Overboard
We can play it safe, or play it cool,
follow the leader, or make up all the rules;
whatever you want, the choice is yours:
so choose!
Heavy
Cross – Gossip
**************
“Ho la sensazione che tu mi stia nascondendo qualcosa.” Disse, fissandola
dritto negli occhi. “E il fatto che io parta questo pomeriggio non gioca a mio
favore.”
Mao non seppe come replicare, pensando che il ragazzo avesse anche
troppa ragione dalla sua parte. Era andata da lui per chiedere timidamente
quando poteva raggiungerlo a Miami, non convincendo nemmeno se stessa ed
ingaggiando una lotta verbale anche troppo lunga. Stavano lì da una buona
mezz’ora, e sentiva di non aver concluso nulla.
Se da un lato vi era il bisogno di sentirsi desiderata senza ma né forse, dall’altro vi era la consapevolezza che i suoi
sentimenti avrebbero deciso per lei.
Lo fissò negli occhi, dedicandogli uno sguardo dispiaciuto. Non sapeva
cosa fare, cosa dire, proprio perché non sapeva da che parte andare.
Ho bisogno di un segno.
Finì appena di pensarlo che il vibrare del suo cellulare si fece
sentire. Lo prese, guardando svogliatamente la novità arrivata… E si sentì svenire.
Era qualcosa di così assurdo e bellissimo insieme da avere il potere di
farle tremare le ginocchia. Aveva bisogno di appoggiarsi a qualcosa, a
qualsiasi cosa, e mentre una parte di lei le diceva che avrebbe dovuto
riflettere, un’altra le suggerì di buttarsi.
“Io non… Posso.” Balbettò, la voce roca. “Hai ragione tu, sono stata
incoerente.”
Stupito da quel repentino cambio di argomento in quattro e quattr’otto,
Kurt la fissò allibito. “Scusa?”
“Forse è meglio che tu parta… Da solo.” Gli comunicò, recuperando più coraggio
possibile. “Io sono stata una cattiva fidanzata, non ti so sorreggere,
sostenere come vorresti, come io vorrei.” Scosse la testa, dispiaciuta.
“Scusa.”
Il ragazzo la fissò in tralice, sbattendo le palpebre. “Mi stai
mollando?”
“…Sì.” Mao lo fissò a lungo, temendo quello che avrebbe potuto fare o
dire. Kurt, invece, stette soltanto in piedi, lo sguardo vitreo come se stesse
pensando a qualcosa di veramente molto complicato. Dopo un paio di minuti
decise che, probabilmente, era meglio lasciarlo da solo per sbollire la cosa.
Prese velocemente le sue cose e lo fissò un’ultima volta, sulle spine. “Mi
dispiace tanto.” Sussurrò per poi chiudersi la porta alle spalle.
Fu una fortuna trovare Jared dall’altro lato del corridoio; Mao gli si
avvicinò immediatamente, richiamandolo. “Credo che il tuo amico abbia bisogno
di te, in questo momento.” Lui le riservò un’occhiata interrogativa. “L’ho
appena lasciato.”
Da ragazzo con aspetto signorile qual era, non si scompose minimamente,
né diede segno di alterarsi. “Sospettavo che l’avresti fatto.” Confessò.
Mao scrollò le spalle. “So di non essere stata la persona migliore
sulla faccia della terra, ma… Credimi. E’ giusto così.”
Lui annuì lentamente, ostentando un breve sorrisino. “Quindi visto che
hai scaricato il mio migliore amico poco fa… Sarebbe illecito se ti invitassi
ad una festa la prossima settimana?” nel vederla strabuzzare gli occhi,
ridacchiò. “Beh, dalla tua faccia, credo di sì.”
Mao rise, nervosa. “Io non posso accettare alcun invito. Non adesso.”
“C’è un altro?”
“No! … Cioè, per ora no.” Balbettò, arrossendo. “Il fatto è che non
voglio fare più casini di quelli che ho già fatto.”
Lui annuì, cordiale. “E se ti procurassi un invito per due a questa
festa? So che non rimarrai negli USA a lungo. Prendila come una scusa per
salutarci.”
All’inizio non seppe che dire, ritrovandosi praticamente senza parole. “Invito…
Per
due?”
“Sì. Per te e per questa persona misteriosa. Ti andrebbe bene?”
Mao sorrise stupidamente, poi annuì. “Allora ci vediamo.” Disse
allegramente, prima di andar via.
Eccolo lì, intento a combattere contro la squadra giapponese:
determinato, fiero, orgoglioso, sicuro di sé… E lei invece lì, pronta a tifare
per lui. Fosse stato possibile si sarebbe alzata in piedi e avrebbe urlato il
suo nome insieme alle altre sciocche ragazzine che si stavano sgolando in
tribuna, ma conservava ancora un briciolo di dignità. O almeno credeva.
Si morse le labbra, pensando che in fondo la parola testardaggine
conservava un significato meno estrinseco di quanto in realtà si potesse
pensare. Il testardo era colui che non si lasciava persuadere, il cocciuto,
l’ostinato; se si voleva, si poteva pure legare il significato della parola con
orgoglioso.
