“Mecenate,
oh Mecenate, è terribile! Fa’ sellare un cavallo,
presto!”
Il
sole ardeva limpido fuori dalla finestra e Mecenate si accorse, nello
svegliarsi bruscamente, di essersi appisolato senza volerlo sul lettino
della
sala e di aver dormito per almeno due ore. Balzato giù
seduta stante dal
lettino, egli accorse sbadigliando alla porta della sua modesta villa
di Ostuni,
presso Brindisi, e guardò fuori, tutto assonnato e cisposo. Ecco, c’era un
tale che risaliva il sentiero
tutto affannato: era il servitore di Virgilio, e
nell’accorgersene il cuore di
Mecenate diede in un sobbalzo. Ma come? Eppure egli aveva accompagnato
Virgilio
nel suo viaggio in Grecia! Si avviò a passo svelto lungo il
sentiero, verso di
lui. avrebbe voluto correre, ma ormai era troppo vecchio per poterlo
fare.
“Gneo!
Che succede? Che cosa ci fai qui?”
S’incrociarono
sulla stradina tortuosa che serpeggiava tra i campi: Gneo era tutto
rosso e
affannato.
“Mecenate,
è terribile! Il mio padrone è tornato di furia in
Italia per una gran febbre
che non accenna a passare…”
“Virgilio…malato?”
mormorò Mecenate con voce rotta. “Ma non
sarà mica grave, vero? Che cos’è?
Dov’è ora?”
“È
sbarcato a Brindisi ormai, è in una casa in fondo alla via
Appia e mi ha
mandato a chiamarti di corsa a cavallo perché tu lo
sapessi… oh, per favore,
Mecenate, fai sellare un cavallo e corri da lui, presto!”
“Va
bene” mormorò Mecenate. “Va
bene…”
Era
sbiancato d’un colpo, eppure non sembrava aver compreso
appieno ciò che Gneo
gli aveva detto. Pareva assorto, confuso. Si avviò a piccoli
passi verso la
villa, passandosi una stanca mano tra i candidi capelli sfoltiti. Gneo
lo seguiva
da presso, stravolto, tremante per lo sforzo e l’emozione,
come a volerlo
pregare di fare in fretta, di non perdere tempo, di comprendere la
gravità
della situazione; ma Mecenate non accennava ad affrettarsi.
Entrò in casa e
cominciò ad afferrare oggetti a casaccio, ora una mantella
leggera, ora una
tavoletta per scrivere, e a spostarle e rispostarle senza metterle da
nessuna
parte. Si guardava intorno, è vero, ma con uno strano
sguardo vacuo, cieco,
distaccato…
“Mecenate…”mormorava
Gneo torcendosi le mani, con tutti i suoi nervi che parevano urlare:
“Andiamo!
Andiamo!”. Ma Mecenate non si muoveva.
Infine,
come percorso da un brivido, egli si riscosse e barcollò.
Cadde seduto sul suo
lettino, vi si aggrappò con la massima forza e
urlò: “Sesto! Vieni, presto!”.
Era un suo liberto, che ancora, malgrado la libertà, forse
per non saper dove
andare, lo accompagnava e serviva, fedele come un cane; e infatti
arrivò
subito, un vecchierello incanutito e tremante, ma pieno di vita.
Alzatosi,
Mecenate si era rimesso a girare per la stanza, tornando ad afferrare
oggetti,
ma ora come spinto da una più precisa volontà: un
pesante mantello di lana, una
manciata di monete.
