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Autore: Afaneia    27/11/2011    2 recensioni
L'autore delle Bucoliche, delle Georgiche e dell'Eneide, l'intellettuale dell'epicureismo e dello stoicismo, il poeta di Ottaviano Augusto, il cantore della virtus Romana: ma chi era veramente Publio Virgilio Marone? Era realmente così come la leggenda lo vuole, timido e schivo? Quali erano realmente i suoi rapporti con il potente Mecenate e com'erano entrati in contatto questi due uomini così diversi?
Siete disposti a scoprirlo?
Genere: Satirico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Mecenate, oh Mecenate, è terribile! Fa’ sellare un cavallo, presto!”

Il sole ardeva limpido fuori dalla finestra e Mecenate si accorse, nello svegliarsi bruscamente, di essersi appisolato senza volerlo sul lettino della sala e di aver dormito per almeno due ore. Balzato giù seduta stante dal lettino, egli accorse sbadigliando alla porta della sua modesta villa di Ostuni, presso Brindisi, e guardò fuori, tutto assonnato e cisposo.  Ecco, c’era un tale che risaliva il sentiero tutto affannato: era il servitore di Virgilio, e nell’accorgersene il cuore di Mecenate diede in un sobbalzo. Ma come? Eppure egli aveva accompagnato Virgilio nel suo viaggio in Grecia! Si avviò a passo svelto lungo il sentiero, verso di lui. avrebbe voluto correre, ma ormai era troppo vecchio per poterlo fare.

“Gneo! Che succede? Che cosa ci fai qui?”

S’incrociarono sulla stradina tortuosa che serpeggiava tra i campi: Gneo era tutto rosso e affannato.

“Mecenate, è terribile! Il mio padrone è tornato di furia in Italia per una gran febbre che non accenna a passare…”

“Virgilio…malato?” mormorò Mecenate con voce rotta. “Ma non sarà mica grave, vero? Che cos’è? Dov’è ora?”

“È sbarcato a Brindisi ormai, è in una casa in fondo alla via Appia e mi ha mandato a chiamarti di corsa a cavallo perché tu lo sapessi… oh, per favore, Mecenate, fai sellare un cavallo e corri da lui, presto!”

“Va bene” mormorò Mecenate. “Va bene…”

Era sbiancato d’un colpo, eppure non sembrava aver compreso appieno ciò che Gneo gli aveva detto. Pareva assorto, confuso. Si avviò a piccoli passi verso la villa, passandosi una stanca mano tra i candidi capelli sfoltiti. Gneo lo seguiva da presso, stravolto, tremante per lo sforzo e l’emozione, come a volerlo pregare di fare in fretta, di non perdere tempo, di comprendere la gravità della situazione; ma Mecenate non accennava ad affrettarsi. Entrò in casa e cominciò ad afferrare oggetti a casaccio, ora una mantella leggera, ora una tavoletta per scrivere, e a spostarle e rispostarle senza metterle da nessuna parte. Si guardava intorno, è vero, ma con uno strano sguardo vacuo, cieco, distaccato…

“Mecenate…”mormorava Gneo torcendosi le mani, con tutti i suoi nervi che parevano urlare: “Andiamo! Andiamo!”. Ma Mecenate non si muoveva.

Infine, come percorso da un brivido, egli si riscosse e barcollò. Cadde seduto sul suo lettino, vi si aggrappò con la massima forza e urlò: “Sesto! Vieni, presto!”. Era un suo liberto, che ancora, malgrado la libertà, forse per non saper dove andare, lo accompagnava e serviva, fedele come un cane; e infatti arrivò subito, un vecchierello incanutito e tremante, ma pieno di vita.

Alzatosi, Mecenate si era rimesso a girare per la stanza, tornando ad afferrare oggetti, ma ora come spinto da una più precisa volontà: un pesante mantello di lana, una manciata di monete.