Lei e Yuri erano diversi come il giorno e la notte, differenti come il
polo nord e il sud, distanti come le due cariche opposte, ma una cosa in comune
ce l’avevano: erano testardi, cocciuti, ostinati.
Che qualcosa stesse accadendo tra loro – qualcosa di grosso, di
inusuale, di assolutamente enorme – l’avevano capito tutti, tanto che le
persone attorno a loro solevano fissare prima uno e poi l’altra facendo tanto
d’occhi, studiando la situazione e tentando di carpire i segreti. Inutilmente.
Quel giorno i gemelli Fernandéz non erano al
top della loro forma: Raùl era con la testa sulle
nuvole per chissà quale motivo, fissava ansiosamente prima il campo e poi la
sua fidanzata, e pareva che la testa gli dovesse scoppiare da un momento
all’altro. Julia non stava tanto meglio: generalmente era quella più attiva tra
i due, invece quel giorno pareva essersi proprio spenta per fissare per tutta
la durata dell’incontro un punto del campo con aria sconsolata, nemmeno fosse
accaduto qualcosa di irreparabile.
Improvvisamente l’incontro finì, e la madrilena scattò in piedi, come
punta da un’ape: quei giorni erano parecchio strani per lei, tutti una miscela
di situazioni e sentimenti che non sapeva discernere e catalogare. Voleva solo
andare via, uscire da quello stadio e fuggire a casa sua, rintanarsi nel suo
letto e dormire.
Si diresse verso gli spogliatoi della sua squadra: in quel frangente
una doccia e un cambio di vestiti sarebbero stati l’ideale per lo stato in cui
versava la sua mente. L’acqua della doccia avrebbe creato un nuvolone così
denso da lavare via e portarsi dietro, almeno per un frangente, tutti i cattivi
pensieri e le preoccupazioni.
Entrò nel camerino iniziando a prendere l’accappatoio e il ricambio,
mettendoli alla rinfusa sulla panchina; si tolse le scarpe da ginnastica e
sciolse i capelli dalla coda di cavallo in cui li aveva costretti, ma sobbalzò
di scatto quando sentì un deciso bussare alla porta che la distolse da tutti i
suoi pensieri.
…Yuri Ivanov e la sua faccia tosta.
Pose le braccia conserte, storcendo le labbra in una smorfia. “Sì?”
Il russo la fissò con quel suo sguardo gelido e penetrante che ormai
pareva essere divenuto un suo brand, ed entrò all’interno del camerino senza
nemmeno prendersi il disturbo di dire alcunché per essere invitato. “Hai perso
l’incontro.”
Julia lo fissò con sguardo torvo. “E allora?”
Lui si guardò intorno, poi scrollò le spalle. “Sei un po’ fiacca
ultimamente.”
La madrilena spalancò occhi e bocca con fare sdegnato. “¡Tienes mucha cara!” quando lui la fissò con sguardo interrogativo, bastò quello a farla
esplodere di brutto. “Non poner ed dedo en la llaga para ponerseles los dientes largos a
alguien, no es-”*
“Sì, sì, certo.” sibilò, con fare irritante. “Hola anche a te.”
Lì Julia lo fissò come volesse ucciderlo. “¡No me enchar en cara nada! Yo hablo como-”*¹
Quando si sentì attirata a lui di scatto, a tutto poté pensare in
quella frazione di secondo, tranne che lui l’avrebbe presa per poi baciarla.
Si erano baciati tante e più volte durante quei mesi che avevano
passato come amici, ma mai era capitato che accadesse come in quel frangente:
quando era avvenuto era sempre stato il preludio di qualcosa di più, mai era
accaduto come un bacio e basta.
Julia tuffò le sue dita tra i capelli di lui, dischiudendo le labbra e
lasciandosi andare, sentendo le mani di lui sui suoi fianchi; si sentiva come
stesse veleggiando sulle nuvole, come se avesse tracannato tutto d’un fiato il
più potente degli alcolici che le stava facendo avere una mente confusa e priva
di pensieri.
Ma come quel contatto iniziò, bruscamente finì, e terminò quando lui si
sciolse dalla stretta in cui aveva arpionato la ragazza e la fissò con sguardo
vacuo e non troppo deciso.
“Bene. Io andrei.”
Julia fu in grado soltanto di annuire, gli occhi puntati sul vuoto e la
testa piena di domande; quando lui si chiuse la porta alle spalle, però, non se
lo volle chiedere affatto come mai le iridi le si fossero riempite di lacrime.
Una mezza idea ce l’aveva, però.
* “Che faccia tosta!”… “Non mettere il dito nella piaga per tentare d
farmi diventare invidiosa, non è…”
*¹. “Non me ne frega niente! Io parlo come…”
Sfrecciando a tutta velocità tra i corridoi del Plaza,
si sentiva come se avesse mangiato un elefante. Se non le avesse scritto quel
messaggio, probabilmente non sarebbe nemmeno andata, ma quello cambiava ogni
cosa.