“Sesto,
devo partire, affrettarmi…per Brindisi… Virgilio,
ma io… ah, manda un messaggio
a Marco per dirgli che non potrò venire stasera, e fammi
preparare un
cavallo…tornerò…ma non
domani…oh, muoviti!” urlò rivolto a
Sesto, che gli
pareva attardarsi. “Prima il cavallo e poi il messaggio,
forza! Oh, stupido
vecchio” borbottò, mentre il suo mantello
vorticava e gli si avvolgeva addosso
fasciandolo. “Ma dimmi, Sesto…oh, Gneo, intendevo
dire…non capisco nulla! Com’è
accaduto? Stavo dormendo…”
Così
Gneo gli raccontò l’accaduto, tutto dal giorno in
cui Virgilio aveva incontrato
il novello Augusto in Grecia e questi, preoccupato dal suo aspetto
tanto
pallido e malaticcio, lo aveva invogliato a tornarsene in Italia. Il
patetico
viaggio in mare, le lunghe giornate interminabili che Virgilio
trascorreva un
po’ al chiuso e un po’
in coperta, sotto
un gazebo solo parzialmente coperto dai gelidi venti, ma almeno un
po’ più
aperto delle nauseanti sottocoperte, cosa che non impediva a Virgilio
di avere
nausee continue e di vomitare continuamente. E, per finire, la lunga
sosta
fuori dalla baia, ad aspettare che cambiasse la marea per entrare in
porto, e
la dolce preghiera di Virgilio al suo servitore:
“Ti
prego, raggiungi la costa in qualsiasi modo, va’ da Mecenate
e pregalo,
scongiuralo di raggiungermi, e se non vorrà venire digli che
deve venire a
salvarmi, non dalla malattia, ma nell’unico modo in cui ormai
può salvarmi.”
Ma
alla fine Mecenate fu pronto e il cavallo bardato, e il povero
cavaliere,
abbandonato Gneo, partì di corsa per Brindisi, tutto avvolto
in un grande
mantello pesante per ripararsi dal freddo del sei di dicembre,
attraverso il
vento e il gelo e, dopo poco, contro la notte e il buio e i pericoli
dell’oscurità. Egli aveva paura, ma non dei ladri
o degli assassini: sentiva
che una parte della sua vita stava vacillando e forse cedendo, e che vi
era
qualcosa cui il suo cuore anelava e che si trovava ogni momento
più vicino, e
insieme irrimediabilmente distante. Egli era solo su quella via Appia
che non
gli era mai parsa tanto ostile e buia e la percorreva di volata, senza
più
curarsi della sua grande storia, ma tutto proteso verso il grande
desiderio del
suo cuore…
Infine,
le porte di Brindisi all’orizzonte: egli continuò
ad avanzare, raggiunse la
modesta casa vicino al porto, in fondo alla via Appia, proprio come gli
aveva
detto Gneo. Eccola, la casa, il giardino, la porta. Mecenate
fermò il cavallo a
pochi passi dall’entrata, mandando una voce per avvertire del
suo arrivo. Non
ce la faceva più: non era fatto per cavalcare, lui. Non era
fatto per molte
cose, Mecenate: per cavalcare, perché era ricco e poco
atletico, e a quanto
aveva appreso negli ultimi anni, non era fatto per capire la gente. Ma
ora era
tardi per rimediare.
Si
sentiva le gambe tutte intorpidite e informicolite per il freddo e per
il
prolungamento di una posizione forzata a lui nuova, tremava in tutto il
corpo e
non gli riusciva di sollevare la gamba abbastanza da riuscire a
scendere da
cavallo: se appena provava a farlo, si ritrovava a pendere tutto da una
parte,
minacciando pericolosamente di cadere.
“Aiuto!”
singhiozzò avidamente, col cuore in gola e la voce spezzata.
“Aiutatemi, vi
prego! Sono qua fuori!”
La
porta si spalancò dopo un momento: Mecenate, ancora
aggrappato alle collo del
suo cavallo, scorse un’ombra scura stagliarsi contro la magra
luce di un
camino. Un attimo dopo, era accanto al cavallo, lo staccava dalla
sella: era
Plozio Tucca, amico di Virgilio.
“Mecenate!
Ti ha mandato a chiamare Gneo, vero?”.
Mecenate
gli rivolse uno stanco gesto d’assenso, appoggiandosi a lui
con gambe molli che
non gli rispondevano più.
“Dov’è
Virgilio? È…?”
Non
riuscì a dirlo. Guardava Tucca con occhi spaventati e
imploranti. Egli scosse
il capo.
“È
a
letto. Prima stava dormendo, ma ora non lo so più. Oh,
fortuna che sei
arrivato! Non ha chiesto che di te da quando è sceso dalla
nave. Vieni.”