“Sesto, devo partire, affrettarmi…per Brindisi… Virgilio, ma io… ah, manda un messaggio a Marco per dirgli che non potrò venire stasera, e fammi preparare un cavallo…tornerò…ma non domani…oh, muoviti!” urlò rivolto a Sesto, che gli pareva attardarsi. “Prima il cavallo e poi il messaggio, forza! Oh, stupido vecchio” borbottò, mentre il suo mantello vorticava e gli si avvolgeva addosso fasciandolo. “Ma dimmi, Sesto…oh, Gneo, intendevo dire…non capisco nulla! Com’è accaduto? Stavo dormendo…”

Così Gneo gli raccontò l’accaduto, tutto dal giorno in cui Virgilio aveva incontrato il novello Augusto in Grecia e questi, preoccupato dal suo aspetto tanto pallido e malaticcio, lo aveva invogliato a tornarsene in Italia. Il patetico viaggio in mare, le lunghe giornate interminabili che Virgilio trascorreva un po’ al chiuso e un po’  in coperta, sotto un gazebo solo parzialmente coperto dai gelidi venti, ma almeno un po’ più aperto delle nauseanti sottocoperte, cosa che non impediva a Virgilio di avere nausee continue e di vomitare continuamente. E, per finire, la lunga sosta fuori dalla baia, ad aspettare che cambiasse la marea per entrare in porto, e la dolce preghiera di Virgilio al suo servitore:

“Ti prego, raggiungi la costa in qualsiasi modo, va’ da Mecenate e pregalo, scongiuralo di raggiungermi, e se non vorrà venire digli che deve venire a salvarmi, non dalla malattia, ma nell’unico modo in cui ormai può salvarmi.”

Ma alla fine Mecenate fu pronto e il cavallo bardato, e il povero cavaliere, abbandonato Gneo, partì di corsa per Brindisi, tutto avvolto in un grande mantello pesante per ripararsi dal freddo del sei di dicembre, attraverso il vento e il gelo e, dopo poco, contro la notte e il buio e i pericoli dell’oscurità. Egli aveva paura, ma non dei ladri o degli assassini: sentiva che una parte della sua vita stava vacillando e forse cedendo, e che vi era qualcosa cui il suo cuore anelava e che si trovava ogni momento più vicino, e insieme irrimediabilmente distante. Egli era solo su quella via Appia che non gli era mai parsa tanto ostile e buia e la percorreva di volata, senza più curarsi della sua grande storia, ma tutto proteso verso il grande desiderio del suo cuore…

Infine, le porte di Brindisi all’orizzonte: egli continuò ad avanzare, raggiunse la modesta casa vicino al porto, in fondo alla via Appia, proprio come gli aveva detto Gneo. Eccola, la casa, il giardino, la porta. Mecenate fermò il cavallo a pochi passi dall’entrata, mandando una voce per avvertire del suo arrivo. Non ce la faceva più: non era fatto per cavalcare, lui. Non era fatto per molte cose, Mecenate: per cavalcare, perché era ricco e poco atletico, e a quanto aveva appreso negli ultimi anni, non era fatto per capire la gente. Ma ora era tardi per rimediare.

Si sentiva le gambe tutte intorpidite e informicolite per il freddo e per il prolungamento di una posizione forzata a lui nuova, tremava in tutto il corpo e non gli riusciva di sollevare la gamba abbastanza da riuscire a scendere da cavallo: se appena provava a farlo, si ritrovava a pendere tutto da una parte, minacciando pericolosamente di cadere.

“Aiuto!” singhiozzò avidamente, col cuore in gola e la voce spezzata. “Aiutatemi, vi prego! Sono qua fuori!”

La porta si spalancò dopo un momento: Mecenate, ancora aggrappato alle collo del suo cavallo, scorse un’ombra scura stagliarsi contro la magra luce di un camino. Un attimo dopo, era accanto al cavallo, lo staccava dalla sella: era Plozio Tucca, amico di Virgilio.

“Mecenate! Ti ha mandato a chiamare Gneo, vero?”.

Mecenate gli rivolse uno stanco gesto d’assenso, appoggiandosi a lui con gambe molli che non gli rispondevano più.