Le scale, doveva prendere le scale.
Mao corse verso la prima rampa saltellando e facendosi gradini pure a
due a due, tanta era l’agitazione che la scuoteva. Sentiva un misto di
contentezza e paura, l’adrenalina era solo un fattore aggiuntivo.
Arrivò al piano incriminato solo parecchi secondi dopo, secondi che le
parvero ore. Con il cuore in gola cercò la stanza alla quale nei giorni
frequenti aveva bussato così spesso, e la trovò. Bussò con un tocco quasi ridondante
ed isterico, che rifletteva la sua voglia di aggiustare ogni cosa.
…E quando le venne ad aprire lui, non poté fare a meno di sorridere,
radiosa.
“Ciao.” Esalò arrossendo, ravviandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Lui probabilmente non doveva aspettarsi quella visita, perché strabuzzò
gli occhi per poi sorridere dolcemente. “Ciao.”
Con il cuore che scandiva i battiti furiosi del tempo e il respiro
quasi mancante, Mao si morse le labbra, cercando di tirar fuori il coraggio
necessario per affrontare quel discorso. “Ho letto il tuo sms.” Bisbigliò,
sorridendogli. “Pensi davvero quello che hai scritto?”
“Sì.”
Quando quella sola sillaba le arrivò alle orecchie, bastò per scatenare
una serie di emozioni talmente forti da non credere fosse possibile provarle
tutte insieme. Gli sorrise, raggiante, e ricambiò ampiamente il bacio quando le
labbra di lui si posarono sulle sue.
Quelle erano cose che avvenivano nei suoi sogni, non nella realtà.
Eppure in quel frangente, sdraiati comodamente sul divano, esplorando
sensazioni indescrivibili e puramente metafisiche, si stavano baciando. In
realtà, da quando erano entrati nella suite non avevano mai smesso di farlo. Da
quant’era che andavano avanti? Avrebbero potuto essere ore o giorni, nessuno
dei due sarebbe stato in grado di dirlo Le uniche pause che avevano fatto tra un bacio e
l’altro le avevano utilizzate per guardarsi negli occhi, per sorridersi e accarezzarsi
a vicenda, per stringersi forte l’uno all’altra e poi via, giù di nuovo a
baciarsi come se fosse una necessità maggiore del bisogno di respirare.
Mao sorrise contro le sue labbra, non credendo che tutto quel
che stava vivendo fosse vero. Sentire il suo sguardo su di sé, tuffarsi dentro
quel mare che pareva oro disciolto… Paradiso, paradiso e nient’altro.
Non si accorse nemmeno del suo cellulare che cominciò a squillare
incessantemente, aveva prestato attenzione solo alle labbra di lui scese lungo
il suo collo.
Ma poi vibrò nuovamente, facendola sbuffare. Rei la fissò e si tolse di
mezzo, permettendole di recuperare il telefonino dalla borsa.
La ragazza sbuffò vedendo una chiamata ed un sms da parte di Jared. Le
diceva che ci teneva alla sua presenza alla festa, raccomandandole di non
mancare.
“Tutto bene?”
Mao annuì, sorridendogli. “Solo uno stupido sms.” Rispose, andando a
sedersi vicino a lui. “Dove eravamo?” mormorò, ad un centimetro dalle sue
labbra.
Ma il bacio non avvenne, e per il fatto che il cellulare si mise a
vibrare nuovamente. Indispettita, la ragazza rispose tagliando la conversazione
più che poté, e quando due minuti dopo lo spense, sbuffò. “Certa gente è più
appiccicosa della colla.”
“Che succede?”
“Oggi ho mollato Kurt.” Rivelò, mordendosi le labbra. “E subito il suo
amico ci ha provato con me invitandomi ad una festa. Ho assicurato che ci sarò,
ma-”
Rei sbatté gli occhi, interrompendola. “Hai accettato l’invito?”
“Beh, sì, ma del tutto innocentemente. Poi lui è un tipo molto elegante,
ha già capito che con me-”
“Mao.” Il ragazzo la fissava, serissimo. “Non credi che significa
dargli false speranze?”
“No!” la sua esclamazione si spanse per tutta la suite. “Se una dice ad
un maschio no, è no. Non è forse, ritenta.”
“Io credo che tu non conosca la maggior parte dei ragazzi là fuori.” Puntualizzò.
“Dovresti-”
Mao cominciò ad alterarsi. “Non so cosa pensi, ma non sono un’ingenua.
In questi mesi sono maturata molto più di quanto tu possa pensare.”
Rei sospirò. “Lasciamo perdere la questione dell’ultimo periodo-”
“Perché?” surriscaldandosi, incrociò le braccia al petto. “Dovremmo
parlarne prima o poi, quindi parliamone.”
“Mao, questo è davvero un altro discorso.”