Si
diressero
insieme verso l’edificio: via via che camminava, appoggiato a
lui, Mecenate si
sentiva sempre più tornare padrone delle proprie gambe. Una
volta dentro,
percorso un breve corridoio, Tucca aprì una porta e gli fece
cenno di entrare. Lui
avrebbe atteso fuori. Mecenate entrò e chiuse la porta.
Vi
era
un lettino di modeste dimensioni al centro della stanza, che era molto
buia, a
parte per una fiammella che ardeva su un tavolo di legno. Col cuore in
gola,
Mecenate si accostò al lettino e si chinò a
guardare.
Vide
Virgilio, il suo caro e amato Virgilio, col volto reclinato su una
spalla e gli
occhi chiusi, e il suo viso di uomo cinquantenne pareva risplendere
nella luce
della torcia.
Mecenate
fu colto dai dubbi. Che fare? Svegliarlo, parlargli un’ultima
volta,
consacrargli ancora una volta la propria vita? Oppure lasciarlo
dormire, nella
speranza, seppur vana, di vederlo svegliarsi guarito? Sì, ma
se d’un tratto
avesse visto il suo petto abbassarsi nel ritmico movimento del respiro,
e poi
non rialzarsi più, senza averlo potuto salutare, baciare per
l’ultima volta…?
Ma
poi,
a toglierlo d’impaccio, vi fu il brusco risveglio di
Virgilio: d’un tratto egli
sussultò, aprì gli occhi, si agitò, lo
guardò. Il suo volto s’illuminò
dolcemente di una luce che non aveva nulla a che fare con quella della
torcia
ed egli mormorò sorridendo: “Ehi,
Mecenate…sei qui.”
“Sì”
disse l’uomo chinandosi su di lui, e a quella vista il suo
sorriso si addolcì
ancora.
“Credevo
che Gneo non ce l’avrebbe fatta. Ora sono molto
più tranquillo” disse Virgilio.
I suoi occhi erano spenti e lucidi, ma egli appariva sereno.
“Certo
che puoi stare tranquillo. Ora è tutto a posto, e tra
poco…”
Avrebbe
voluto dirgli che sarebbe tutto finito entro breve, ma non voleva
angustiarlo:
in quale senso Virgilio avrebbe inteso le sue parole? Allora gli prese
la mano
e la strinse forte, come per non volerlo lasciare. Virgilio chiuse gli
occhi e
si appoggiò alla sua mano.
“Mecenate…ascolta.
La mia Eneide, il mio poema, non è concluso. Non lo
è, anche se lo può sembrare,
perciò ti prego, mio caro, promettimi che lo farai bruciare
dopo la mia morte!”
“Ma
Virgilio, la tua Eneide…ci hai lavorato
tantissimo!” esclamò Mecenate, incapace
di trattenersi. Virgilio fece cenno di no col capo.
“Lo
so, lo so, ormai sono dieci anni, ma…sento di non essere
riuscito a esprimere
tutto ciò che volevo. Non posso pensare che il mondo legga
qualcosa che ho
lasciato incompiuto, ti prego…fallo bruciare. L’ho
detto a Tucca e anche a
Vario, ma tu sei il solo di cui mi possa davvero fidare. Me lo
prometti?”
“Oh,
stupido caro! Farò bruciare il tuo capolavoro se vuoi,
farò tutto quello che
vuoi. Ma tu ora stai tranquillo e riposati.”
“Me
lo prometti?” insisté Virgilio. Mecenate si
sentiva scoppiare il cuore nel
sentirsi affidare così, in punto di morte, quel triste
testamento, e tuttavia
non poteva sottrarsi al proprio compito.
“Certo,
te lo prometto. Farò tutto quello che vuoi, ma tu ora
riposati.”
Virgilio
appoggiò il capo alla sua mano e chiuse gli occhi, traendo
un profondo respiro.
Mecenate vide come delle gocce lucenti scintillare sulle sue ciglia
nere e
ammutolì.
“Ehi,
Mecenate” mormorò ancora Virgilio con voce rauca.