“Dov’è Virgilio? È…?”

Non riuscì a dirlo. Guardava Tucca con occhi spaventati e imploranti. Egli scosse il capo.

“È a letto. Prima stava dormendo, ma ora non lo so più. Oh, fortuna che sei arrivato! Non ha chiesto che di te da quando è sceso dalla nave. Vieni.”

Si diressero insieme verso l’edificio: via via che camminava, appoggiato a lui, Mecenate si sentiva sempre più tornare padrone delle proprie gambe. Una volta dentro, percorso un breve corridoio, Tucca aprì una porta e gli fece cenno di entrare. Lui avrebbe atteso fuori. Mecenate entrò e chiuse la porta.

Vi era un lettino di modeste dimensioni al centro della stanza, che era molto buia, a parte per una fiammella che ardeva su un tavolo di legno. Col cuore in gola, Mecenate si accostò al lettino e si chinò a guardare.

Vide Virgilio, il suo caro e amato Virgilio, col volto reclinato su una spalla e gli occhi chiusi, e il suo viso di uomo cinquantenne pareva risplendere nella luce della torcia.

Mecenate fu colto dai dubbi. Che fare? Svegliarlo, parlargli un’ultima volta, consacrargli ancora una volta la propria vita? Oppure lasciarlo dormire, nella speranza, seppur vana, di vederlo svegliarsi guarito? Sì, ma se d’un tratto avesse visto il suo petto abbassarsi nel ritmico movimento del respiro, e poi non rialzarsi più, senza averlo potuto salutare, baciare per l’ultima volta…?

Ma poi, a toglierlo d’impaccio, vi fu il brusco risveglio di Virgilio: d’un tratto egli sussultò, aprì gli occhi, si agitò, lo guardò. Il suo volto s’illuminò dolcemente di una luce che non aveva nulla a che fare con quella della torcia ed egli mormorò sorridendo: “Ehi, Mecenate…sei qui.”

“Sì” disse l’uomo chinandosi su di lui, e a quella vista il suo sorriso si addolcì ancora.

“Credevo che Gneo non ce l’avrebbe fatta. Ora sono molto più tranquillo” disse Virgilio. I suoi occhi erano spenti e lucidi, ma egli appariva sereno.

“Certo che puoi stare tranquillo. Ora è tutto a posto, e tra poco…”

Avrebbe voluto dirgli che sarebbe tutto finito entro breve, ma non voleva angustiarlo: in quale senso Virgilio avrebbe inteso le sue parole? Allora gli prese la mano e la strinse forte, come per non volerlo lasciare. Virgilio chiuse gli occhi e si appoggiò alla sua mano.

“Mecenate…ascolta. La mia Eneide, il mio poema, non è concluso. Non lo è, anche se lo può sembrare, perciò ti prego, mio caro, promettimi che lo farai bruciare dopo la mia morte!”

“Ma Virgilio, la tua Eneide…ci hai lavorato tantissimo!” esclamò Mecenate, incapace di trattenersi. Virgilio fece cenno di no col capo.

“Lo so, lo so, ormai sono dieci anni, ma…sento di non essere riuscito a esprimere tutto ciò che volevo. Non posso pensare che il mondo legga qualcosa che ho lasciato incompiuto, ti prego…fallo bruciare. L’ho detto a Tucca e anche a Vario, ma tu sei il solo di cui mi possa davvero fidare. Me lo prometti?”

“Oh, stupido caro! Farò bruciare il tuo capolavoro se vuoi, farò tutto quello che vuoi. Ma tu ora stai tranquillo e riposati.”

“Me lo prometti?” insisté Virgilio. Mecenate si sentiva scoppiare il cuore nel sentirsi affidare così, in punto di morte, quel triste testamento, e tuttavia non poteva sottrarsi al proprio compito.

“Certo, te lo prometto. Farò tutto quello che vuoi, ma tu ora riposati.”

Virgilio appoggiò il capo alla sua mano e chiuse gli occhi, traendo un profondo respiro. Mecenate vide come delle gocce lucenti scintillare sulle sue ciglia nere e ammutolì.