“No, è lo stesso!” esclamò, mentre una miriade di flashback le
bombardavano la mente. “Tu non vuoi che io vada perché hai visto cosa sono in
grado di fare.”
Le rivolse uno sguardo allucinato. “Scusa?”
“Ho passato gli ultimi cinque mesi a piangere e a cercare di essere una
persona che non sono, ma tutto questo mi ha insegnato a tirar fuori le unghie,
ad inseguire i miei veri sogni.” Accorata, lo fissò intensamente. “Ho fatto
degli sbagli, ho azzeccato qualcosa, ma non cancellerei nulla. Se ripenso al lavorare
all’avalon, ad essere andata a letto con Raùl, all’aver frequentato un tossicodipendente-”
“Sei andata a letto con Raùl?!”
“Di tutte le cose che ho detto hai sentito solo questo, vero?” replicò lei, stringendo le labbra. “Io non mi vergogno
di niente, se tu ti fai condizionare dal mio passato sono
solo problemi tuoi!” esplose, prendendo al volo borsa e cappotto per andar via
e sbattere la porta.
Stasera
alle 21.00 tieniti libera.
Non c’era che dire: i suoi sms erano schematici e freddi come lui, ma
in fondo miravano all’essenziale. Hilary veleggiò da una parte all’altra
dell’appartamento: erano le otto, e tra un’ora sarebbe passato a prenderla;
doveva ancora fare una marea di cose, tra le quali portare Freddie
da Hannah, visto che quella sera, a quanto sembrava,
non vi era nessuna nei due appartamenti.
Sospirò, rimirandosi allo specchio e sorridendo quando si vide con i
bigodini e l’accappatoio. In pieno stile anni ’50 indossò un paio di collant
rossi, una gonna a campana blu elettrico, e una camicia dello stesso colore dei
collant; si mise un paio di zeppe nere spuntate sotto la supervisione di Freddie che, scodinzolando, le ricordò quanto avesse fame.
Cominciò a preparargli la pappa in quattro e quattr’otto e, mentre lui
cenava, iniziò a cotonarsi il ciuffo, facendosi ridere per quanto sembrasse
uscita da un paio di vecchie fotografie retrò; ebbe appena il tempo di
truccarsi leggermente che il campanello prese a suonare, deciso.
Sbatté gli occhi, incuriosita: Mariam era
uscita con Max, quindi chi poteva essere, a meno che
Mao o Julia non avessero dimenticato le chiavi? Erano solo le nove meno venti…
… Kai.
Roteando gli occhi, divertita, aprì il portone, decidendo in fretta che
borsa portare e tastando i bigodini, per rendersi conto che avrebbero avuto
bisogno di ancora una decina di minuti.
“Dammi una macchina fotografica: non posso non poterti ricattare.”
Hilary alzò gli occhi al cielo. “Hiwatari, se
non sai fare le battute, non farle, okay?” Freddie
saltò addosso al nuovo arrivato facendogli le feste e prendendosi la sua dose
di coccole. “E comunque, sei in anticipo.”
“Affatto; ti avevo detto che per le 21.00 dovevi tenerti libera; non ti
avevo mai detto per che ora sarei passato.”
La giapponese incrociò le braccia al petto. “Ancora peggio: sei passato
senza avvisare. Avrei potuto essere in posizione alquanto scomode, da sola o
meno.”
Lui la inchiodò con lo sguardo. “Avresti potuto davvero?”
Sorrise, birichina. “Diciamo che per stavolta ti è andata bene.” Iniziò
a prendere il phon per velocizzare il processo con i bigodini, poi si rivolse a
lui. “Senti, per fare prima non è che porteresti Freddie
dalla dog-sitter? Così tra due minuti usciamo.”
“No, lui viene con noi.”
Hilary sbatté gli occhi, incerta. “Sul serio?” Lui annuì, come se non
fosse niente di particolare, facendola ridere. “Sentito, Fred? Così hai la
compagnia tutta la serata.” Fece, facendo saltare di contentezza il cagnolino
che scodinzolò, felice. Accese il phon e passò uniformemente l’aria calda su
tutta la testa, in modo che si asciugasse per bene. Quando passò a toglierli a
poco a poco, uno per uno, una cascata di serici capelli bruni ed ondulati le
ricaddero sulla schiena, perfetti.
Kai la osservò, apparentemente neutro. “Direi che sei in linea con il
posto nel quale andremo.” E, ignorando lo sguardo curioso di Hilary, passò a
mettere il guinzaglio al cagnolino.
Poche cose, ormai, erano in grado di sconvolgere la ragazza: vivendo a
New York erano più le cose che avevano visto che quelle che ancora mancavano
alla sua esperienza; ma quando davanti a lei si stagliò la vista di un’auto che
era indubbiamente una cabriolet, voltarsi di scatto verso di lui e fissarlo con
tanto d’occhi fu qualcosa di normale.
“L’ho affittata.” Spiegò, scrollando le spalle. “Ci servirà per
stasera.”
