d’infanzia (personaggio completamente mio), Phoebe Hool. Se volete saperne di più, venite a trovarmi!!
 
PER CHI, INVECE, MI CONOSCE E MI SEGUE: questa One-Shot è un mio regalo per voi, per rendervi più sopportabile questo momento difficile della storia e per darvi un piccolo assaggio di ciò che è stato e di ciò che sarà. Fatemi sapere cosa ne pensate, ok?!
 
Mando un bacio a tutti.
Con affetto,
Latis.
 
P.S. Essendo Phoebe, per me, quasi come una figlia, ho deciso di donarle una delle mie paure. Eh sì, ho paura dei tuoni. Sono un caso disperato :) 
Ciao!!
   
 
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