Prima
one-shot inedita della raccolta! ^^
Genere: Dark,
Introspettivo, Slice of Life
Avvertimenti: One-shot, Missing Moments, What if?
Rating: Giallo
Introduzione: Altra
strana one-shot improvvisata.
Questa volta l’ispirazione mi è stata data da un
episodio di Dragon Ball Z, che
avrete modo di riconoscere leggendo la storiella. Mi permetto di
includere qui
un avvertimento “what if”, supponendo che il luogo
in cui si svolge questa
storia sia facilmente raggiungibile in un paio di giorni di viaggio. In
realtà
ciò su cui volevo soffermarmi è proprio
l’aspetto introspettivo dell’intera
one-shot, spero quindi che perdonerete la piccola libertà
che mi sono presa. Buona
lettura! ^^
Ricordi
d’infanzia
Il rumore
sordo dei loro passi echeggiava nell’edificio abbandonato in
modo sinistro.
Erano soli, completamente soli, non un’anima viva abitava
quel luogo lasciato
completamente a se stesso. Di tanto in tanto, il loro passaggio causava
il
distacco di qualche pezzo di muratura, troppo fragile persino per
reggere alle
vibrazioni di un respiro.
Il buio era
pressoché totale, tanto che gli occhi del bambino non
riuscivano a distinguere il
vero aspetto di quello strano dedalo. Ma l’aria era pesante,
asfissiante. Era
evidente che quel luogo non era frequentato da diverso tempo. I
corridoi si
susseguivano, uno dietro all’altro, l’uno uguale
all’altro. Alcuni più intatti
di altri, che invece presentavano crepe profonde, echi di passate
battaglie.
Le domande,
sulle labbra del bimbo, erano davvero tante, ma lui non osava proferire
parola.
Seguiva le spalle davanti a lui, la schiena della tetra figura che si
muoveva
senza alcuna incertezza in quell’edificio dimenticato. Gli
occhi azzurri
cercavano sicurezza, comprensione in
quell’oscurità, in quella paura. Era una
sensazione nuova: quel bambino di sicurezza ne aveva sempre avuta
tanta, forse
anche troppa. Così come l’uomo a pochi passi da
lui.
Una nicchia
di ricordi ormai dimenticati. Ecco cos’era
quell’edificio. Eppure il principe
non poteva negare a nessuno, nemmeno a se stesso, che quei corridoi
erano
quanto di più familiare lui potesse conoscere.
Non si
curò
dell’aspetto delle pareti, erano passati diversi anni
dall’ultima volta che
aveva messo piede su quel pianeta. A braccia conserte, Vegeta
percorreva quei
corridoi come se li avesse lasciati solo il giorno prima. Poteva
sentire
ancora, in una zona imprecisata della mente, la voce femminea e
melliflua del
suo vecchio tutore.
Pensare a
quel verme mandò una scarica di rabbia e adrenalina nelle
vene del saiyan.
Strinse i pugni, soffocando un ringhio nato dal più profondo
del suo animo,
dalle radici più innate del suo essere. Non avrebbe mai
dimenticato
l’umiliazione di una vita da schiavo, piegato contro il suo
volere da un essere
di cui fin dalla nascita aveva desiderato la morte.
Tuttavia
Vegeta non poté negare che, in un certo senso, sotto Freezer
aveva potuto dar
sfogo, se non ai suoi desideri più profondi, almeno alla sua
vera personalità.
Lui era e restava dopotutto il principe dei saiyan. Sangue, morte,
terrore e
disperazione lo avevano sempre accompagnato. Avrebbero dovuto farlo per
sempre,
così com’era scritto nelle sue stesse radici. Ma
ora…
“Papà…”
La voce di
Trunks, che lo seguiva in silenzio, ruppe il filo dei suoi pensieri. Lo
aveva
dimenticato, il motivo per cui era lì. Sorrise
impercettibilmente, senza
riuscire a nascondere una certa amarezza, lascito dello scherzo che gli
aveva appena
giocato la sua mente.
“Siamo
arrivati” disse, fermandosi al centro di una sala a forma di
cupola. A
differenza dei corridoi, era illuminata dalla luce fioca delle stelle
che
filtrava attraverso dei buchi più o meno estesi sul soffitto.
Suo figlio
era sempre più sorpreso. “Perché siamo
qui?” chiese allora il bambino, dando voce a una delle
innumerevoli domande che lo tormentavano. Notò delle macchie
scure su alcune
delle macerie, come se un liquido vischioso vi fosse rimasto impregnato
in modo
indelebile per lungo tempo. Ebbe un brivido, e non poté fare
a meno di pensare
che fosse sangue.
Vegeta
sbuffò divertito, poi si fermò al centro della
stanza e si voltò a guardarlo.
“Ti
avevo
promesso che se mi avessi colpito sul viso saremmo andati al parco giochi,
giusto?”
Trunks
annuì, ma in realtà non aveva capito nulla. Non
aveva senso ciò che gli aveva
appena detto suo padre. Si ricordava della promessa, ma non capiva per
quale
motivo avessero utilizzato la navetta della Gravity Room per andare
nello
spazio, in quella che Vegeta aveva definito una “gita di
quattro o cinque
giorni in vista del Torneo Mondiale”. Tuttavia non
osò contraddirlo, perché ora
una luce di sfida brillava dietro gli occhi infiniti del genitore.