Freddie venne fatto salire sul sedile posteriore, e Hilary
cercò di dominarsi, nonostante continuasse a sentirsi con quella strana
sensazione interiore che la spiazzava. Per uscire con lei i ragazzi si
inventavano di tutto, ne aveva sentite di cotte e di crude; dagli abbordaggi
più kitch e scabrosi a quelli più sofisticati ed
eleganti, fino ad arrivare agli appuntamenti, che erano della stessa pasta.
Aveva visto ragazzi che l’avevano portata dappertutto, sia con macinini
che con auto chic del proprio paparino; ma mai nessuno, nessuno, si era spinto
ad affittare un’auto proprio per la serata speciale che avrebbero passato
insieme. E nessuno mai avrebbe portato con loro il suo cagnolino, ne era certa.
“Dov’è che andiamo?”
Quando si voltò a guardarla, colse subito il suo sguardo divertito e
criptico insieme. “Vedrai.”
Fissando l’orologio sorrise nel realizzare di avere ancora due belle
ore di tempo prima di dover andare ad allenarsi. Non sapeva bene come mai le
fosse venuta in mente quell’idea, ma sapeva soltanto che quando c’era lui di
mezzo la sua mente razionale e logica spariva per lasciare lo spazio ad un
animo emozionale ed emotivo.
A differenza delle sue amiche andava al Plaza
lo stretto necessario per raggiungere la sua squadra ed allenarsi: aveva capito
che quell’hotel stava divenendo un posto assurdo, fonte dei più loschi altarini
e dei segretucci più assurdi, ma lei non ne voleva
avere niente a che fare.
Dopo essersi fatta dire alla reception che piano e che suite fosse
quella degli americani, prese la via delle scale, preferendole senza dubbio
all’ascensore – specie dopo un certo racconto di una sua amica spagnola.
Raggiunse il terzo piano poco dopo, bussando leggermente alla porta e
aspettando: sapeva che il resto della squadra si trovava ancora allo stadio per
vedere in che girone sarebbero stati messi tramite sorteggio e che lui era lì,
che ronfava beatamente, preso dal colpo di sonno per aver passato in bianco la
notte precedente.
Quando la porta si aprì, le venne spontaneo sorridere sarcasticamente
alla vista dei suoi capelli arruffati e delle sue occhiaie. “I bravi bambini
devono andare a letto presto.”
Lui inarcò le sopracciglia, soffocando uno sbadiglio. “Potrei rigirarti
la stessa frase.” Borbottò, appoggiandosi allo stipite della porta, con nessuna
intenzione di farla entrare.
Mariam sorrise, lasciva. “Chi è che ha detto che sono una
brava bambina, esattamente?”
Il suo sospiro fece capire chi dei due aveva vinto la sfida verbale, e
quando l’irlandese fissò dritto negli occhi il biondo americano, decisa, lui
incrociò le braccia al petto. “Hai niente da dire, riguardo ieri?”
La mora ripensò al loro battibecco che li aveva fatti passare tutta la
notte a litigare: lei era stata tutto il tempo all’Avalon
a preparare drink e a sibilare nella sua direzione, così come lui era stato al
bancone, di fronte a lei, a rispondere a tono, tutta la notte fino alle sette
di mattina, fino a quando non si erano separati per andare in direzioni
opposte; tutto questo per una frase sbagliata.
“E’ partito tutto dal fatto che sei un idiota.”
Max inarcò un sopracciglio. “Ma poi avevi rincarato la dose, mi pare.”
Lei annuì, convinta e un tantino rossa in volto. “Infatti. Perché è
così.” Al suo sguardo incredulo, si avvicinò. “Sei un idiota, un perdente, uno
stronzo, e sei così infantile che certe volte ti prenderei a testate… Però…”
sospirò, mordendosi le labbra e incoraggiandosi ad andare fino in fondo. “Però
ti amo; così tanto da amare anche i tuoi difetti, perché se non facessero parte
di te non saresti la persona che sei.”
Le era costato fare quel discorso: le era costato tutto il suo orgoglio
e la sua faccia, lo si notava da come arrossì e abbassò gli occhi a terra, ma
capì che ne valse la pena quando sentì le sue braccia stringerle la vita e
sollevarla da terra in un impeto di gioia per poi, a sorpresa, portarla in
camera. Allora scoppiò a ridere, rovesciando la testa indietro.
Ma sì, abbiamo tempo…
“Non ci credo.” Si guardò intorno facendo tanto d’occhi, e fissò il suo
accompagnatore come fosse un alieno venuto dalla luna; Freddie
scodinzolò in adorazione accanto ad entrambi, prendendo a zampettare e a
fissare il posto in cui si trovava con curiosità mentre la giapponese fissava
l’aria circostante come qualcosa di assolutamente etereo. “C’è una spia, non
puoi aver fatto tutto da solo.”
Kai le lanciò uno sguardo furbastro. “Colpito.”
Hilary aggrottò la fronte. “Allora?”
All’entrata del parco giochi più grande di New York, Kai stette ben attento a tenere in mano il guinzaglio di Freddie e a fare in modo che la ragazza non pagasse i pop-corn né i biglietti. “Mi ha consigliato Takao.”