“Ti ricordi quella notte,
tanti anni fa…quella notte in casa tua, quando avevo preso
quella cosa e tu
restasti per tutta la notte con me?”
“Certo
che me ne ricordo” rispose Mecenate.
“È
proprio come allora, eh? Proprio come quella notte.”
“Certo,
mio caro” disse Mecenate a bassa voce.
“Ma
io ero molto più giovane. Ed ero molto più bello,
eh? Ti ricordi com’ero? Con le
mie tuniche colorate e i miei mantelli…”
“Me
lo ricordo” disse Mecenate con voce spezzata.
“Dovrai
accettare la mia morte, lo sai. Tutto accade per un motivo, il logos
che guida
le nostre esistenze. E comunque, prima o poi torneremo su questa Terra,
noi
vite mortali, e io e te ci ameremo ancora. Come ci siamo amati in tutti
questi
anni a Roma, e come forse ci siamo amati in infiniti cicli passati,
senza che
ce ne ricordiamo.”
“Sarebbe
bello” convenne Mecenate con voce infranta. “Ma
riposa, ti prego, mio caro
sciocco, riposati un po’.”
“No,
non voglio risposarmi. A che cosa servirebbe? Non mi resta molto tempo
e voglio
passarlo con te. Ma tu non agitarti, eh! La mia morte avrà
qualche ragione che
io e te non conosciamo, che forse nessuno conosce, ma che di certo
c’è. Forse non
avrei dovuto andare in Grecia, ma ormai è troppo tardi. Il
mio viaggio mi ha
ucciso, ma ti prego, non avercela con me.”
“Non
ce l’ho con te.”
“Forse
mi odi un po’, perché se fossi rimasto a Roma,
forse ora non starei per morire.”
“Virgilio”
lo interruppe Mecenate con le lacrime agli occhi “Da quando
ti ho conosciuto,
non ti ho mai odiato meno di così.”
Virgilio
spalancò gli occhi e ridacchiò dolcemente.
Mecenate si sentiva stringere il
cuore: gli sembrava che Virgilio si stesse sempre più
allontanando da lui,
anche se lui avrebbe voluto opporsi, combattere, salvarlo, strapparlo
dalla
strada che aveva intrapreso…
Poi
Virgilio
trasse un sospiro profondo e reclinò il capo sulla spalla,
chiudendo gli occhi,
e disse quasi senza voce: “Mecenate,
ascoltami….promettimi che sarai molto
calmo dopo la mia morte, che starai tranquillo e che ti ricorderai di
tutte le
cose che ci siamo insegnati in questi anni. Com’era che
diceva Catullo? Ma ora
non c’è tempo per mille baci. Dammi
l’ultimo bacio di questa vita, caro, e non
scordarti di me.”
Mecenate
si asciugò in un tremito le guance, si chinò e
baciò le labbra di Virgilio,
labbra secche e fredde ormai quasi spoglie di vita. E, mentre era chino
su di
lui, sentì d’un tratto il suo petto alzarsi e non
più ridiscendere, proprio
come aveva temuto…rimase a lungo immobile, chino, sul suo
volto, ma a poco a poco
se ne allontanò e lo scrutò con doloroso affanno:
dov’erano i suoi respiri? Dov’era
la vita che esalava da lui, dov’era quella dolcissima vita
che era stata anche
la sua, per un certo periodo? Gli era forse rimasta sulle labbra mentre
lo
baciava?
“Virgilio!”
Vi
fu
rumore di passi, di grida che fecero eco alle sue: Tucca
entrò di corsa mentre
Mecenate si gettava sul cadavere.
“Tucca!
È morto, è morto?”
Tucca
lo guardò con occhi colmi di sbigottimento. Non poteva
vederlo, poiché Mecenate
gli ostruiva la vista, ma come mettere in dubbio la sua reazione e la
strana
innaturale immobilità di Virgilio?
“Mecenate…”
“VIRGILIO!”
Ma
Virgilio non gli rispondeva più. Era nell’unico
posto nel quale Mecenate non
poteva più salvarlo.