“Ehi, Mecenate” mormorò ancora Virgilio con voce rauca. “Ti ricordi quella notte, tanti anni fa…quella notte in casa tua, quando avevo preso quella cosa e tu restasti per tutta la notte con me?”

“Certo che me ne ricordo” rispose Mecenate.

“È proprio come allora, eh? Proprio come quella notte.”

“Certo, mio caro” disse Mecenate a bassa voce.

“Ma io ero molto più giovane. Ed ero molto più bello, eh? Ti ricordi com’ero? Con le mie tuniche colorate e i miei mantelli…”

“Me lo ricordo” disse Mecenate con voce spezzata.

“Dovrai accettare la mia morte, lo sai. Tutto accade per un motivo, il logos che guida le nostre esistenze. E comunque, prima o poi torneremo su questa Terra, noi vite mortali, e io e te ci ameremo ancora. Come ci siamo amati in tutti questi anni a Roma, e come forse ci siamo amati in infiniti cicli passati, senza che ce ne ricordiamo.”

“Sarebbe bello” convenne Mecenate con voce infranta. “Ma riposa, ti prego, mio caro sciocco, riposati un po’.”

“No, non voglio risposarmi. A che cosa servirebbe? Non mi resta molto tempo e voglio passarlo con te. Ma tu non agitarti, eh! La mia morte avrà qualche ragione che io e te non conosciamo, che forse nessuno conosce, ma che di certo c’è. Forse non avrei dovuto andare in Grecia, ma ormai è troppo tardi. Il mio viaggio mi ha ucciso, ma ti prego, non avercela con me.”

“Non ce l’ho con te.”

“Forse mi odi un po’, perché se fossi rimasto a Roma, forse ora non starei per morire.”

“Virgilio” lo interruppe Mecenate con le lacrime agli occhi “Da quando ti ho conosciuto, non ti ho mai odiato meno di così.”

Virgilio spalancò gli occhi e ridacchiò dolcemente. Mecenate si sentiva stringere il cuore: gli sembrava che Virgilio si stesse sempre più allontanando da lui, anche se lui avrebbe voluto opporsi, combattere, salvarlo, strapparlo dalla strada che aveva intrapreso…

Poi Virgilio trasse un sospiro profondo e reclinò il capo sulla spalla, chiudendo gli occhi, e disse quasi senza voce: “Mecenate, ascoltami….promettimi che sarai molto calmo dopo la mia morte, che starai tranquillo e che ti ricorderai di tutte le cose che ci siamo insegnati in questi anni. Com’era che diceva Catullo? Ma ora non c’è tempo per mille baci. Dammi l’ultimo bacio di questa vita, caro, e non scordarti di me.”

Mecenate si asciugò in un tremito le guance, si chinò e baciò le labbra di Virgilio, labbra secche e fredde ormai quasi spoglie di vita. E, mentre era chino su di lui, sentì d’un tratto il suo petto alzarsi e non più ridiscendere, proprio come aveva temuto…rimase a lungo immobile, chino, sul suo volto, ma a poco a poco se ne allontanò e lo scrutò con doloroso affanno: dov’erano i suoi respiri? Dov’era la vita che esalava da lui, dov’era quella dolcissima vita che era stata anche la sua, per un certo periodo? Gli era forse rimasta sulle labbra mentre lo baciava?

“Virgilio!”

Vi fu rumore di passi, di grida che fecero eco alle sue: Tucca entrò di corsa mentre Mecenate si gettava sul cadavere.

“Tucca! È morto, è morto?”

Tucca lo guardò con occhi colmi di sbigottimento. Non poteva vederlo, poiché Mecenate gli ostruiva la vista, ma come mettere in dubbio la sua reazione e la strana innaturale immobilità di Virgilio?

“Mecenate…”

“VIRGILIO!”

Ma Virgilio non gli rispondeva più. Era nell’unico posto nel quale Mecenate non poteva più salvarlo.

   
 
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