Scosse la testa, divertita. “Quell’idiota deve imparare a farsi i
fattacci suoi.”
Lui scrollò le spalle. “Sei sicura?” fece, conducendola nel posto
accanto al parco giochi, un prato dove si sedevano tutte le coppiette per
mangiare pop-corn e per guardare film in bianco e
nero. Hilary sorrise, estasiata. “Non so stasera cosa diano.”
Si accomodarono in un posto in disparte, accoccolati tra un albero e
una siepe; Freddie si acciambellò tra loro due,
prendendosi tutte le coccole possibili ed immaginabili, e quando iniziò il
film, il solo titolo fece saltare in aria la ragazza. “Eva contro Eva.” Bisbigliò, sorridente. “Adoro Bette Davis.”
“Lo so.” Mormorò, neutro.
Si voltò di scatto. “Allora non è vero che non sapevi cosa dessero.”
Era serio, i suoi occhi viola non cedettero nemmeno sotto lo sguardo
indagatore di quelli bruni di lei. “Sono bugiardo, che vuoi farci?”
Hilary scosse la testa e si voltò a guardare il film che procedette,
bellissimo, appassionante e lineare, come lei lo ricordava.
Le luci si spensero, e sulla schermata apparve il ‘the end’ scritto elegantemente che caratterizzava la fine
di ogni film in bianco e nero; la gente cominciò ad andare a poco a poco,
spargendosi a macchia d’olio per tutto il resto del parco; loro, invece,
rimasero lì, fermi nella loro postazione isolata.
La giapponese, rifocillata da quel film che le era sempre piaciuto e di
cui conosceva ogni attore e persona che vi era nella regia, attirò le gambe a
sé, estasiata. Quella serata stava procedendo in maniera anche migliore di come
poteva andare e lei era contentissima.
“Come ti è sembrato il film?”
Kai conservava quell’aria indecifrabile che lo contraddistingueva, ma
quando gli pose la domanda lo vide abbozzare una smorfia divertita. “Mh, interessante.”
Hilary strinse gli occhi, curiosa. “Spiegati.”
“Senza dubbio ha la sua morale nascosta – le occasioni perse, quelle
prese al volo, il mondo dello spettacolo… Però ha i suoi punti deboli.”
La ragazza rifletté, stimolata dalle sue parole. “L’assunzione di Eva
su due piedi?”
Lui annuì. “Eva è una fan e non è normale che presentandosi alla stella
del cinema, lei l’assuma su due piedi.”
La bruna lo fissò ammirata per quella recensione imbastita in quattro e
quattr’otto. “Non dimenticare che è grazie ad una serie di piccole attenzioni
che riesce a farsi notare dalla diva e a farsi assumere.” Fece notare,
attirando a sé le gambe. “A me piace, l’ho guardato molte volte.”
Lo sguardo di lui era un mix tra divertito e curioso. “Cos’ha di
speciale rispetto a veri colossal?”
Lei sorrise, entusiasta. “Innanzitutto delinea un ritratto raffinato e
mordace del mondo del teatro, se ne parla come fosse un vero ed autentico covo di serpi; la regia è
di una classe sopraffina, i dialoghi sono brillanti e taglienti, la fotografia
così fine e controllata che rende perfettamente l'idea dell'atmosfera teatrale,
e le interpretazioni sono tutte di grande livello, specie quella della Davies.”
Lui fece una smorfia poco convinta. “E’ stata brava.”
Lei si indignò. “E’ stata fantastica, ha fornito un’interpretazione
magistrale! Ha avuto la nomination agli oscar come miglior attrice non
protagonista!” esclamò, con una sonora linguaccia.
Il russo le si avvicinò facendola ammutolire, e quando premette le sue
labbra su quelle della ragazza, facendole annebbiare i sensi e dimenticare
tutto quello per cui si stava ritrovando a rimbrottargli contro, le passò le
braccia attorno ai fianchi, attirandola a sé. Si baciarono a lungo su quel prato
dove erano rimasti praticamente da soli, fino a quando non fu qualcosa, o per
meglio dire, qualcuno, a riportarli alla realtà.
Freddie, notando di esser stato lasciato solo, prese ad
abbaiare, come a dire che non ci stava a fare la candela tra i due. I ragazzi
lo fissarono per poi sorridere, infine lui si alzò in piedi e le porse la mano,
che lei accettò con un sorriso.
Il cagnolino osservò la scena con sguardo allucinato, non capendo nulla
di quello che stava accadendo, ma scodinzolando quando entrambi passarono a
ricoprirlo di attenzioni e coccole.
Mao non seppe se essere allarmata e preoccupata, o ringraziare
tacitamente Raùl per averle offerto, con quella
chiamata dal tono urgente, la possibilità di allontanarsi, per un pomeriggio, dal
rimuginare sulle cose avvenute.
A che gioco lui stesse giocando, avrebbe pagato oro per scoprirlo,
eppure più ci pensava e meno riusciva a decifrarlo. Si contraddiceva, prima
faceva una cosa e poi ne diceva una che era l’esatto opposto… Come tutti i ragazzi
che si rispettino, rappresentava l’indecisione fatta carne.
Sbuffando, entrò nel bar dell’hotel, aspettandosi di vedere un volto –
o anche due – a lei familiari. Quando riconobbe Julia, sorrise e le si
avvicinò; la spagnola le fece un cenno e un po’ di spazio per farla accomodare
accanto a lei.
“Hola, querida.” Sorrise la madrilena, accavallando le gambe; dopo una ventina di
secondi le rivolse uno sguardo smarrito. “Non dirmi che Raùl
ha chiamato anche te.”
Mao si accigliò. “Ora posso iniziare a preoccuparmi.”
Entrambe avevano ricevuto una chiamata da parte del fratello della
spagnola in cui il rosso diceva loro di farsi trovare al bar del Plaza per una certa ora perché si doveva parlare
urgentemente.
“Creo qué es una tontaria.” La madrilena lo disse, ma il suo tono rimase
allarmato, quasi spaventato. “Sarà una scemenza, vero?”
Mao provò a sorridere: dentro di sé, però, si sentì preoccupata. “Ma
sì, dai, non so cosa sarà ma vedrai che tra mezz’ora gli rimbrotteremo contro
che ci aveva spaventato per niente.”
Julia tirò un sospiro di sollievo, molto più rilassata. “Visto che
mancano ancora venti minuti… Che mi racconti?”
L’orientale aggrottò la fronte, sospettosa. “Dovrei rigirartela io,
questa domanda: com’è che sei così in anticipo quando solitamente sei sempre in
ritardo? Non me la racconti giusta, tu.” Julia strinse le labbra. “Ti sei vista
con Yuri?”
La ragazza dai capelli ramati scosse la testa, poi sospirò. “No, sono
semplicemente stata aquì… Nei paraggi.” Fece, sospirando. “Terrible, Mao, terrible: estoy pierdendo el control.”*
“Che intendi?”
“Te sembra normal venire aquì para…” s’interruppe mordendosi le labbra e digrignando
i denti, dopodiché emise un sospiro enorme, prendendo tempo. “Mao, no lo sé qué me pasò. So solo che mi ritrovo a venire improvvisamente
qui senza un motivo, pensare a lui continuamente, e non era previsto!”
Un sorriso dolce ma assolutamente irritante per la spagnola si fece
largo sulle labbra della cinese che sospirò. “Hai mai pensato che tu possa
provare qualcosa di molto forte per questo lui?”
Una sonora, ironica, nervosa risata provenne dalle labbra di Julia, che
scoppiò a ridere quasi con forza. “Chica,¡ tu alucinas!” sbottò, fissandola quasi con pena.
“Perché mai avrei le allucinazioni? Julia, in che ambito una persona
pensa ad un’altra continuamente, perché mai dovrebbe parlare continuamente di
quella, e per giunta con gli occhi che le brillano?”
La madrilena inarcò le sopracciglia. “Stizza?” all’inarcarsi di
entrambe le sopracciglia da parte dell’orientale, sbuffò. “No lo sé.”
Mao fissò l’amica con decisione. “Visto che non lo sai, immaginatelo
davanti; ci sei?” lei annuì. “Definiscilo. Ma sì, dai. Una definizione di lui.”
Julia si morse le labbra, poi guardò dritto fisso davanti a sé ed
infine si concentrò, sospirando. “E’ noioso, è divertente, è il più grande
coglione del mondo, mi fa venir voglia di urlare, mi rovina la giornata e ha il
potere di salvarla all’ultimo minuto; mi fa diventare matta, non lo sopporto e
come mi sta sulle scatole lui..!” arrestò il discorso, abbassando gli occhi e
avendo appieno la consapevolezza di ciò che aveva detto.
“...Ma è anche tutto ciò che voglio.” Sussurrò, impallidendo ed
esalando il discorso come fosse appena riemersa dall’acqua dopo essere stata a
lungo sotto.
Mao osservò l’amica ammettere a stento i suoi sentimenti, e capì quanto
per lei fosse stato difficile: era fin troppo facile far finta di nulla e
nascondersi dietro un dito, far finta che quei sentimenti non esistessero e
fingere che tutto andasse per il meglio. Non era così.
Con una mano ricoprì la sua, facendole capire che le era accanto, e la
strinse, dedicandole un sorriso. Julia era ancora con lo sguardo fissò nel
vuoto, i suoi bei occhi verdi che fluttuavano nello spazio circostante, ansiosi
di cercare un qualcosa che avesse dato loro una giusta dimensione.
“Ehi, va tutto bene.” Le sussurrò, incoraggiante. “Comunque vada, andrà
bene.”
La madrilena annuì meccanicamente, per poi battere le mani e forzare un
sorriso. “¡Animo,
chica! ¡Hay qué estar a la ultima!”*¹
Mao sorrise piena di ammirazione di fronte al coraggio e alla
determinazione dell’amica, poi annuì. “Assolutamente sì.”
“Tu come va con i tuoi due pretendenti?” chiese, lanciandole uno
sguardo ironico. “Mi pare che sei contesa, no?”
Mao sbuffò. “Non lo so, onestamente. Dopo aver scaricato Kurt-”
“¿Qué?”
“L’ho scaricato oggi e sono corsa da Rei. Guarda qui.” Fece, sbuffando
tristemente ed allungandole il cellulare.
Non voglio che tu vada.
Julia si accigliò a quel messaggio letto sul telefonino dell’amica, e
la fissò sconcertata. “Finalmente ha fatto un passo avanti… Era ora.”
“Già.” Borbottò l’altra, storcendo il naso. “Sono andata da lui, ci
siamo baciati per ore… Sembrava una specie di paradiso.” Con lo sguardo, la
madrilena la esortò a continuare. “Poi abbiamo avuto una discussione per uno
stupido sms che un ragazzo mi ha mandato. Si trattava solo di una festa! E
subito lui a dirmi cosa fare e cosa non fare; siamo passati all’argomento di
questi mesi, e siamo esplosi entrambi. Me ne sono andata sbattendo la porta.”
Julia la fissò con serietà. “Fai attenzione querida, perché questa situazione è delicata, e
sbilanciarla come hai fatto tu non è stata la mossa migliore. Stai camminando
sulla lama di un coltello: potrai scivolare da un lato o dall’altro, sta’ a te
decidere quando sarà il momento e da quale parte cadere; se non lo farai, la
caduta sarà brusca e dolorosa per tutti ma, soprattutto, per te.”
La cinese aprì la bocca per poi richiuderla; il discorso dell’amica
l’aveva colpita, e non sapeva cosa replicare. “Il fatto è che se io non fossi
innamorata… So che se non avessi fatto l’esperienza di New York…” sospirò
profondamente. “Non lo so, Ju. Non lo so.”
“Non puoi cambiare quello che è stato fatto, non puoi tornare indietro
nel tempo, non puoi cercare di cambiare sentimenti o aggiustare i cuori infranti.”
Replicò la madrilena, seria. “Tutto quello che puoi fare è imparare dai tuoi
errori, e sperare di non rimpiangere mai niente.”
A quelle parole la cinese si sporse ad abbracciarla, trovando conforto
in quel profumo dolce e forte che sapeva così di lei e che ormai adorava. Stettero
strette l’una all’altra per parecchi secondi, infondendo l’una coraggio
all’altra, sentendone il bisogno, fino a quando un sonoro schiarimento di voce
non le fece voltare: Raùl e Mathilda
erano davanti a loro.
I due ragazzi parevano stanchi, provati, spossati; presero posto
accanto alle due facendo un brevissimo cenno di saluto e lasciando le amiche
pressoché sbigottite.
“Ragazzi… Tutto bene?” Mao era basita: non aveva mai visto Raùl comportarsi così; per non parlare di Mathilda che pareva fuori dal mondo.
I due si lanciarono un’occhiata tesa, dopodiché si presero per mano.
Mathilda fissò entrambe le ragazze negli occhi, le labbra
serrate dalla tensione. “Sono incinta.”
*. “Terribile, Mao, terribile; sto perdendo il controllo.”
*¹. “Coraggio, ragazza! Dobbiamo abituarci alle cose nuove!”
Continua.
Scusate il deplorevole
ritardo! T______________T Non è colpa mia, non vorrei che pensaste che io sia
diventata una persona poco seria che non rispetta gli impegni, vi assicuro che
non è così. Amo questa storia e farò tutto quello che è in mio potere per
rispettare sempre le scadenze.
Intanto, perdonatemi!
T.T
By the way, definisco
questo capitolo il più brutto della storia, perché ogni cosa è legata ad un
filo, e dovrebbe trasmettere ansia – a parte la scena KxH
– ma non so se mi è venuto bene, onestamente. .-.
Spero di rimediare con
il prossimo “Damn Girl”, che sarà tra l’altro il
penultimo.
In questi ultimi
capitoli avrete molto da augurare, nel senso che: in questo dovrete augurarmi
buone feste (è un’imposizione, perché con l’arrivo del natale e roba varia casa
mia si trasforma in un’isola che accoglie parentame
vario tipo naufraghi, e di conseguenza le mie scatole saltano allegramente),
nel prossimo buon compleanno (cade il giorno prima. U.U) e nell’ultimo mi
augurerete buona fortuna per gli esami *trema di paura*
Però così, tutti auguri
spontanei. =D
Intanto sono io a farvi
auguri di buone feste, rilassanti e piacevoli. Ingrassate, mi raccomando. ;) E,
oh, se volete tenervi in allenamento senza dover andare in palestra… Basta che
clicchiate la scritta in basso. Recensire è un allenamento per le dita! U_U
Un bacione,
Hiromi
*sclerata*